Guardi Pablo Longoria e non sai se dargli cinquant’anni oppure diciotto. La corporatura minuta e il pizzetto sparuto – che gli punteggia il viso liscissimo, come se fosse fatto di segni di matita – sembrano quelli di un ragazzino che vuole apparire adulto. Al contrario, la gestualità e il tono della voce incredibilmente pacati esprimono la tranquillità di chi è già fin troppo maturo per la sua età. Quando sorride, gli zigomi si frastagliano di rughe che tradiscono le ore passate a studiare prospetti a discapito di un ciclo sonno-veglia regolare. Del resto, di tempo per dormire ne hai poco quando hai compresso una vita intera da dirigente sportivo in quattordici anni scarsi. Sì, perché Pablo Longoria di anni ne ha 34, e da qualche settimana è diventato il presidente dell’Olympique Marsiglia al termine di processo di crescita vertiginoso che ha attraversato Inghilterra, Italia e Francia e lo ha portato da una provincia spagnola alla guida di una nobile del calcio europeo.
Il personaggio Pablo Longoria resta sfuggente: in Italia è conosciuto agli addetti ai lavori per i suoi trascorsi nel reparto scouting di Atalanta, Sassuolo e Juventus. È stato definito il «genietto di Vinovo», che è solo una delle formule preconfezionate con le quali si è provato senza successo ad inquadrarlo: nerd, genio, santone, enfant prodige, impostore, ma nessuna di queste riesce a racchiudere tutte le sfumature di un dirigente così atipico. Il suo arrivo a Marsiglia è coinciso con uno dei momenti più turbolenti della storia recente dell’OM. In meno di un anno, infatti, Longoria ha già dovuto affrontare un terremoto societario, una rivolta popolare e il licenziamento di un suo idolo giovanile.
Ma chi è Pablo Longoria? È prima di tutto un ambizioso: del resto non si sale dallo scantinato all’attico del calcio europeo senza la volontà di «asumir retos», accettare sfide sempre più grandi. Secondo, Pablo Longoria è un ossessivo compulsivo che ha fatto dello scovare talenti la sua missione. Dice di parlare più con il proprio allenatore che con la sua donna, si sente male se non guarda sei-sette partite al giorno e potrebbe recitare a memoria la formazione titolare dell’Albacete. Anche ora che la sua posizione gli impone mansioni più burocratiche, lo scout che c’è in lui continua a sussurrargli di cercare talenti.
Una conoscenza così enciclopedica richiede soprattutto tempo e sacrificio. Non è un caso che quando gli chiedono dei segreti del suo successo, Longoria non fa che sottolineare l’abnegazione ascetica a cui si è sottoposto per farsi strada. «Ho sacrificato molte cose nella mia vita, a livello personale, per migliorarmi costantemente nel mio lavoro». L’aneddotica sui sacrifici di Longoria è sconfinata e ha certamente contribuito ad ammantare il suo personaggio di una sorta di alone mistico. Mentre i suoi coetanei passavano le serate a bere sidro e ingozzarsi di cachopo per le vie di Oviedo, un diciottenne Pablo stava barricato in una cameretta adibita a laboratorio di analisi calcistica: quattro antenne paraboliche e cinque videoregistratori per consumare tutto il calcio possibile, le uniche soste erano quelle per cimentarsi con il calcio virtuale di Fifa e Football Manager.
Il sogno inizia a materializzarsi quando Pablo viene notato dall’agente Eugenio Botas, che lo consiglia a uno dei suoi assistiti, Marcelino. Il tecnico spagnolo decide di portarlo con sé al Recreativo Huelva, affidandogli lo scouting per il mercato. Longoria è un ventenne mingherlino e con i capelli disordinati che gli spiovono sulle tempie, e inizia a farsi notare per il suo talento. Nel giro lo chiamano, più o meno ironicamente, “El Chico de la Play”, un epiteto che gli resterà appiccicato addosso molto a lungo. Longoria si presta anche fisionomicamente a questa immagine da nerd di laboratorio, che in realtà sarebbe una mezza verità: il ricorso ai big data è rimasto una costante della sua carriera, al punto che nel suo Marsiglia ha insistito per istituire la figura di un “direttore del rendimento sportivo basato sulla statistica”, chiamato a valutare le prestazioni dei giocatori secondo parametri fisiometrici personalizzati sullo stile di gioco della squadra. In realtà, Longoria non parla volentieri di analytics, forse proprio per smarcarsi da un’immagine che sembra andargli stretta e che effettivamente non lo rappresenta appieno. Lui, infatti, si autodefinisce un «pasionario», una persona per cui «il calcio è prima di tutto emozione».
Stando ai suoi racconti, è diventato poliglotta proprio per comunicare le sue emozioni a chiunque incontrasse nel mondo del calcio: «A scuola ero un disastro, soprattutto nelle lingue, ma poi ho capito che a uno come me, che vive il football in maniera passionale ed emotiva, era fondamentale arrivare a ciascuno parlandogli nella sua lingua madre. E ho iniziato a studiare seriamente». Parlare fluentemente sei lingue lo ha aiutato anche a girovagare per l’Europa nel corso di una sorta di grand tour decennale, che Longoria ha ripercorso recentemente durante una bellissima intervista rilasciata a Cadena Ser: i sei mesi al Newcastle, dal novembre 2007 al febbraio 2008, sono stati come un Erasmus che ha spalancato i suoi orizzonti sul calcio europeo; al Recreativo ha imparato che nel suo lavoro bisogna saper gestire la pressione e il “fracaso”; all’Atalanta ha apprezzato l’importanza di lavorare con i giovani; al Sassuolo si è sporcato le mani per costruire un progetto dalle fondamenta; alla Juve, che ha definito «l’università», ci è entrato strabuzzando gli occhi come una matricola che passa per la prima volta dal cancello di Yale e poi è uscito da lì con la voglia di mettere in pratica quanto imparato. Cosa che ha potuto fare a Valencia, dove è arrivato come direttore sportivo nel 2018, l’ultima tappa prima di arrivare a “Head of football” dell’Olympique de Marseille.
Nel maggio 2004 il Chico de la Play prendeva il primo aereo della sua vita, direzione Göteborg, con un biglietto per la finale di Coppa Uefa tra Marsiglia e Valencia. Sedici anni e centinaia di voli più tardi, Pablo Longoria si è imbarcato su un areo che proprio da Valencia lo ha portato a Marsiglia per iniziare a lavorare come Direttore Sportivo dell’OM. I motivi di questa scelta erano diversi: la passione della tifoseria, il fatto che, per stessa ammissione di Longoria, solo una città atipica come Marsiglia poteva accogliere un profilo atipico come il suo. Infine, il fatto che ad allenare l’Olympique ci fosse André Villas-Boas, per cui Longoria aveva un’ammirazione sconfinata, al punto che nel 2009 aveva fatto di tutto per portarlo al Recreativo.
Nonostante le premesse incoraggianti, le cose hanno preso una piega scivolosa abbastanza presto. Dopo un discreto avvio stagionale, l’inverno è stato disastroso: l’OM si è trovato in fondo al girone di Champions e impantanato a metà classifica in campionato, mentre fuori dal Vélodrome i tifosi erano in contestazione perenne. Nel frattempo, Longoria ha iniziato a muoversi sul suo terreno di caccia preferito, andando a pescare nel mercato di gennaio per rinforzare la squadra. Alcuni colpi sono stati molto riusciti, come il prestito con diritto di riscatto di Arkadiusz Milik dal Napoli, altri molto meno felici, come l’arrivo di Olivier Ntcham dal Celtic. Proprio a causa di Ntcham si è consumata al frattura tra Longoria e Villas-Boas. Più che nel valore del giocatore, il problema stava nel fatto che, nonostante Villas-Boas avesse detto chiaramente che di Ntcham non sapeva proprio cosa farsene, Longoria si era intestardito sul profilo del francese, firmandolo senza nemmeno avvisare l’allenatore, che una volta appresa la notizia ha dato le dimissioni in diretta televisiva.
L’affaire Ntcham ha messo in mostra un lato spigoloso e poco raccontato del carattere di Longoria, una tendenza autoritaria che a ben vedere si era già intravista in Spagna. A Valencia la sua testardaggine aveva alienato una leggenda del club come Vicente, che a sua volta lo aveva definito un ragazzino arrogante, codardo, falso e, soprattutto, un raccomandato che si prendeva il merito delle scelte fatte da Bruno Alemany e Marcelino. Verità? Invidia di Vicente verso il giovane rampante? Difficile dirlo, quel che è certo è che Pedro Longoria non scende a compromessi con nessuno, al punto da non farsi problemi a silurare la sua vecchia cotta calcistica. Con un comunicato durissimo, ha rifiutato le dimissioni di Villas-Boas per poi licenziarlo in tronco, gettando altra benzina su un ambiente che già andava a fuoco.
Due giorni prima del licenziamento di Villas-Boas, un gruppo di Ultras aveva fatto irruzione nel centro di allenamento de La Commanderie, lanciando fumogeni e fuochi d’artificio. Erano inferociti con il diretto superiore di Longoria, il presidente Jaques-Henry Eyraud. Poco dopo quell’episodio Eyraud sarebbe stato esautorato a furor di popolo dal proprietario americano Franck McCourt. A prendere il suo posto come presidente del club è stato proprio Longoria, che ha navigato quella burrasca con il mestiere di un politico consumato: dal giorno della presentazione a Marsiglia, infatti, ha strizzato l’occhio all’ambiente, alla passione della piazza, tutti aspetti che il suo predecessore aveva colpevolmente trascurato. Eyraud, un businessman senza alcun background calcistico, disprezzava il fatto che nel Marsiglia lavorassero così tanti tifosi del Marsiglia e puntava a instaurare un clima più freddo e “corporate”, che però era totalmente alieno al DNA della città. Per di più, da parigino benestante e laureato ad Harvard, Eyraud non faceva nulla per nascondere la puzza sotto il naso nei confronti dei gruppi di Ultras, dei quali voleva ridurre a tutti i costi il potere politico all’interno del club. Ci sono città in cui questo snobismo verso la fanbase porterebbe al massimo ad un paio di striscioni polemici e nulla di più, ma Marsiglia non è di certo una di queste. I sei gruppi Ultras della squadra, tutti di estrazione popolare, si sono alleati per ricordare ad Eyraud il furore che i francesi possono scatenare contro chi invita il popolo affamato a mangiare brioche.
E così Pablo Longoria è diventato il più giovane presidente del Marsiglia dal 1909, anche se dalla naturalezza con cui si è mosso si direbbe che dirige club calcistici da quarant’anni. La sua prima mossa è stata riorganizzare l’organigramma, così da rimettere al centro il calcio; la seconda è stata sconfessare la strategia di Eyraud e risistemare immediatamente i rapporti con il tifo organizzato, facendo appello all’identità popolare della squadra; la terza e più importante è stata scegliere il nuovo allenatore della squadra, e nel profilo di Jorge Sampaoli si riflette alla perfezione la concezione ambivalente del calcio di Longoria: tattica e passione, strategia ed emozioni. Certo, Sampaoli è un allenatore di livello internazionale, per di più discepolo di una vecchia conoscenza della piazza come El Loco Bielsa, ma è anche una persona che sarebbe potuta nascere a Marsiglia, un profilo che incarna alla perfezione i valori della città e del club, almeno potenzialmente.
Le prime mosse politiche di Longoria sono state perfette, su quelle di campo e di mercato il giudizio è ancora inevitabilmente sospeso. La squadra sta faticando nella transizione verso il gioco di Sampaoli, e dopo la sconfitta contro il Nizza è a 15 punti dalla zona Champions. Nessuno gliene fa una colpa, anzi, la sua popolarità in città è ai massimi storici, così come la fiducia da parte della proprietà. Gira voce che in estate McCourt gli affiderà un budget di 80 milioni per il prossimo mercato, ed è allora che Longoria si assumerà il «reto» più importante della sua carriera, e in un certo senso la sua credibilità come guru dello scouting. Per chi fonda la propria autorità sul maneggiare una materia instabile come talento calcistico, il passo da “genietto” a impostore è estremamente breve, soprattutto in una piazza così passionale.