Anche il modo di vestire dice molto della personalità dei tecnici: il loro stile, nel tempo, è riuscito a dare vita a vere e proprie tendenze.
Mi sono guardata due volte Mi chiamo Francesco Totti di Alex Infascelli. La storia di un grande campione, la celebrazione, impastata di tanti sentimenti, dell’eroe sportivo sempre fedele alla maglia. Il capitano. Per sempre. La voce di Totti tiene insieme il film con un racconto asciutto nella resa delle emozioni. La squadra è una sola, la Roma, ma lunga e variegata è la lista degli allenatori che formano il giocatore Totti e ne indirizzano la carriera, tanto lunga da comporre una sorta di atlante di visioni del calcio e di moduli.
«Forse si ha la tendenza a esagerare l’importanza dei tecnici. Servono a scegliere i giocatori, a fonderli in una strategia di gioco che sia la stessa per tutti, a dare coraggio. Ma niente di più», scrive Osvaldo Soriano in Ribelli, sognatori e fuggitivi, enciclopedia portatile dei suoi miti prediletti in cui molte pagine sono dedicate al calcio, la sua grande passione, con affermazioni tranchant sugli allenatori: «Non si può chiedere a un uomo di essere intelligente e sensato allo stesso tempo. Il tecnico pianifica una partita o un intero torneo, ma i giocatori hanno sempre l’ultima parola». Sono in disaccordo con Soriano, però lui scriveva nel secolo scorso e aveva una visione del calcio più artigianale, legata alla giocata risolutiva del grande fuoriclasse. Il mister è una figura carismatica, un personaggio romantico, che riassorbe le emozioni nel cinismo necessario, uno straordinario addensato caratteriale di qualità e difetti che fa sempre la differenza. Lui deve far diventare squadra un gruppo di singoli: giocatori ciascuno con il proprio specialissimo talento, costretti ad accettare il ruolo che l’allenatore decide di assegnare loro, una polifonia di nazionalità e culture, giovani uomini che spesso hanno sacrificato studio, amicizie, amori, la vita normale per arrivare a fare il mestiere dei loro sogni e che improvvisamente si ritrovano, assolutamente impreparati, molto ricchi e famosi. Uno psicologo, uno stratega, un motivatore. Un attore protagonista condannato a interpretare il ruolo del vincente in ogni club, in ogni situazione, per non finire nella lunga lista delle promesse mancate.
Mi viene in mente quell’Andrea Stramaccioni, aria da bravo ragazzo in gita, arrivato, per una serie di coincidenze fortunate, ad allenare l’Inter dopo la destituzione di Claudio Ranieri. A bordo campo Stramaccioni è sempre rigorosamente in camicia bianca e cravatta nei colori della divisa della squadra, a ribadire ruolo e appartenenza. Perché in fondo la divisa, quell’uniforme borghese che nasce dalla grande rinuncia maschile agli abiti colorati, alle parrucche e a molto altro, ha una sua qualità estetica che si trasforma in una sorta di etica visuale che funziona sempre. E per gli allenatori ancora di più.
«Arrivava a pranzo in ritardo, agli appuntamenti ufficiali senza la divisa, […] certe volte girava per Milanello con indumenti di colore sgargiante. Pareva John Travolta»: così Andrea Pirlo nell’autobiografia Penso quindi gioco descrive Fatih Terim, l’allenatore turco approdato come un alieno al Milan. Come poteva uno che non indossava la divisa essere rappresentazione plastica di un club così titolato? Però che tristezza nella quotidianità il casual piccolo-borghese di Stramaccioni, composto di pezzi banali come il jeans anonimo, il giaccone, la felpa con il cappuccio, senza nessun guizzo, in pendant nelle fotografie con l’abbigliamento della fidanzata diventata poi moglie. Non posso fare a meno di pensare al Marcello Lippi nazionale. Ce lo restituisce, in tutto il suo fascino da attore vecchio stile, uno dei passaggi del film dedicato a Totti. Lo vediamo quando, il 20 febbraio 2006, esce dall’ospedale dove è andato a trovare il capitano della Roma, operato dopo l’infortunio. Intervistato, risponde che lo aspetterà fiducioso per i Mondiali (che poi saranno vinti dall’Italia). Lui, Lippi, indossa con noncuranza intrisa di fascino erotico il classico cappotto cammello, sotto c’è una T-shirt bianca. Sembra tutto a caso. Però i riferimenti, se ci pensiamo un momento, sono il Marlon Brando di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci oppure l’Alain Delon di La prima notte di quiete di Valerio Zurlini (entrambi del 1972). Marcello, che guarda caso condivide il nome con quel seduttore suo malgrado che è stato Mastroianni, non era simpatico, non voleva piacere ma aveva quel fascino guascone inconfondibile che lo rendeva personaggio affascinante sempre e comunque.
Oggi l’allenatore ci pare sperduto, oggi che «non c’è niente, niente che rappresenti meglio la fine del Novecento come i nostri stadi vuoti degli ultimi mesi, relitti di un mondo finito, cattedrali di un altro tempo […]. E li vediamo così, proiettati nel futuro, abbandonati, perché c’è qualcosa che ci dice che non serviranno più, perché i secoli finiscono, e le cose cambiano, e lo sport in questi pochi ma definitivi mesi ha concluso il suo trapasso da mito popolare a intrattenimento individuale e digitale, alimento di quella solitudine collettiva che sempre più sembra essere la cifra del nostro tempo nuovo», come ha scritto Giovanni Francesio su Il Foglio Sportivo. Oggi l’allenatore è una figuretta ritagliata nell’immensità dello stadio vuoto, oppure è sprofondato in quelle terribili poltrone che depotenziano ogni postura attiva. Pare naturale che Roberto Mancini, il mister della Nazionale, positivo al coronavirus, nelle ultime partite di Nations League stia in remoto, mentre ad agire sul campo è il suo vice. Che differenza può fare oggi, nello strano limbo in cui ci troviamo?
Mancini è uno di quei bravi ragazzi (magari anagraficamente è azzardato, ma conta l’attitudine) oggi alla guida di diverse squadre. Sono stati ottimi giocatori, poco inclini alla trasgressione. Dedicati in maniera quasi maniacale a coltivare il loro talento. Vita tranquilla, stile tranquillo. Mancini ha un debole per le grandi sciarpe di cachemire che gli incorniciano il volto, più decorative che funzionali, spesso azzurre come il colore degli occhi. Impeccabile. Il ritratto di una nuova borghesia dello sport. La rappresentano bene anche i fratelli Inzaghi, Filippo e Simone. Calciatori prima, con fortune diverse, più bravo Filippo e meno brillante Simone, poi diventati allenatori. Simone, mister della Lazio con buoni risultati, ha superato il fratello, che adesso guida il Benevento. Filippo aveva cominciato dalla vetta, ma si è dovuto ridimensionare dopo alcune batoste incassate bene ed essersi reso conto che la gavetta comunque è utile. I due fratelli, anche nelle conferenze stampa più complicate, nei dopo partita più tumultuosi, restituiscono con la loro inflessione piacentina un modo di essere che è parte integrante della maniera stessa in cui portano il completo della squadra. Sono sicuramente bravi, ma senza glamour, almeno nel senso primigenio di questa parola, variante dell’antico inglese gramarye, la dottrina occulta praticata dagli eruditi che conoscevano la “grammatica”.
Quella dottrina occulta, quella conoscenza della grammatica del match che era invece del Mago Helenio Herrera. Designato anche HH, come una diva. Icona di un modo di essere e di agire. “Classe + Preparazione Atletica + Intelligenza = Scudetto” era una delle frasi motivazionali che faceva scrivere negli spogliatoi in modo che i giocatori avessero sempre presente che la vittoria è frutto di un insieme di azioni e intenzioni. Un vincente, un incantatore, un avventuriero elegante nelle sue camicie bianche dai colletti inamidati a far risaltare il fascino argentino. È sepolto nell’isola di San Michele a Venezia, la città dove aveva deciso di vivere. Suo era un modo di essere e di agire che viene in mente osservando anche altri allenatori dal fascino latino. Perché loro sono così, tra il guru e il lottatore. Intrisi di una filosofia di vita che si riflette nel modo di essere giocatori prima e allenatori poi. Intellettuali del pallone ma anche toreri che nel tempo della partita si giocano la vita. Penso a José Mourinho, The Special One, l’antipatico per eccellenza. Ma un genio delle imprese impossibili. Una faccia che incute rispetto, anche ora che la sua fortuna è appannata. Ascetico nel modo di vestire. Sempre di scuro, comprese le camicie, sempre inappuntabile nei completi maschili. Sportivo solo negli allenamenti, ma si capisce che non è il suo genere. Circola qualche immagine di lui in smoking e pure sorridente, ma è sicuramente un errore. Il suo grande rivale Pep Guardiola è rilevante in altro modo. Lui ha una carriera prima di giocatore e poi di allenatore stratosferica. Guardiola però poggia la sua autorevolezza, oltre naturalmente che sulla qualità del suo lavoro, su una presenza senza crepe caratteriali. Alto, magro, con la barba brizzolata, la bella testa rasata. Si veste come Steve Jobs. Maglia girocollo o maglione a collo alto nero. Un asceta del pallone che ugualmente incute rispetto, anche per le scelte che sono sempre frutto di complessi ragionamenti fondati sulle proprie attitudini. «Molto elegante come i suoi discorsi».
Oggi però ci mancano tutte quelle ormai lontanissime intemperanze queer dei giocatori, divenuti pure loro uno schieramento di soldatini. Ridateci i vistosi orecchini di brillanti, i cerchietti, i tagli alla moicana, le ossigenature esagerate. O lo smalto sulle unghie esibito dal nostro mito David Beckham. Tutte trasgressioni camp che impastavano di eros ambiguo il mito maschio dell’eroe, rendendolo ancora più sexy. Purtroppo l’imperante politically correct nella declinazione “bravo e affidabile” ha dato una bella piallata di perbenismo di facciata. È interessante come la diffusione sempre più vasta di una mitologia sportiva abbia operato vere rivoluzioni nell’abbigliamento, segnando irreversibilmente gli stili globali dei cittadini del mondo e mettendo in scena la metamorfosi dello sport da attività legata al gioco, alla competizione, alla disciplina del corpo a spettacolo universale che ingloba tecnologia, politica, moda, arte, comunicazione, pop culture. Mentre quelli che lo sport lo progettano sul campo coltivano un’immagine conforme a un’idea condivisa di eleganza maschile.
«Non punterei nemmeno un centesimo su un mio futuro da allenatore. È un lavoro che non mi entusiasma, prevede troppi pensieri e uno stile di vita esageratamente simile a quello dei calciatori. Ho già dato. Rivoglio indietro, almeno in parte, una parvenza di vita privata», scrive, sempre in quel libro dimenticabile che è Penso quindi gioco, Andrea Pirlo, uno che sa il significato dell’espressione “il bello utile” e che ha reso il calcio simile all’arte concettuale, ma che giustamente cambia idea quando gli si presenta una buona occasione. Così, con lui, ieratico nella sua folta barba, la Juventus è riuscita nell’impresa di cancellare Maurizio Sarri, un tecnico che il club, in una strana congiunzione astrale, aveva pensato di plasmare a sua immagine, ma che nel suo stile sgangherato aveva i segni indelebili di una stravaganza inaccettabile, per esempio indossando sempre e comunque una tuta, quella tuta che, nella stessa Toscana da cui l’allenatore proviene, continua a chiamarsi “toni”, cioè a rievocare nel nome i pagliacci del circo.