Undici anni dall’ultimo grande successo, nove anni di impero juventino che si dissolvono. E poi la figura preminente di Conte, la prima proprietà straniera che vince il campionato di Serie A, Lukaku, Lautaro, Vidal, Eriksen. Lo scudetto dell’Inter si può raccontare da un’infinità di angolazioni, partendo da un milione di temi tutti diversi, tutti interessanti.
Ci sarà tempo per farlo, per scegliere gli approfondimenti giusti, ma intanto abbiamo scelto quattro argomenti interessanti da sviscerare subito, a caldo, mentre la festa nerazzurra è appena iniziata. È un modo per ripercorrere e celebrare un successo, certo, ma anche per capire da dove nata questa vittoria così attesa, così importante, per individuare i passaggi che l’hanno resa inevitabile, quasi scontata, da un certo punto del campionato in poi. E per iniziare a immaginare il futuro dell’Inter, che poi sarà – inevitabilmente – anche il futuro della Serie A e del calcio italiano.
Tutto è iniziato con Lukaku
Antonio Conte è un uomo che vive di certezze (beato lui), l’aut aut è lo strumento retorico che usa meglio, al quale torna spesso. L’esordio in nerazzuro fu un aut aut, giusto per mettere le cose in chiaro: Icardi va via e serve un centravanti? O Romelu Lukaku o Romelu Lukaku. A Conte piace costruire le sue certezze sui dubbi degli altri: ma non saranno troppi 65 milioni di euro (più 10 di bonus) per uno che viene dalla tristezza del Manchester United di Mourinho, che in carriera ha vinto soltanto un campionato con l’Anderlecht e una FA Cup con il Chelsea, che l’ultimo trofeo lo ha alzato quando aveva da poco raggiunto la maggiore età? A un certo punto sembrava lo avesse preso la Juve, probabilmente quello bastò a convincere tutti: meglio non rischiare… Due anni dopo Lukaku festeggia lo scudetto, Conte le sue certezze. L’attaccante all’inizio descritto come fosse un pugile (nell’angolo nerazzuro, con 191 cm di altezza e un peso di 93 kg…) è diventato il centravanti di questo ma anche di quello: quest’anno, nell’anno del 19esimo Scudetto della Beneamata, è il primo giocatore in Seria A ad aver messo assieme almeno 20 gol (21, per l’esattezza) e 10 assist. Che Lukaku non fosse solo oggetto inamovibile ma anche forza inarrestabile, Conte lo sapeva dal principio: l’intesa con Lautaro Martinez era un’altra certezza soltanto sua all’inizio, un dato di fatto condiviso da tutti alla fine, una scommessa di tecnica e di tattica. Una scommessa evidentemente vinta.
Nel mezzo, però, c’è stato il lavoro: Conte ha voluto Lukaku non per quello che sapeva fare ma per quello che avrebbe imparato. E in due anni Lukaku è diventato un giocatore nuovo, il giocatore che Conte voleva (sperava?): capace di vedere la porta ma anche gli spazi, bravo a tenere il pallone e a servire il compagno smarcato, presente in tutti i momenti che contano e protagonista nella maniera che serve (sia il gol, sia l’assist, sia la corsa, sia il fallo, sia l’applauso per il compagno, sia l’inchino per i tifosi). Ora resta l’ultimo limite, suo e di Conte: l’Europa. C’è una finale persa, c’è un girone finito male, ci sarà una Champions League da giocare col tricolore sulla maglia. (Francesco Gerardi)
Le mosse decisive di Conte
Se si dovesse individuare il turning point della stagione nerazzurra, almeno dal punto di vista tattico, questo coinciderebbe proprio con il limite storico di Lukaku, di Conte, dell’Inter di Conte: lo scudetto ha iniziato a compiersi nell’istante successivo all’eliminazione ai gironi di Champions League. Potrebbe sembrare un paradosso ma, in realtà, è in quel momento che Antonio Conte ha capito che, per portare a termine l’unica missione ancora possibile – vincere il campionato – avrebbe dovuto rinunciare a una fase di non possesso aggressiva e ambiziosa, o almeno a una fase di non possesso aggressiva e ambiziosa come quella sperimentata a inizio stagione. Da allora, la sua squadra è tornata a essere una squadra innanzitutto granitica, soprattutto in fase di difesa posizionale: tutto parte da un blocco particolarmente basso, da un’occupazione degli spazi che è stata orientata a fare densità, piuttosto che ad accorciare in campo; nel frattempo, le coperture preventive hanno ripreso a garantire grande solidità, specie dietro le seconde linee di pressione.
È grazie a questi cambiamenti che l’Inter, dopo aver perso in maniera abbastanza episodica a Marassi contro la Sampdoria il 6 gennaio, ha vinto 14 delle successive 18 partite di campionato, segnando 33 gol e subendone appena nove. Il cambio di passo, come detto, è stato fondato sulla ritrovata stabilità difensiva del collettivo, su un pressing più selettivo e meno dispendioso, ma anche su grandissime qualità offensive: innanzitutto, la capacità della coppia Lautaro-Lukaku di creare gioco per sé e per gli altri; poi l’importanza dell’asse di destra composto da Barella e Hakimi, diventati ben presto i giocatori di trama e ordito di una fase d’attacco meno varia, più schematica ma comunque tremendamente efficace. Una volta ritrovata l’equilibrio che sembrava perduto, Conte ha potuto permettersi anche il reinserimento di Eriksen, passato da equivoco tattico prossimo all’addio a mezzala sinistra deputata alla costruzione e al consolidamento del possesso, sacrificando Vidal – andato comunque in gol nella sfida decisiva del 17 gennaio contro la Juventus. In più, si è goduto anche la crescita esponenziale di Bastoni come “braccetto” della difesa a tre, un giocatore eclettico, capace di dare ulteriore ampiezza alla manovra grazie alla facilità e alla profondità delle sue corse senza palla in verticale. In virtù di tutto questo, l’Inter che ha vinto lo scudetto è una squadra-compromesso tra antico e moderno, è la sintesi ideale tra ciò che il tecnico avrebbe voluto fare e ciò che ha dovuto fare in funzione del raggiungimento del risultato che gli era stato chiesto: tornare a vincere. (Claudio Pellecchia)
L’impatto fondamentale di Achraf Hakimi, in campo ma anche fuori
In un contesto e in una storyline del genere, anche in relazione a come era andata la stagione 2019/20, la figura determinante è quella che ha determinato il cambiamento più importante. O meglio: che ha garantito l’upgrade più significativo. E allora è inevitabile puntare l’occhio di bue su Achraf Hakimi, per diversi motivi. Intanto, perché il suo arrivo ha avuto un rilevante significato extracampo: dopo due stagioni in prestito al Borussia Dortmund, dove si era imposto come uno dei migliori laterali giovani del calcio europeo, il terzino marocchino non era un giocatore considerato in vendita nella galassia di talento del Real Madrid, la squadra che deteneva il suo cartellino. Insomma, nella capitale spagnola nessuno aveva mai fatto cenno alla volontà di cederlo. Eppure l’Inter è andata a prenderlo, cioè ha preso il giocatore che voleva, quello che serviva, da uno dei club più forti del mondo, l’ha pagato quanto chiedeva il Real e l’ha portato a Milano. Una prova di forza.
Poi sono venute le partite, e allora ciò che Hakimi rappresenta è passato in secondo piano rispetto a ciò che ha fatto, a ciò che fa: è stato uno dei migliori newcomer della Serie A con sette gol e sette assist in 33 presenze, e lo è stato nonostante le critiche iniziali sulle carenze nella fase difensiva, sull’imprecisione nei cross, sul primo controllo non eccezionale. Difetti reali, su cui lavorare, su cui Conte ha lavorato. Ma in realtà le sue mancanze si sono rivelate molto meno rilevanti rispetto ai suoi pregi, alle doti uniche di un giocatore che, già oggi, è tra i più forti nel suo ruolo: strappi, progressioni da velocista, tagli alle spalle della difesa, capacità di attaccare lo spazio, come di crearlo con i suoi movimenti, sono tutte qualità che lo includono di diritto nell’élite europea. Hakimi ha dimostrato subito di poter essere decisivo, e in poco tempo di essere indispensabile. È stato un’arma tattica sublime pur non essendo un giocatore particolarmente cerebrale. Era esattamente quello che serviva a Conte per perfezionare la sua macchina. Era esattamente quello che serviva all’Inter per fare un altro passo in avanti verso l’eccellenza. Il passo decisivo, forse. (Alessandro Cappelli)
L’alba di un nuovo interismo?
Tutti questi pezzi, accostati, messi insieme e poi guardati da lontano, restituiscono una sceneggiatura molto lineare, molto puntuale, quasi noiosa. L’allenatore vincente che arriva in un club ambizioso, un club che non vince da tanto tempo, e avvia un progetto apparentemente pluriennale; il progetto che comincia da e con scelte coerenti, tra mercato e lavagna tattica; il secondo posto e la finale di Europa League persa nella prima stagione; l’arrivo di altri giocatori importanti e pure funzionali al disegno tecnico; un nuovo inizio stentato e qualche caduta fragorosa; la compattazione decisiva, la crescita dei singoli e del collettivo; infine il successo, netto, meritato, senza ombre. È stata persino rispettata la linea epica, grazie alla coincidenza – coincidenza? – per cui il dominio Juve è stato interrotto proprio da Conte e Marotta, coloro che l’avevano avviato, costruito dalle fondamenta. Riavvolgendo il nastro, anche il percorso dei calciatori è stato praticamente perfetto: i già citati Lukaku e Lautaro hanno fatto esattamente quello che dovevano, anzi forse hanno fatto anche di più; Barella e Bastoni sono i giovani cresciuti a dismisura, le grandi speranze diventate bellissime realtà; Handanovic, De Vrij, Skriniar, Darmian e Brozovic sono stati quasi sempre precisi, affidabili, hanno offerto e garantito sicurezza; persino Perisic e addirittura Eriksen, protagonisti di due casi di mercato piuttosto spinosi, sono stati gestiti con lucidità e maturità, da Conte e da tutto l’ambiente. Insomma, ha vinto davvero la squadra costruita meglio, la più solida, la più continua, la più coesa.
Per arrivare a essere tutto questo, l’Inter ha mostrato una nuova forza: quella della normalità. Che si è espressa nella certezza rispetto alle proprie idee, rispetto alle proprie scelte. L’ultimo residuo dell’interismo quello tossico, quello insensato e destabilizzante, è stato spazzato via il 25 agosto 2020, quando società e allenatore si sono riuniti e hanno deciso di proseguire insieme. Nonostante alcune cose fossero andate in modo diverso e inatteso, nonostante alcune prospettive fossero cambiate. Nonostante tutto. Il calcio di oggi ammette e vuole e premia i progetti costruiti così, portati avanti così bene. E allora forse conviene andare a ripescare una delle prime promesse di Conte, che in realtà sembravano tutte un po’ retoriche: quella che annunciava la fine della Pazza Inter e la nascita di un’Inter diversa, «regolare e forte». Ecco, è andata proprio così: il suo lavoro e quello della dirigenza hanno determinato la nascita di una squadra dall’anima trasformata, ma finalmente vincente. Magari all’inizio qualcuno non aveva apprezzato certe parole, certe demolizioni dello status quo reale e virtuale, ma ora è evidente – proprio a tutti – che si trattava di un cambiamento necessario, per l’Inter. Così come è evidente che questo successo potrebbe dare vita a una nuova era di forza e consapevolezza, a una nuova definizione di interismo. (Alfonso Fasano)