Sono passati cinquant’anni dalla Ping Pong Diplomacy, che riavvicinò Cina e Stati Uniti

Un incontro casuale ai Mondiali di tennistavolo cambiò per sempre lo scenario politico internazionale.

Qualche giorno fa, l’ambasciatore cinese negli Stati Uniti, Cui Tiankai, ha invitato i due Paesi a «cooperare in più aree per rispondere alle enormi sfide globali che andranno affrontate nei prossimi anni». In questo momento, i rapporti tra Pechino e Washington sono in una fase tiepida, di ricostruzione, dopo che l’amministrazione Trump li aveva – a dir poco – compromessi: non a caso il governo cinese ha accolto con favore il recente insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca. Proprio in virtù di questo possibile riavvicinamento, Cui Tiankai ha citato un evento che ha fatto la storia non solo della diplomazia, ma anche dello sport: «Le due parti dovrebbero portare avanti lo spirito della Ping Pong Diplomacy e cercare un terreno comune: cinquant’anni fa le differenze erano molto più rispetto a oggi, eppure già allora Cina e Stati Uniti hanno mostrato molto rispetto e hanno lavorato insieme per il benessere e per le aspirazioni di tutta la popolazione mondiale».

Il riferimento di Tiankai non è stato fatto a caso: l’ambasciatore ha parlato della Ping Pong Diplomacy proprio in occasione dell’apertura della festa per celebrare i cinquant’anni dalle storiche partite di tennistavolo tra la squadra americana e quella cinese, tenutesi in Cina nell’aprile del 1971. È una storia nota, ma non sempre raccontata in maniera approfondita: i migliori giocatori americani di ping pong si trovavano in Giappone, precisamente a Nagoya, per partecipare ai Campionati Mondiali di specialità, e furono invitati dalle autorità cinesi a visitare il loro Paese. Ovviamente, questo invito comportava anche l’organizzazione di alcune partite di ping pong. Nulla di strano, o di storico, se non fosse che si trattava dei primi cittadini statunitensi ad essere accolti in Cina dal 1949: nei ventidue anni precedenti, infatti, solo undici americani avevano avuto libero accesso alla Cina comunista, ma solo perché ufficialmente iscritti al Black Panther Party for Self-Defence, un’associazione afroamericana di ispirazione filo-marxista e rivoluzionaria, nata negli anni Sessanta e dissoltasi nel 1982.

L’occasione per fissare questo storico evento sportivo (ma anche politico) si determinò proprio durante i Mondiali: il giocatore americano Glenn Cowan salì all’improvviso sul bus navetta che trasportava la squadra cinese, e fu avvicinato da Zhuang Zedong, il più grande giocatore cinese. Nonostante i cinesi avessero l’ordine di non fraternizzare e di non avere contatti con gli americani durante il torneo, tra i due scattò subito una certa sintonia, e infatti ebbero altri incontri nei giorni successivi, e si scambiarono anche dei regali. Mao Zedong, presidente della Cina, colse al volo quella che si rivelò essere una straordinaria occasione politica: il rapporto tra Cina e Urss si era deteriorato, e così riattivare i contatti con gli Stati Uniti poteva essere una buona mossa. Non a caso, fu proprio Mao a dire che Zhuang Zedong era «un buon giocatore di ping pong, ma anche un buon diplomatico». Alla fine dei Mondiali i giocatori americani ricevettero un invito a visitare la Cina, a cui risposero positivamente dopo aver sentito il parere della loro ambasciata. Nel suo libro di memorie, Richard Nixon – presidente in carica da circa due anni al momento della Ping Pong Diplomacy – scrisse che «non mi sarei mai aspettato che la Cina avrebbe preso iniziativa per riavvicinarsi agli Stati Uniti attraverso una squadra sportiva». Paradossalmente, poi, si trattava di una squadra sportiva tutt’altro che importante a livello globale: gli Stati Uniti erano solo 24esimi nel ranking mondiale del ping pong, mentre la Cina aveva conquistato tre ori e due argenti nelle cinque prove iridate svoltesi a Nagoya.

Anche in virtù di questa (enorme) differenza di valori, il significato sportivo dell’evento passò immediatamente in secondo piano. Le partite che si tennero in quei giorni furono vinte facilmente dai cinesi, ma nel frattempo il viaggio dei giocatori americani tra Guangzhou, Pechino e Shanghai fu seguito da tutte le testate internazionali, fino al momento più atteso: l’incontro con Zhou Enlai, presidente del Consiglio di stato e primo ministro. Era il 14 aprile 1971, e nello stesso giorno Nixon annunciò l’allentamento delle misure di embargo commerciale nei confronti della Cina. Pochi mesi dopo, a luglio, Henry Kissinger – consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti – visitò segretamente Pechino. Era iniziata la distensione ufficiale tra le due nazioni, che portò la squadra cinese di ping pong a ricambiare la visita, e poi permise a Nixon di pianificare il suo primo viaggio in Cina, durato dal 21 al 28 febbraio 1972.

Secondo le ricostruzioni degli storici, la settimana passata dal presidente americano tra Pechino, Hangzhou e Shanghai cambiò il destino del mondo. Difficile pensarla diversamente, alla luce delle conseguenze politiche di quella visita: l’America abbandonò la cosiddetta “teoria delle due Cine”, riconoscendo quindi l’indivisibilità della Repubblica Popolare, e provvide a ritirare tutte le sue truppe da Taiwan; il governo di Pechino, invece, accettò di firmare un documento condiviso in cui entrambi i Paesi dichiaravano di volersi opporre «a qualsiasi tentativo perpetrato da una terza potenza per affermare la propria supremazia nell’area del Pacifico», in evidente chiave anti-sovietica. Di fatto, l’idea che la Guerra Fredda potesse diventare un conflitto reale iniziò a perdere forza proprio in quei giorni. Anni dopo, raccontando la storia del disgelo, fu proprio Nixon a evidenziare come i leader cinesi provassero «una particolare gioia nel ricordare che furono due squadre di ping pong a riavviare i rapporti tra due Paesi così importanti. Sembravano apprezzare il metodo utilizzato per ottenere il risultato quasi quanto il risultato stesso».