Il gaming è davvero lo sport del futuro

Un settore che sta vivendo un’espansione fortissima, fino a sfiorare il miliardo di dollari come volume d’affari complessivo. Per questo gli esports sono pronti per diventare uno dei primissimi ambiti di intrattenimento a livello globale.

Esports, gaming competitivo, videogiochi, youtuber, dirette streaming, egames, eplayer, digitale e virtuale. Una galassia di parole che nell’ultimo anno ha iniziato a essere sempre più visibile, complici la pandemia e i conseguenti lockdown, su ogni tipo di media, anche quelli più tradizionali. Il settore degli esports – un’unica e più semplice parola con cui possiamo riassumere quelle elencate prima – sta vivendo il suo momento di gloria, con un volume d’affari che nel 2020 ha sfiorato, in ricavi, il miliardo di dollari, secondo quanto riportato da Newzoo, una delle principali agenzie di monitoraggio del mondo gaming. Inizialmente le stime erano state addirittura superiori al miliardo di dollari – 1,1 per essere precisi – con una crescita del +15,7% rispetto all’anno precedente e con tre quarti dei ricavi totali provenienti dagli accordi di sponsorizzazione e di media rights.

 

• Una prima descrizione di “esports”
Numeri, percentuali, stime: ma cosa sono, in concreto, gli esports? «Chiaramente negli esports c’è una componente sedentaria molto più importante rispetto agli sport tradizionali. Ma se consideriamo lo sport degli scacchi, ad esempio, non vedo differenze», dice Luca Pagano, ceo del Team Qlash. Complice il nome, e quella semplice “e” aggiunta, verrebbe naturale paragonare i tornei professionistici o semi-professionistici di videogiochi, online o meno, alle competizioni sportive tradizionali: mentre i primi si svolgono tramite l’ausilio di uno strumento tecnologico in un mondo virtuale, grazie quindi all’utilizzo preminente delle abilità mentali, i secondi si svolgono principalmente sfruttando la propria attività fisica.

Tutti i videogiochi, allora, sono esports? Partiamo da un concetto semplice: non può esserci un esport se non ci sono né una struttura competitiva ben definita né una scena professionistica (o quanto di più vicino possibile) che consenta ai giocatori, o “atleti non tradizionali”, di trasformare una passione, un gioco, un hobby in una professione vera e propria. Retribuita, ovviamente, e con la possibilità di diventare delle vere e proprie star, esattamente come Lionel Messi o Lewis Hamilton. A novembre 2020 i Cloud9, uno dei più importanti team americani, hanno concluso un’operazione da 11 milioni di dollari per l’acquisto di Luca “Perkz” Perkovic, player di League of Legends: 5 milioni sono andati alla squadra dei G2 Esports che ne deteneva il cartellino, 6 milioni invece lo stipendio che percepirà il giocatore nell’arco di tre anni. Il Team Liquid, dal canto suo, ha un monte ingaggi che non sfigura rispetto a quello di un club di calcio: Alphari ha un contratto da 3 milioni in tre anni, Jensen ha rinnovato per 4,3 milioni in tre anni a un’età, 26, pure ritenuta da molti eccessiva per gli esports.

• Cenni storici

Chiedersi quando tutto è iniziato è complicato, come ha sottolineato Paul “Redeye” Chaloner, commentatore e opinionista esports, nel suo libro This is Esports (and How to Spell It): «Quand’è che uno sport inizia a essere uno sport? Se prendiamo il calcio, in che momento qualcuno prendendo a calci un pallone ha trasformato questa operazione in un gioco e in un fenomeno globale? È stato quando si è disputata la prima Coppa del mondo in Uruguay nel 1930? O quando è nata la prima lega calcistica nel Regno Unito nel 1888?». Lo stesso discorso vale per gli esports: definire il momento preciso in cui si assistette a un cambio di paradigma nella percezione del videogioco è complesso e non esiste, a oggi, una data che metta tutti d’accordo.

Se dovessimo però rintracciare dei momenti chiave, potremmo identificarne tre. Nell’ottobre 1972 all’Università di Stanford la rivista Rolling Stone organizza un torneo di SpaceWar!, mettendo in palio un abbonamento al magazine: nessuna diretta streaming, una ventina di partecipanti, eppure è il primo torneo nella storia dei videogiochi. Saltiamo poi all’autunno del 1999, quando prende vita in Corea del Sud il primo torneo trasmesso in tv, il Tooniverse Progamer Korea Open dedicato a Starcraft Brood War, uscito l’anno prima: sono i prodromi dell’idea di spettacolarizzare i videogiochi competitivi, rendendoli una forma di intrattenimento. Infine, nel 2011, a Jönköping in Svezia, si disputa la finale dei Mondiali di League of Legends: 100 spettatori dal vivo in una sala che li contiene appena. Ma la novità è il pubblico da casa: non in tv, bensì in streaming grazie a una delle piattaforme più innovative del momento, Twitch. Su quella che sarà poi acquistata da Amazon per 970 milioni di dollari nel 2014, a seguire la finale sono 210.000 spettatori con 100.000 dollari di montepremi in palio.

• Gli esports oggi

Se il 1972 ha definito la possibilità di rendere competitivo un videogioco, il 1999 ha creato gli esports come forma di intrattenimento. Il 2011, infine, ha permesso di diffondere in modo più semplice e capillare gli esports grazie allo streaming e all’evoluzione delle reti internet. Chiunque, da casa, ha la possibilità di seguire le giocate e i tornei dei propri idoli, giocatori o squadre che siano. «Oggi tutto ciò di cui un luogo ha bisogno per ospitare un torneo esports è una connessione internet e un display a schermo piatto per mostrare le classifiche e il gioco per gli spettatori», ha dichiarato Ann Hand, ceo di Super League, a Forbes. Una semplicità disarmante che, come nel caso di Riot Games, ha portato il proprio League of Legends a diventare “il nostro sport”, come la stessa azienda lo ha definito. A ragione.

Nel 2020 i Mondiali di League of Legends hanno registrato 160,92 milioni di ore viste dal pubblico in streaming con 3,6 milioni di spettatori medi al minuto. Trasmessa in 16 lingue diverse su 21 piattaforme, la finale dell’evento ha raggiunto la cifra record di 23 milioni di spettatori medi al minuto con un picco di 46 milioni di spettatori simultanei. L’evoluzione degli esports si mostra anche nell’incremento costante dei montepremi dei tornei. Per la stagione 2018/2019 Fortnite aveva presentato un prizepool totale di 100 milioni di dollari da distribuire nell’arco delle varie competizioni, di cui 30 solo per la fase finale, disputata all’Arthur Ashe Stadium, uno dei templi del tennis mondiale. Da anni il The International, il Mondiale di Dota2, registra montepremi multi-milionari: nel 2019 ha superato i 34 milioni di dollari, di cui più di 15 andati ai vincitori OG, diventando l’evento esports con il più alto prizepool nella storia. Sono numeri resi possibili dall’incremento degli spettatori, ormai non solo più giocatori: si stima che il pubblico degli sport virtuali crescerà del 9% annuo tra il 2019 e il 2023, passando da 454 milioni a 646 milioni. Ma l’aspetto più importante è che stanno aumentando gli spettatori che non giocano. Secondo un sondaggio promosso da Newzoo nel 2017, prendendo in esame tre dei principali titoli esports, ovvero League of Legends, Counter-Strike:GO e Dota2, il 42% degli spettatori non gioca a nessuno di questi.

• Gli esports in Italia: intrattenimento più che sport

Essere una delle organizzazioni esports più vincenti è sicuramente un ottimo modo per raggiungere la sostenibilità finanziaria nel lungo periodo: ma è sufficiente? È questa la domanda che ha spinto le organizzazioni a investire anche su altre figure. Streamer e youtuber, ormai veri e propri influencer: alternative non competitive, o non solo, da presentare a eventuali sponsor, interessati più al volume di interesse generato che alle vittorie. Un aspetto che in Italia è stato recepito praticamente subito. In un Paese che ha fatto, e tuttora fa, fatica a raccontare gli esports come uno sport, ecco l’escamotage di presentare invece gli esports come un enorme contenitore in cui è possibile trovare sia competizioni e tornei sia tutte quelle figure pubbliche legate al mondo del gaming, competitivo o meno che sia.

• Il re degli esports italiani

Non è quindi una sorpresa che un giocatore come Giorgio “Pow3r” Calandrelli sia stato scelto da una delle org esports più importanti al mondo, i Fnatic, per portare in alto il brand non solo in Italia ma nell’Europa intera. Un fenomeno da migliaia di visualizzazioni su Twitch che è ormai un volto trasversale dell’esports italiano: testimonial Vodafone e adidas, ha vinto il premio di Iidea come Best Content Creator agli Italian Esports Awards 2020. Giorgio è un giocatore competitivo da più di dieci anni, un percorso iniziato su console con Call of Duty: Modern Warfare 2: «È nel 2009 in un punto imprecisato tra Rimini e Roma che, senza saperlo, faccio una promessa che mi cambierà la vita. Servissero anche dieci ore al giorno, è questo quello che voglio fare: dimostrare a tutti che la passione per il gaming può essere ben diversa da uno spreco di tempo».

• L’impatto del Covid-19

Rispetto ad altri settori le conseguenze del Covid-19 sugli esports sono state minori. In alcuni casi l’emergenza ha dato addirittura una spinta per la diffusione del gaming competitivo, sia in termini di gioco nudo e crudo che in termini di pubblico. Sulle tv e sui canali sportivi tradizionali al posto della Formula 1 abbiamo assistito alla Formula 1 Esports Series; la MotoGP Esports ha sostituito quella di Marquez e Valentino Rossi e gli incontri di Fifa e Pes il calcio giocato. Anche in Italia abbiamo assistito allo stesso fenomeno, come certificato da Nielsen nel terzo rapporto sugli esports, commissionatogli dalla già menzionata Iidea (Italian Interactive Digital Entertainment Association), l’associazione italiana di categoria che riunisce allo stesso tavolo publisher, sviluppatori, org e tournament organizer. Rispetto al 2019, quando i numeri erano poco sopra il milione, oggi i fan sono oltre 1,4 milioni con una crescita percentuale del +20% in un solo anno.

Nel 2020 salgono anche gli avid fan, ovvero gli appassionati più assidui, che passano a un totale di 466.000 persone, +33% rispetto ai 300.000 di un anno fa. Interessante anche il dato che riguarda l’universo femminile: la presenza delle donne è salita dal 38% dello scorso anno al 42%. Se a suscitare l’interesse degli appassionati sono in generale i videogiochi sportivi, a livello competitivo il titolo più seguito è League of Legends, sia con la competizione nazionale del PG Nationals che con le dirette dei tornei continentali. Riot Games si è persino permessa non solo di poter disputare i Mondiali 2020 portando tutti i giocatori a Shanghai, in Cina, ma di proporre la finale con il pubblico dal vivo al Pudong Stadium, con 6.000 fortunati, estratti a sorte su più di 3 milioni di richieste, che hanno potuto assistere in presenza al trionfo dei Damwon Gaming.

• Le radici del successo

Nel corso degli anni il gaming competitivo ha inaspettatamente perso titoli, come Heroes of the Storm, ha accolto generi impensabili come i Battle Royale con Fortnite, e ha retto all’urto della più grande pandemia degli ultimi 100 anni. Prevedere il futuro è difficile ma Newzoo ha presentato alcuni possibili trend per gli esports nel 2021. Il primo riguarda i mobile esports, fenomeno che contribuisce attivamente alla crescita e alla diffusione dell’intero settore. Su tutti un titolo: PUBG Mobile, con la BluHole che ha ormai abbandonato i piani esports a lungo termine per la versione pc preferendo quella per smartphone e tablet. Senza dimenticare l’approdo prepotente di Riot Games sul mercato mobile con League of Legends: Wild Rift.

Il secondo punto riguarda il solco sempre più profondo fissato tra lo sport tradizionale e gli esports. Le organizzazioni esports si stanno allontanando dalla classica concezione di squadra sportiva o di club, puntando alla diversificazione dei propri prodotti: non solo competitivi ma anche e soprattutto multimediali e di intrattenimento. Se, però, gli esports si allontanano dallo sport, quest’ultimo tende invece a rincorrere sempre più il modello che il gaming competitivo incarna oggi. Il Covid-19 ha messo a nudo tutte le difficoltà che oggi vive lo sport tradizionale in termini di carenza di pubblico e di interesse. «Se non saremo lungimiranti e progressisti, staremo semplicemente proteggendo un sistema che già non esiste più, un modello pensato per l’intrattenimento nazionale che interessa realmente poco i nostri figli e le giovani generazioni, incuriositi più da Fortnite che dal calcio». Parole che erano arrivate a fine 2019 da Andrea Agnelli in occasione del suo discorso alla European Clubs Association.

Non è un caso che siano nati i canali Twitch della Juventus, del Milan, o i nuovi contenuti dell’Inter rivolti al pubblico di gamer. Così come non è un caso la nascita della eSerieA, il campionato digitale parallelo alla Serie A, organizzata da Infront, Lega Serie A e PG Esports. «I giocatori sono sempre esistiti: adesso abbiamo i videogiochi giusti, i team e gli allenatori giusti, le strutture giuste e ogni mezzo possibile per permettere loro di raggiungere l’apice del successo competitivo. I fan li abbiamo, l’attenzione mediatica pure e finalmente anche gli strumenti per giocare e guardare. Tutti i pezzi del puzzle si stanno incastrando perfettamente», secondo Paul Chaloner. L’intuitività dei titoli esports, delle loro regole semplici da comprendere anche per chi non è un giocatore, si sposa alla perfezione con la loro accessibilità, sia per il giocatore che per lo spettatore. Che sia dal pc, dalla console o da un dispositivo mobile, oggi chiunque ha più di un modo per giocare, per trovare il proprio titolo preferito, condividere le proprie esperienze o semplicemente guardare i migliori sfidarsi per il titolo di campioni. Il tutto comodamente, online, da casa.

Da Undici n° 37 – Foto di Mattia Balsamini