Sogno di un’Europa scomparsa — Unione Sovietica

Come sarebbero gli Europei se ci fosse ancora la Nazionale dell'URSS?

È il 25 marzo 1957. La storia dell’Europa sta per cambiare per sempre: di comune accordo gli Stati europei decidono di fondare la CEE (Comunità Economica Europea) che, con il tempo, si trasformerà in quella che conosciamo come Unione Europea. Tre anni dopo nasce il primo Europeo di calcio. Sul tetto d’Europa, a dividersi il podio, ci sono tre stati dell’Est: Unione Sovietica, Jugoslavia e Cecoslovacchia. Da quel 25 marzo sono passati 64 anni, 61 dalla prima edizione degli Europei. Tutto è cambiato: nessun Paese di quel podio, per esempio, esiste più.

Il 25 marzo 2021, a pochi mesi dal primo Europeo itinerante, abbiamo pensato di celebrare quella prima scintilla, il momento che ha dato origine al tutto, con una domanda e una storia impossibile: come sarebbe l’Europa se Urss, Jugoslavia e Cecoslovacchia esistessero ancora? Ma soprattutto, come sarebbero gli Europei?

 

1960

Le maglie hanno le maniche corte: è il 10 luglio e a Parigi fa caldo. Il mondo, al contrario, sta vivendo la guerra più fredda di sempre, ma forse ancora non se ne rende conto (le minime si toccheranno tra un paio di anni, dalle parti di Cuba); e poi, si sa, lo sport riscalda sempre gli animi: si gioca la Finale del primo Europeo della storia. Urss contro Jugoslavia. È il 1960. A ricordarlo negli anni a venire, una foto. Sono anni di celebrazioni sobrie e didascaliche, senza mascotte e gare tra agenzie di design per aggiudicarsi il logo dell’evento: al centro della foto, un pallone su un piedistallo, sul quale è scritto, nero su bianco, Coupe d’Europe 1960. Dietro il pallone, in piedi, c’è l’arbitro, l’inglese Ellis; ai suoi fianchi i due capitani.

Al capitano dell’URSS, Igor Netto, la maglia va un po’ larga: ha il fisico asciutto, il naso grande e gli occhi accesi e sembra uno dei personaggi della commedia dell’arte veneta, zona dalla quale il suo trisavolo si trasferì nella Grande Russia nel XVIII secolo. Il design della divisa, a dire il vero, non aiuta: lo scollo a V eccessivamente aperto, il colletto ampio e le maniche che scivolano sulle braccia fanno sembrare i sovietici dei ragazzini. Tranne Yashin, ovvio, che è anche l’unico a non sfoggiare sulla sua divisa tutta nera la scritta Cccp: non ne ha bisogno, lui è l’Unione Sovietica. Sulla maglia di tutti gli altri, invece, a caratteri cubitali bianchi sul tessuto rosso, eccole, le quattro lettere: non c’è bisogno di nient’altro, non di uno stemma, né di falce e martello, né di una stella.

Una maglia per dire tutto: per gridare che l’Unione Sovietica ha vinto la Seconda Guerra Mondiale, per suggerire che ne vuole vincere un’altra, per ammiccare che ha messo gli occhi (e qualche suo uomo) in Europa e per avvertire che nel frattempo vuole trionfare anche nel primo torneo di calcio del Continente. Chissà cosa ne penserebbe, Monsieur Europe, se solo fosse vivo. 

Passo indietro: cinque anni prima, sempre a Parigi, moriva Henri Delaunay, detto Monsieur Europe, che del calcio aveva fatto la sua grande passione. Prima calciatore, poi arbitro di calcio, poi dirigente sportivo (avanzamento in carriera dovuto anche al fatto che durante una partita che stava arbitrando un pallone lo colpì in faccia facendogli perdere due denti e ingoiare il fischietto), Delaunay aveva capito l’importanza poderosa dello sport che tanto amava. Non a caso divenne il primo presidente del Cfi, Comité Français Interfédéral, che verrà trasformato in seguito in Fifa grazie all’aiuto di Jules Rimet, con il quale aveva ideato la famosa Coppa del Mondo. Ma Monsieur Europe voleva altro: una competizione sportiva, strutturata come un campionato, tra Nazionali europee. Propose la sua idea alla Fifa, che tuttavia non diede il suo parere favorevole. Complice anche la diffidenza della Francia verso il calcio (ancora tutta presa dal ciclismo), Delaunay trovò incredibili resistenze. 

Si respirava un’aria eccitante, in Europa, un’aria di unificazione. Basta nazionalismi: troppe guerre, troppo sangue. Delaunay era uomo dalle antenne dritte e quando nel 1952 Belgio, Francia, Germania Occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi fondarono la Ceca lui pensò che forse l’unificazione europea non fosse solo questione di accordi economici, ma anche di magliette di lana, pantaloncini, scarpini e palloni. Non vedrà mai la sua intuizione diventata realtà grazie agli sforzi di suo figlio, Pierre. Ma chissà che faccia avrebbe fatto davanti alle defezioni di Inghilterra, Scozia, Germania Ovest, Italia, Belgio e Svizzera (solo per citare le maggiori Nazionali): semplicemente quella prima volta la sua amata Europa sceglie di non partecipare. E chissà come sarebbe suonata, detta dalla sua bocca così educata, l’imprecazione che sarebbe seguita all’elenco delle Nazionali che invece accettano l’invito: oltre alla sua Francia, alla Grecia, la Turchia, la Norvegia, l’Austria, il Portogallo, la Spagna, la Danimarca, c’è il blocco dell’Est quasi al gran completo. Da speranza di rendere più unita l’Europa grazie al calcio, la prima edizione del Campionato Europeo diventa una passerella per Urss, Jugoslavia, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania e Germania Est. 

È ovvio che l’Urss ha vita relativamente facile. Dopo aver battuto l’Ungheria e aver vinto a tavolino entrambi gli scontri con la Spagna (Franco aveva categoricamente vietato ai suoi giocatori di affrontare i comunisti), supera la Cecoslovacchia in semifinale con un tranquillo 3 a 0. Il 10 luglio del 1960, invece, la partita è un po’ meno tranquilla. I sovietici arrivano dal Grande Freddo per battere quelli che avranno un soprannome ispirato a uno dei Paesi più caldi del mondo: gli jugoslavi, conosciuti come i brasiliani d’Europa. 

Nel primo tempo, infatti, i sovietici faticano a fronteggiare la proprietà di palleggio e l’intelligenza tattica degli jugoslavi e vanno in svantaggio per colpa di Milan Galic, che riesce a mandare in rete un tiro-cross di Drazen Jerkovic. È proprio in situazioni come queste che c’è bisogno di un campione e Yashin, all’apice della carriera, risponde alla chiamata. Grazie ad alcune parate eccezionali, specialmente su alcuni bolidi scagliati da Kostic su calcio di punizione, mantiene l’Urss a galla. Cosa che non riesce, nel secondo tempo, al numero uno avversario Blagoje Vidinic, estremo difensore solitamente affidabile e sicuro, che non trattenendo un tiro da lontano di Valentin Bubukin consente a Slava Metreveli di pareggiare. La vittoria arriva ai tempi supplementari, grazie a Victor Ponedelnik, che segna con un colpo di testa. 

Dopo 120 minuti i sovietici fanno il giro di campo a Parigi, navigando nelle loro divise larghe: in testa il capitano Netto che porta con sé la Coppa Henry Delaunay (così è chiamato il Trofeo) e dietro di lui Yashin e quella Nazionale che getterà le basi per permettere all’Unione Sovietica di dominare praticamente le successive tre ed essere protagonista fino agli Anni Ottanta. 

Un’immagine della prima, storica finale degli Europei: il 10 luglio 1960, l’URSS batte per 2-1 la Jugoslavia e si aggiudica la prima edizione del torneo continentale (Staff/AFP via Getty Images)

2021

Adesso proviamo a giocare con l’immaginazione. Proviamo a fare un salto di 61 anni in una dimensione temporale parallela in cui il 26 dicembre del 1991 è solo un semplice Santo Stefano e sui giornali non si annuncia la dissoluzione dell’Urss ma si parla di una cosa qualunque, una recessione più o meno grave, ecco. Insomma: proviamo a immaginare che Europeo potrebbe affrontare l’Unione Sovietica, se esistesse ancora.

Quale sarebbe il suo obiettivo? Quello di tornare agli antichi fasti e di vincere questa edizione; o perlomeno di viverla da protagonista. Il calcio è sempre uno specchio della società, anche se ucronica, come questa che stiamo raccontando, e il soft power sovietico non si esprimerebbe soltanto sui campi di calcio, ma anche nella corsa a Marte: in competizione con la sonda Perseverance della Nasa, l’Unione avrebbe probabilmente organizzato una sua personale impresa spaziale, magari con una nomenclatura che pesca dal glorioso passato cosmonautico, come è già successi con il vaccino Sputnik: la navicella Gorbaciova.

Senza la frammentazione delle Repubbliche socialiste, poi, un immenso capitale umano sarebbe ancora unito sotto un’unica bandiera, sia in campo, come vedremo, ma anche nei ruoli dirigenziali. Chi meglio di Roman Abramovich, che negli ultimi anni ha contribuito a ridefinire il calcio europeo con il suo Chelsea, potrebbe interpretare un ipotetico Segretario Generale del Partito intenzionato a portare, ad ogni costo, la bandiera Cccp sul podio europeo? Abramovich conosce bene il ruolo del calcio come motore del potere politico di una nazione, e sa quanto i risultati di una squadra siano importanti per il morale dei tifosi e cittadini. In questo caso, una vittoria delll’Urss renderebbe ancora più forte, simbolicamente, il successo della missione marziana.

Ecco quindi il ruolo delle maglie. Prima di tutto il colore: rosso come la sua bandiera e come Marte, ormai ribattezzato “Il Pianeta russo”. A realizzarla sarebbe lo sponsor tecnico di proprietà del Partito, “Sport i Rabota” (“Sport e Lavoro”, in russo). Come texture, una realizzazione quasi fotografica del terreno di Marte che copre tutta la maglia, ricavandolo dalle prime foto della sonda. Ma quella che sembra l’aspetto più significativo è l’assenza della scritta Cccp, alla quale eravamo tutti abituati e in qualche modo affezionati. Al suo posto lo stemma dell’Unione, sobriamente stilizzato e sistemato in alto a sinistra.

Per venire al campo, chi guiderebbe la Nazionale Urss in questo presente immaginario? La scelta più luminosa non potrebbe che essere su Andriy Shevchenko. L’aura di giocatore leggendario non lascia dubbi sul fatto che sia la persona giusta per guidare l’Armata Rossa alla conquista dell’Europa. Il suo gioco risente sia delle lezioni di Lobanovski, che danno corsa e imprevedibilità al gioco, sia delle geometrie di Ancelotti. D’altronde, tornando velocemente al nostro presente, con l’Ucraina Sheva sta facendo davvero bene: citofonare Francia per la prima partita di qualificazioni ai Mondiali e riguardarsi tutto l’ottimo girone di qualificazione per l’Europeo (quello vero, stavolta).

Il mix di talenti che, dalle coste del mare del Nord alle pianure del bassopiano Sarmatico, si potrebbero schierare è una miniera di meraviglie, da giocatori esperti come Mkhitaryan a astri nascenti dalla classe purissimo come Golovin e Shomurodov, in un 433 dall’altissimo tasso di genio. Chi potrebbe schierare, quindi, se prendiamo in considerazione questo enorme bacino? Allo zoccolo duro di russi, composto dal portiere Shunin, dai difensori Semenov e Smolnikov, e dai talentuosissimi Miranchuk e Golovin, si potrebbero aggiungere elementi della grande scuola ucraina (Zinchenko, Krivtsov, Kovalenko e Malinovsky), difensori georgiani come Kashia e un asse armeno-usbeko, con Mhikitarian e Shomurodov. Ecco quindi l’ipotetico 4-3-3: Shunin, Zinchenko, Kashia, Semenov, Smolnikov; Kovalenko, Miranchuk, Malinovsky, Golovin, Mhikitarian, Shomurodov. Un 2021 immaginario per un’Unione Sovietica che ha scelto una squadra e un allenatore per completare la missione: conquistare l’Europa come la Nazionale di Netto e Yashin fecero 61 anni fa a Parigi e farla diventare rossa come il Pianeta appena conquistato.