Perché Paulo Fonseca viene criticato?

La Roma ha tanti buoni giocatori, ma ha anche evidenti difetti strutturali, ed è reduce da un periodo complicato in società. Eppure il tecnico portoghese l'ha reinventata più volte, e la tiene in corsa per obiettivi importanti.

Nell’estate 2013, il Porto aveva appena vinto il suo terzo campionato consecutivo. Il tecnico Vitor Pereira, dopo aver conquistato due edizioni di Primeira Liga succedendo ad André Vilas-Boas – di cui era assistente – stava lasciando il Portogallo per andare ad allenare in Arabia Saudita. Per mettere a fuoco quanto quel momento sia distante nel tempo, basta ricordare che James Rodríguez e Joao Moutinho sarebbero stati venduti al Monaco del magnate russo Rybolovlev nel giro di poche settimane. Per proseguire un ciclo che stava mutando negli uomini, il presidente Pinto da Costa scelse Paulo Fonseca, un giovane allenatore che aveva appena ottenuto uno storico terzo posto alla guida del Paços Ferreira, da tecnico esordiente in Primeira Liga. La squadra che aveva vinto l’Europa League si era ormai disgregata e Fonseca, al suo terzo anno da allenatore professionismo, si ritrovò a dover guidare un periodo di transizione in un contesto esigente e complesso. Durò fino a marzo, poi venne esonerato.

«Forse il mio modo di guidare la squadra non è stato il più adatto a convincerla delle mie idee. Non ho mai avuto nessun problema disciplinare, i giocatori mi rispettavano. La questione era un’altra: come li convinco?» ha detto molti anni dopo in un’intervista. «Sono migliorato, ho appreso, e oggi lavoro bene con calciatori di quel livello. Quell’anno al Porto è stato uno dei più importanti della mia carriera. Ho imparato molto ad adattarmi al gruppo che ho a disposizione e alle variabili di una rosa». Quando torna sulla sua breve esperienza ai Dragões, Paulo Fonseca parla di quei mesi come un passaggio decisivo della sua carriera, un addestramento alle difficoltà che emergono quando si alzano il livello, le responsabilità, le aspettative. Se il breve periodo al Porto gli ha imposto una crescita e le esperienze successive al Paços Ferreira, allo Sporting Braga e allo Shakhtar Donetsk gli hanno messo in mano molti nuovi strumenti, Roma è stato il contesto in cui ha dovuto utilizzarli tutti.

La narrazione più diffusa su Paulo Fonseca è quella di un allenatore brillante, con un percorso chiaro e un’idea di gioco riconoscibile. In un’intervista al giornale portoghese Tribuna Expresso, il suo storico assistente Nuno Campos ha raccontato come già all’inizio della loro carriera, tra settori giovanili e categorie dilettantistiche, pur con un impianto di gioco necessariamente meno elaborato, perseguissero un’idea di calcio analoga a quella attuale. Campos tocca i vari snodi della loro carriera, dal momento in cui Paulo alzò la voce nello spogliatoio dell’Aves, allora nella seconda serie portoghese, durante l’intervallo della loro prima partita, perché «il peggio che potessero fargli era decidere di non provare nemmeno a giocare a calcio», al modo in cui, allo Shakhtar, riuscirono a sostituire il sistema di marcature a uomo di Lucescu con la sua difesa a zona. La loro carriera progredisce senza rinnegare questo approccio: «È impossibile che cambiamo la nostra idea, perché crediamo nel nostro modo di giocare. Le nostre caratteristiche, per noi, sono un vantaggio, e crediamo siano fondamentali per il successo». E ancora: «Possiamo avere una sfumatura o un’altra, le caratteristiche dei giocatori possono incidere, ma il grosso del nostro modello non cambierà mai». Persino nella conferenza stampa della vigilia di Fiorentina-Roma, pochi giorni fa, Fonseca stesso ha evidenziato come nessuna squadra che ambisca a a vincere o a raggiungere obiettivi importanti stravolga la propria identità alla prima sconfitta.

Come per tutti gli allenatori che partono da un’idea chiara per costruire la propria squadra, il racconto di Fonseca, probabilmente, si è distorto fino a ingigantire i contorni del personaggio, di alcuni suoi aspetti, nonostante una delle sue doti più importanti che sono emerse, in questi quasi due anni di lavoro a Roma, sia stata proprio la capacità di adattarsi al materiale a disposizione. Questo non significa che la Roma non abbia un’identità di gioco forte, radicata, né che questa identità sia mai stata messa in discussione, ma il punto è che Fonseca ha sempre cercato di adattarla – e di adattarsi – per venire a patti con le circostanze. L’esempio migliore, perché più evidente, è il passaggio alla difesa a tre, provato nel corso della stagione 2019/20 e fissato nel post lockdown. Fino a quel momento aveva utilizzato il suo modulo preferito, il 4-2-3-1, scontrandosi con alcune contingenze legate alla rosa: Spinazzola e Florenzi erano giocatori troppo poco disciplinati per occupare il ruolo di laterale e mantenere contemporaneamente la stabilità del sistema; Kolarov, invece, aveva perso la brillantezza fisica sufficiente per interpretare il ruolo di laterale. Fonseca ha scelto quindi di passare a una linea difensiva a tre, probabilmente ritenendola la soluzione più vicina al punto di incontro tra tutte le esigenze della sua squadra in quel preciso momento: la necessità di un sistema che in quelle circostanze potesse garantire maggiore solidità, la valorizzazione dei singoli e una disposizione in un uscita particolarmente interessante. Kolarov venne dirottato come centrale di sinistra con grandi compiti in impostazione, Spinazzola fu liberato di nuovo largo a sinistra – dove è tuttora uno degli elementi offensivi più importanti – e, con la protezione dei tre centrali, persino un giocatore ai margini come Bruno Peres ritrovò un ruolo.

Con l’inizio della nuova stagione, la Roma è stata travolta dal cambio di proprietà e il progetto tecnico è rimasto a metà del guado. La sessione estiva è stata condotta dalla dirigenza in attesa di un nuovo direttore sportivo e ha portato gli arrivi di Pedro e Borja Mayoral, rispettivamente a parametro zero e in prestito, oltre all’acquisto di Smalling a titolo definitivo. La difesa è praticamente rimasta intatta, se non per la cessione di Kolarov, rimpiazzato definitivamente nelle gerarchie da Ibañez. Il centrale brasiliano è ancora acerbo nelle letture, ma è aggressivo e soprattutto abile nel gioco coi piedi, quindi ha mantenuto stabile l’idea di reparto che Fonseca aveva disegnato in fase di possesso. Nel complesso, la Roma è una squadra idealmente spezzata a metà, con un centrocampo e una trequarti composti da giocatori intelligenti, tecnici, abili tra le le linee o persino totali, nel caso di Veretout, che sembrano fatti per la ricerca di protagonismo che caratterizza il calcio di Fonseca; la difesa, invece, è un reparto di giocatori aggressivi e forti nell’anticipo, sempre alla ricerca di un equilibrio tra la scarsa inclinazione a giocare il pallone dei suoi interpreti più solidi e le lacune difensive di quelli più abili in uscita. L’unica soluzione possibile, in questi casi, è accettare un compromesso: tra il costruire una squadra iperaggressiva che avrebbe messo più a loro agio gli interpreti difensivi rispetto ai centrocampisti, e puntare su un sistema che valorizzasse gli uomini di maggior talento, peraltro attraverso i principi che lo hanno accompagnato durante tutto il proprio percorso da allenatore, Fonseca ha scelto la seconda. Si è quindi inventato Bryan Cristante come difensore centrale, accettando qualche impaccio per un’uscita più pulita e, in assenza delle condizioni per assemblare il suo 4-2-3-1 ideale, ha mantenuto il sistema con la difesa a tre, ha esaltato tutti i suoi singoli offensivi e ha impresso un’identità stabile alla squadra.

Da quando è arrivato a Roma, Fonseca ha accumulato 34 vittorie, 12 pareggi e 15 sconfitte in 61 partite ufficiali di tutte le competizioni (Emilio Andreoli/Getty Images)

La stagione di Fonseca, finora, è stata un campo minato di attenuanti che non ha mai accettato di prendere come alibi. Quando gli è stato chiesto un parere sulla pressione dell’ambiente mediatico romano, ha ritenuto fosse una scusante a cui chi allena una squadra prestigiosa non può appellarsi. Questo non significa che non l’abbia percepita e che non abbia dovuto farci i conti, finendo per attaccare l’eccessiva severità delle critiche nei confronti della sua Roma. Ha avuto uno scontro con Edin Džeko, la figura più importante del suo attacco, della sua rosa, e ha dovuto gestire la questione sia davanti al gruppo che in campo, ritrovandosi costretto a puntare più del previsto su Borja Mayoral, un centravanti completamente diverso dal bosniaco, che nelle proprie corde non ha il suo lavoro da pivot e rifinitore. Ha dovuto fare i conti con diversi infortuni, ultimi quelli nel reparto arretrato, che hanno minato ulteriormente un equilibrio già toccato da grossi difetti strutturali.

La Roma è una squadra con pregi evidenti, come la capacità di giocare rapidamente, aprirsi gli spazi palleggiando e trovare la verticalità, ma con altrettanto evidenti fragilità. Nel complesso, il rendimento è stato finora positivo: i giallorossi sono a due punti dal quarto posto, nel pieno di una lotta per la qualificazione in Champions League dal livello medio piuttosto alto, e ancora in gioco in Europa League. Le enormi difficoltà riscontrate nell’affrontare le squadre di alta classifica – solo tre punti conquistati su 24 disponibili nelle gare contro Juve, Milan, Napoli, Lazio, Inter e Atalanta, compensati peraltro da un cammino eccellente nelle altre gare – sono una tendenza non certo rassicurante, ma analizzando il percorso della Roma fin qui, la base di partenza e le difficoltà incontrate, l’impressione è che le situazioni su cui Paulo Fonseca ha saputo intervenire, riordinando le cose, siano più di quanto sembrino, di quanto si dice.