Gli studi sui traumi cranici cambieranno lo sport?

Spinte dalle evidenze scientifiche, diverse discipline si sono dotate di concussion protocol a salvaguardia della salute degli atleti. Anche il calcio è destinato a trasformarsi?

Il colpo di testa è un gesto tecnico non troppo frequente in una partita di calcio, rappresenta una percentuale piuttosto bassa dei tocchi totali. Ma, allo stesso tempo, è considerato uno dei fondamentali di un gioco con la palla in cui la palla viaggia solitamente sull’erba, e se la si alza non può essere colpita con le mani. Dunque, è un’azione naturale. Solo che non lo è, o potrebbe non esserlo, per il corpo umano. C’è la possibilità, infatti, che i colpi di testa – ripetuti e sistematici, come quelli eseguiti in allenamento dai calciatori professionisti – aumentino le probabilità di soffrire di patologie neurodegenerative a causa dell’impatto del pallone con il cranio. Di recente, il tema è stato riportato all’attenzione dell’opinione pubblica dall’ex attaccante della Nazionale inglese Gary Lineker, che ha ricordato come quattro ex calciatori vincitori dei Mondiali del ‘66 – Nobby Stiles, Jack Charlton, Martin Peters e Ray Wilson – siano morti di demenza; mentre a un quinto, Sir Bobby Charlton, la stessa malattia è stata diagnosticata l’anno scorso.

Ancora non è stata trovata un’evidenza scientifica che possa far parlare di una correlazione causa-effetto, ma alcuni studi hanno rivelato un possibile legame tra colpi di testa e malattie neurodegenerative. Un paper pubblicato dall’Università di Glasgow a ottobre 2019 ha spiegato che gli ex professionisti hanno un tasso di mortalità legata a malattie neurodegenerative 3,5 volte più alto rispetto alla media (1,7% contro lo 0,5%); inoltre, il rischio di insorgenza di Alzheimer è cinque volte più alto, mentre è doppio per quanto riguarda il morbo di Parkinson. Questa maggiore probabilità deriverebbe dall’elevata frequenza e dal totale degli impatti accumulati in carriera. Con il pallone, primariamente, ma anche con la testa degli avversari. Nel 2017, i ricercatori della University College London hanno esaminato post-mortem il cervello di sei ex calciatori che avevano sviluppato demenza, e in quattro di questi c’erano segni di danni cerebrali (encefalopatia traumatica cronica).

È una materia ancora oggetto di studi e ricerche. Tutti gli esperti coinvolti ne parlano come un argomento ancora in piena evoluzione. D’altronde si tratta di malattie che potrebbero presentarsi per diverse cause: il trauma fisico al cervello può essere un fattore tanto quanto potrebbero esserlo la genetica, oppur uno stile di vita non salutare, il fumo o il consumo eccessivo di alcool. Ma i dati a disposizione devono essere già un campanello d’allarme. Un’inchiesta del Telegraph ha evidenziato come l’impatto di un colpo di testa da un rinvio del portiere sia equivalente, in termini di forza G, al pugno di un boxer o un contrasto in una partita di football americano.

Proprio il football americano ha fornito alcuni dei case study più interessanti a livello scientifico negli ultimi vent’anni, arrivati poi a un pubblico di massa grazi al lavoro di ricerca portato avanti dal medico Bennet Omalu sugli ex giocatori di football americano: Omalu è stato il primo a scoprire e pubblicare i risultati sull’encefalopatia traumatica cronica (Cte) nei giocatori di football, all’inizio degli anni Duemila – per chi vuole approfondire la storia c’è un bel film che racconta vicenda: Zona d’ombra, con Omalu interpretato da Will Smith. La NFL aveva iniziato a studiare formalmente il tema della concussion nel 1994, con la creazione del  Mild Traumatic Brain Injury (Mtbi), un comitato scientifico dedicato agli effetti delle commozioni cerebrali. Ma per molti anni una lega chiusa, autoreferenziale e reticente al cambiamento come quella di football americano ha ignorato, nascosto o minimizzato il problema. Solo nel settembre 2009 – dopo decine di studi che confermavano la correlazione tra gli scontri di gioco e le malattie neurodegenerative – il portavoce della Nfl  Greg Aiello ammise, in un’intervista al New York Times, la validità delle ricerche scientifiche sui danni cerebrali a lungo termine. Era la prima volta. Nello stesso anno fu introdotto il primo concussion protocol, che poi è stato più volte aggiornato.

Negli ultimi vent’anni anche in altri sport di contatto le federazioni e i campionati si sono dotati di protocolli di sicurezza legati alle commozioni cerebrali e hanno accettato alcune evidenze scientifiche sui problemi di lungo periodo. Nel rugby il primo documento ufficiale redatto dell’International Rugby Board risale al 2011, e nacque proprio in risposta al crescente numero di lesioni cerebrali subite dai giocatori, quindi a una richiesta di maggiore attenzione e sensibilizzazione sul tema da parte dell’opinione pubblica e di una parte degli addetti ai lavori. E lo stesso vale anche per la Nba, nonostante il basket sia uno sport in cui i contatti con la testa sono – almeno in teoria – più rari: la lega americana ha cominciato a regolamentare le concussion già a dicembre 2011.

Il calcio invece sembra muoversi in ritardo, non solo rispetto agli altri sport, ma anche rispetto agli studi scientifici. Un primo turning point lo troviamo nel 2014, dopo un riesame del cervello di Jeff Astle, ex attaccante del West Bromwich e della Nazionale inglese morto nel 2002. Le analisi rivelarono che era morto a causa dell’encefalopatia traumatica cronica: il ripetersi di colpi di testa con un pallone di cuoio aveva contribuito a danneggiare il suo cervello. La figlia del calciatore, Dawn Astle, aveva denunciato il caso parlando a Bbc Radio 5 Live: «I vertici del calcio britannico hanno cercato di spazzare via la sua morte come polvere sotto un tappeto. Non volevano far sapere che era colpa del gioco». Il caso è stato poi ricordato anche da Alan Shearer, ex centravanti del Newcastle e della Nazionale (46 gol di testa in carriera) in un documentario della Bbc uscito nel 2017 – il cui titolo è Alan Shearer: Dementia, Football and Me.

Dopo l’inchiesta sulla morte di Astle, i vertici del calcio britannico hanno dovuto cambiare rotta, non potendo più nascondersi, né nascondere nulla. Il presidente della Football Association, Greg Clarke, ha dichiarato: «Il mondo del calcio deve riconoscere che questo è solo l’inizio della nostra comprensione e ci sono ancora molte domande a cui bisogna ancora rispondere. È importante che la famiglia mondiale del calcio si unisca per trovare risposte e fornire una maggiore comprensione su questo tema. E la FA si impegna a fare tutto il possibile per raggiungere l’obiettivo». Alcune contromisure sono state messe in atto. Da un paio di mesi, infatti, la Premier League ha annunciato il via libera alla sperimentazione delle sostituzioni per commozione cerebrale dei giocatori: «Se ci sono chiari sintomi di commozione cerebrale, o il video fornisce una chiara prova di commozione cerebrale, alla squadra sarà permesso di richiedere la sostituzione del giocatore con un’ulteriore sostituzione permanente per commozione cerebrale», spiega il protocollo della massima divisione inglese.

Negli ultimi giorni Manchester City e Liverpool sono diventati i primi club a far sapere che prenderanno provvedimenti a livello interno, anche se in misura limitata: le formazioni Under 23, Under 18 e le squadre femminili dei due club si alleneranno con dei dispositivi di raccolta dati per aiutare la ricerca. Un anno fa invece la federazione di calcio inglese aveva stabilito che i ragazzi sotto i 12 anni non si sarebbero allenati più sui colpi di testa, mentre dai 12 ai 14 anni i colpi di testa sono stati classificati come “Low Priority” e provati solo una volta al mese, per un massimo di cinque colpi di testa. Non tutti ovviamente sono d’accordo, come sempre quando ci si trova davanti ad una potenziale rivoluzione del pensiero. L’ex centrocampista di Tottenham e Wolverhampton Jamie O’Hara, per fare un esempio, aveva scritto su Twitter: «Il colpo di testa è una componente essenziale per fare il calciatore, se non la insegniamo ai più giovani, come pensiamo di farli diventare calciatori?». Ma con l’emergere di nuove prove la pressione sociale per ulteriori cambiamenti è destinata a crescere.

Il primo concussion protocol redatto e introdotto nel campionato NFL risale al 2009 (Joe Robbins/Getty Images)

Intanto negli Stati Uniti l’attenzione sul tema è già altissima da qualche anno. Nel 2015 è entrata in vigore la prima disposizione che vieta i colpi di testa negli allenamenti fino agli 11 anni di età (e un massimo di 30 minuti di allenamento a settimana fino agli Under 14). La decisione era arrivata in parte come risposta a una class action di alcuni genitori di una squadra di ragazzini in un tribunale distrettuale in California, accusando «Fifa, Us Soccer e American Youth Soccer Organization di negligenza nel trattamento e nel monitoraggio delle lesioni alla testa», per usare le parole del New York Times.

Dall’altro lato dell’Atlantico sembra esserci più attenzione su questo tema. Mentre sul campo prova, a fatica, a ridurre la distanza rispetto all’Europa, il soccer vuole fare da apripista in materia di sicurezza e salute (per i giocatori, in questo caso) e guadagnare ulteriore visibilità. D’altronde, negli States il calcio è meno legato alla tradizione rispetto all’Europa e al Sud America, ed è più facile che ci sia un approccio flessibile rispetto alle modifiche dello status quo. Certo, sarà difficile immaginare un cambiamento rivoluzionario delle regole del gioco: pensare di bandire i colpi di testa anche in partita sembra troppo, al momento, anche perché gli studi puntano il dito soprattutto contro la ripetitività del gesto, che si ha solo in allenamento. Ma il tema, in termini medici, è sempre più conosciuto, non può più essere ignorato, è una questione che va presa sul serio. E se non si può intervenire in maniera diretta sul gioco si deve quanto meno iniziare a pensare un sistema che costruisca delle precauzioni per il presente e per il futuro.