La Super Lega non è finita, ma è già una realtà

L'Uefa doveva salvaguardare i principi di uguaglianza sportiva ed economica, e invece non è successo. Ecco perché il calcio ha già preso la strada di una struttura chiusa e riservata a pochi.

Le quarantott’ore, drammatiche e convulse, che hanno definito prima il nascere e poi l’implosione della Super Lega, hanno avuto un merito: evidenziare come il calcio di oggi abbia delle questioni importanti rimaste irrisolte. Ci sono una serie di aspetti che i club “scissionisti”, come sono stati ribattezzati, hanno portato a galla: una governance di Uefa e Fifa poco soddisfacente, il rischio default per l’intero sistema, lo scollamento di interesse nei confronti del calcio da parte della fascia di popolazione più giovane. Tutti temi reali, impattanti, che andrebbero studiati e approfonditi; ma, soprattutto, la Super Lega, così com’è stata congegnata, ha sottolineato un aspetto enormemente significativo. Che la Super Lega, nei fatti, esiste già.

Che dodici club abbiano avuto la forza di mettersi insieme e poi di proporre un progetto nuovo, estraneo alle dinamiche tradizionali del calcio, e che fossero pure in grado di coinvolgere un soggetto economico imponente come la JP Morgan, la dice lunga su quanto il calcio di oggi abbia visto l’emergere di una ristretta élite che può indirizzare il corso stesso, sportivo ed economico, del futuro del calcio. Questa élite, oggi, dice che il sistema non è più sostenibile: racconta che le spese folli a cui ci siamo abituati fin qui sono ormai fuori dalla portata dei club, e che ormai possono essere sostenute, come sostiene Pérez, soltanto da quelle società, come il Manchester City o il Chelsea, comandate da soggetti più interessati a rafforzare la propria immagine pubblica che a inseguire principi di sostenibilità economica.

Allo stesso modo, questa élite esprime delle perplessità su quello che la Uefa ha fatto finora: da un lato la redistribuzione delle risorse è giudicata iniqua, dall’altro la valorizzazione del prodotto Champions non è del tutto convincente. Rispetto ai circa tre miliardi di euro annui che le competizioni Uefa generano, i club della Super Lega hanno riportato stime decisamente più generose, almeno del doppio nella fase iniziale, per la competizione “fai da te”. La risposta di Ceferin e dei vari organismi a supporto dell’Uefa è stata durissima, e in qualche modo deludente: è stata una reazione dominata dal risentimento, piuttosto che da una voglia condivisa di pensare al bene e alla salvaguardia del calcio.

Che della Super Lega, in altri termini, o addirittura nello stesso perimetro Uefa, se ne continuerà a parlare è poco ma sicuro: punire i club dissidenti, o addirittura escluderli dalle competizioni, è quanto di più infantile e controproducente. Piuttosto, è stata l’Uefa stessa ad agevolare la struttura economica che vede l’enorme divario tra i club più ricchi e tutto il resto. Come? Con una redistribuzione delle risorse che andasse a premiare le maggiori squadre, con i principi del fair play finanziario applicati in forme diverse a seconda delle squadre coinvolte, con concessioni accordate ai club più ricchi nel corso degli anni.

Pensare che il Borussia Dortmund abbia la forza di trattenere Erling Haaland per un altro anno è utopia, sperare che una cenerentola come il Ferencvaros possa giocarsela nella fase a gironi è certo una pazzia, come in generale i casi di Davide che battono Golia, in Champions, sono ormai sempre più rari, e il più delle volte ininfluenti. Sappiamo già, a settembre, quando iniziano le competizioni, che le squadre in grado di vincere la coppa sono quelle tre, quattro, massimo cinque note. La struttura economica ha assorbito l’imprevedibilità e l’ha restituita in forma di torneo già scritto, almeno fino alla fase a eliminazione diretta. È il motivo per cui Pérez dice che la fase a gironi così come è concepita non funziona, e che l’interesse nei confronti della Champions si concretizza solamente a partire dai quarti di finale.

I cinque tornei europei più ricchi, ormai, la fanno da padrone: su 1,9 miliardi di premi complessivi destinati dall’Uefa ai club nell’ultima stagione, 1,45 sono andati alle leghe principali (FRANCK FIFE / AFP) (Photo by FRANCK FIFE/AFP via Getty Images)

È su questo che l’Uefa doveva intervenire, invece di fare spallucce. Anzi, compiacendosi del fatto che i super-team come il Psg, il Bayern o il Manchester City dessero lustro alla sua competizione. Non sono mai stati apportati correttivi che rendessero la Champions più aperta, o democratica se vogliamo. La redistribuzione delle risorse lo sta a dimostrare: nella stagione 2019/20 l’Atalanta è la squadra italiana che è andata più avanti nella competizione, eppure ha guadagnato meno di Napoli e Juventus. I nerazzurri hanno ricavato 56,6 milioni di euro, i bianconeri 84,1 milioni: una differenza di circa 30 milioni interamente riconducibile alla quota prevista per il ranking (Atalanta 3,3 milioni, Juventus 29,9), e che ha rappresentato un’altra mossa dell’Uefa per tutelare i club più ricchi. O, ancora, andando più indietro, alla stagione 2018/19, le due semifinaliste perdenti, Ajax e Barcellona, hanno avuto guadagni molto diversi, a parità di percorso sportivo: 78,5 milioni per gli olandesi, 117,7 per gli spagnoli.

Anche a livello sportivo, le discrepanze sono evidenti. Lo stesso Ajax campione d’Olanda e a un passo dalla finale di Champions è dovuto ripartire dai preliminari nella stagione successiva, mentre le squadre dei principali quattro tornei europei, in base alla classificazione nazionale, hanno un posto assicurato nella fase a gironi. E il cambio di format della Champions a partire dal 2024, oltre a prevedere un numero più alto di partite che difficilmente migliorerà il livello qualitativo della competizione, privilegia ancora una volta i “soliti” club: due posti saranno invece garantiti a quei club con il più alto coefficiente che non si sono qualificati in Champions tramite il campionato. Se questa regola fosse esistita a inizio stagione, avrebbe premiato Arsenal e Roma.

La grande cavalcata dell’Ajax nella Champions del 2019 è stata travolgente, ma il club olandese ha guadagnato circa 40 milioni di euro in meno del Barcellona, a parità di percorso sportivo (David Ramos/Getty Images)

I cinque tornei europei più ricchi, ormai, la fanno da padrone: su 1,9 miliardi di premi complessivi destinati dall’Uefa ai club nell’ultima stagione, 1,45 sono andati alle leghe principali (Inghilterra, Spagna, Italia, Germania, Francia). Particolarmente spaventosa la quota del market pool: il 93 per cento dell’intera torta è finito nelle tasche di questi club, ossia 272 milioni di euro. Ai restanti 21 club non appartenenti ai campionati principali non è rimasto che spartirsi la “miseria” di 20 milioni di euro.

Sono tutti aspetti che l’Uefa ha ignorato, o peggio incoraggiato. Da qui, ormai, non si torna più indietro: la Super Lega, ancora una volta, esiste già nei fatti. E i principali responsabili non sono Juventus, Real Madrid o Manchester City, ma chi doveva regolare: peccato che il soggetto regolatore abbia inseguito più logiche di profitto (ponendosi in maniera concorrenziale rispetto ai club: un’anomalia in qualsiasi tipo di industria) che logiche sportive. Il calcio di oggi, piaccia o no, andrà nella direzione della Super Lega per forza di cose: sarà auspicabile, semplicemente, che si condividano le riforme, e le si facciano nel bene comune e non di pochi.