Dieci cose che ricorderemo della Serie A 2020/21

La crescita di Bastoni e Zielinski, l'esplosione di Vlahovic, il gioco scintillante dello Spezia e del Sassuolo.

Poche ore fa è terminato il campionato di Serie A 2020/2021. Per celebrare questa stagione, abbiamo deciso di selezionare dieci cose di campo che ci hanno colpito in maniera particolare, e che perciò vorremmo fossero ricordate. L’ordine è puramente casuale, abbiamo cercato di esplorare l’intera geografia del campionato, toccando tutte le latitudini della classifica.

Alessandro Bastoni che sa fare tutto, e anche molto bene
Lukaku, Hakimi, Barella e Lautaro Martínez, nell’ordine che preferite, sono stati i grandi protagonisti della stagione dell’Inter; da gennaio in poi, l’inserimento in pianta stabile di Eriksen ha dato qualcosa in più alla manovra dei nerazzurri; Handanovic, De Vrij e Brozovic hanno brillato meno rispetto ad altri compagni, ma sono stati dei pilastri, degli aggregatori di solidità ed esperienza. È poi c’è Alessandro Bastoni, che è cresciuto a dismisura. Il verbo crescere, però, non è abbastanza per raccontare la stagione del difensore dell’Inter: Bastoni è migliorato, certo, ma soprattutto si è espanso, è diventato un calciatore universale, ha aumentato la sua influenza in tutte le zone del campo.

Se, a destra, Hakimi è risultato inamovibile fin da subito per via della sua fisicità e della sua creatività, a sinistra Conte ha alternato Young, Perisic e Darmian. Il tecnico nerazzurro ha agito in questo modo, ha potuto farlo, proprio perché la prima fonte di gioco offensivo da quella parte è sempre stato Bastoni. Del resto fare il difensore centrale, soprattutto nei sistemi a tre dell’era contemporanea, è un mestiere diverso rispetto al passato: Bastoni ha colto perfettamente questo cambiamento, anzi l’ha alimentato con le sue sovrapposizioni interne ed esterne, i suoi lanci a tagliare il campo, con una presenza continua – e di buona qualità – nella costruzione dal basso. Tutto questo, però, non ha inficiato la sua efficacia arretrata, la sua resa nell’arte della marcatura, delle chiusure in anticipo. Non è eccessivo pensare che questa stagione, coronata da uno scudetto meritatissimo, abbia lanciato Bastoni nell’élite del suo ruolo: quello del centrale moderno, che sa difendere e sa fare tutto il resto, anche piuttosto bene.

Piotr Zielinski, artista

Con Piotr Zielinski, Gennaro Gattuso ha fatto opera di sottrazione: rispetto agli allenatori che l’hanno preceduto sulla panchina del Napoli, ha deciso che il polacco dovesse essere meno coinvolto nella costruzione del gioco, meno impegnato nella fase difensiva. In compenso, però, ha deciso di liberare – ma anche di aspettare – il suo estro, di dargli la possibilità di sparire e poi di ricomparire all’improvviso con una giocata in grado di rovesciare le partite, di indirizzare i risultati.

La miglior stagione di Zielinski a Napoli, la prima in doppia cifra nella sua carriera per numero di gol e assist in tutte le competizioni (10 e 13), nasce così, da un nuovo ruolo – trequartista nel 4-2-3-1 – e da una serie di momenti in cui il polacco ha espresso e messo a nudo la sua anima di artista. Qualche anno fa credevamo – anzi: speravamo – che Zielinski potesse diventare una mezzala europea, un ricamatore di calcio ad alta continuità produttiva, un giocatore di strappi ma anche di governo. Non è andata proprio così, o almeno non ancora. Ma intanto Zielinski nel 2020/21 è stato meno intermittente del solito, più volte e quindi più decisivo rispetto al passato. Forse questo cambiamento è dovuto anche alla presenza di Osimhen, un attaccante che allunga il campo anziché restringerlo, e allora Piotr ha avuto più spazi in cui far valere la sua tecnica superiore, talvolta abbagliante. Come nella gara contro il Genoa, alla seconda giornata di campionato, quando avviò un’azione tutta in verticale con uno dei suoi soliti break palla al piede, e poi la concluse con un dribbling e un tiro di pregio, dopo un bellissimo scambio con Elmas e Osimhen che gli aprì tutto lo specchio della porta. Ecco, questo è il gol-manifesto del nuovo-vecchio Zielinski, in un Napoli diverso dal passato, forse anche per merito suo.

Davvero una bella azione

Il possesso palla del Sassuolo orchestrato da Manuel Locatelli

La qualità e l’ambizione del Sassuolo nella costruzione dal basso, nella fase di possesso palla, sono state raccontate e approfondite sul Guardian, persino in un articolo del New York Times. Non si tratta un exploit isolato, circoscritto ad alcune partite di questa stagione, ma è il risultato di un progetto portato avanti negli ultimi tre anni. Un progetto che porta il nome di Roberto De Zerbi, certo, ma che va ascritto soprattutto a una società in grado di dare all’allenatore di turno gli strumenti e gli stimoli migliori per portare avanti un’idea di miglioramento collettivo che diventa inevitabilmente individuale.

In virtù di tutto questo, l’uomo-simbolo del Sassuolo di De Zerbi non può essere che Manuel Locatelli: il direttore d’orchestra in fase di possesso, ma non un regista classico, statico. Il suo percorso è una cartina tornasole del lavoro del club neroverde, a livello tecnico, tattico ma anche emotivo: Locatelli è arrivato a Sassuolo insieme a De Zerbi ed era considerato un talento già bruciato, un centromediano di impostazione che non era in grado di reggere i grandi palcoscenici; il tecnico bresciano ha capito che aveva bisogno di muoversi e giocare in maniera diversa, col tempo gli ha affidato le chiavi della manovra ma gli ha anche dato maggior libertà in campo, oltre a una fiducia incondizionata. È così che Locatelli è tornato a splendere, oltre qualità tecniche di alto livello ha mostrato un’intelligenza superiore, tutte doti che l’hanno portato a essere uno dei pilastri della Nazionale di Mancini e un profilo molto ricercato sul mercato – non solo quello italiano. La storia di Locatelli è sovrapponibile a tanti altri giocatori del Sassuolo, inventati da De Zerbi grazie a un gioco ricercato e anche vincente: l’ottavo posto a 62 punti e a un passo dall’Europa è un risultato prestigioso, che dà forza al nuovo progetto in fase di costruzione. Che si materializzerà senza De Zerbi e probabilmente senza Locatelli, ma il Sassuolo ha già dimostrato che gli addii non sono un problema, quanto un’occasione per ripartire con un nuovo ciclo.

Le corse furiose, ma anche la tecnica, di Theo Hernández

L’esplosione e l’affermazione e il consolidamento del Milan di Pioli, ma anche i suoi (pochi) momenti di crisi e di vuoto cosmico, sono coincisi con gli alti e bassi di Theo Hernández. Certo, la presenza ingombrante di Ibrahimovic ha spesso fagocitato il racconto della squadra rossonera, e anche Kessié è stato determinante. Ma la verità è che l’anima del ritorno in Champions League ha anche le sembianze del terzino nato a Marsiglia ma cresciuto in Spagna, la sua fisicità fuori scala, la sua tecnica irruente eppure raffinata.

In una squadra in cui la regia si determina attraverso il movimento – diretto, verticale – del pallone, un giocatore che sappia governarlo e condurlo e indirizzarlo ad alta velocità diventa fondamentale, anche se gioca sulla fascia. Theo Hernández ha assolto benissimo questo ruolo, ma in realtà è andato oltre la dimensione di laterale difensivo, come dimostrano i sette gol e i sei assist in Serie A: i suoi inserimenti senza palla, le sue corse continue e infinite dentro il campo, le sue scorribande e anche la sua capacità di trovare il compagno con intelligenti passaggi tra le linee hanno permesso al Milan di indirizzare o risolvere molte partite, di avere una risorsa offensiva a cui è difficile opporsi, dato che parte da una posizione così arretrata e ha una qualità così vasta, così varia. Al Milan, Hernández ha trovato il contesto tattico e l’ambiente giusti per (tornare a) esprimere le sue enormi doti, per farlo in maniera continua, così da essere determinante a qualsiasi livello, esattamente come veniva profetizzato alcuni anni fa, quando era considerato uno dei più grandi talenti europei nel suo ruolo. A 24 anni da compiere non era e non è ancora troppo tardi, per fortuna.

Junior Messias, un po’ di follia

Nel racconto della stagione di Junior Messias, il numero dei gol segnato (nove) ha un significato laterale, anzi davvero minimo. Perché il punto che determina e risolve la trama sta nel modo in cui il 30enne brasiliano del Crotone ha segnato questi gol, nel modo in cui ha gestito i tantissimi palloni che ha giocato, nel modo in cui ha permesso alla sua (modesta) squadra di vivere dei momenti di pura irriverenza tecnica, di pura luce. Al punto che, da un certo punto del campionato in poi, Stroppa e poi Cosmi hanno deciso di spostare Messias a centrocampo, così da affidargli la gestione dell’intera manovra del Crotone, non solo la fase creativa e conclusiva a ridosso della porta avversaria.

Dal momento in cui si è concretizzato questo cambiamento tattico, Simy ha iniziato a segnare a raffica. Ma davvero a raffica: 19 gol in 23 partite da gennaio a maggio 2021. Non può essere un caso, anche se è servito a poco: il Crotone ha avuto per tutto l’anno una difesa a dir poco mediocre, che ha impedito alla squadra calabrese di essere davvero competitiva. Dal centrocampo in su, però, Messias ha continuato a mostrare i suoi numeri ad alto coefficiente di tecnica e spettacolarità, i suoi dribbling e le sue sterzate nello stretto, i suoi tocchi rapidissimi col sinistro che hanno mandato a vuoto qualsiasi avversario. A volte questa sua tendenza al virtuosismo è sembrata eccessiva, ma in realtà non è mai stata fine a se stessa: dietro l’apparente follia di Messias c’è sempre il tentativo di creare qualcosa di utile per la sua squadra, qualcosa di divertente per sé e per chi lo guarda, qualcosa che rimanga oltre il risultato. Ci è riuscito, qualcosa è rimasto, e anche lui sembra destinato a rimanere in Serie A, per provare a misurarsi su un palcoscenico più ambizioso, più adeguato al suo talento.

Un minuto e mezzo di gol e altre cose belle fatte da Junior Messias

Cristian Romero che si arrampica sugli avversari per fermarli, e ci riesce quasi sempre

La forza di tutte le squadre che Gasperini ha costruito e guidato nel corso della sua carriera va ricercata nella perfetta corrispondenza tra le idee dell’allenatore e i comportamenti dei giocatori scelti per farne parte. E infatti le stagioni sbagliate di Gasperini – con l’Inter e con il Palermo – sono arrivate proprio quando il tecnico piemontese ha dovuto gestire delle rose non assemblate per lui. All’Atalanta, questa simbiosi tattica ed emotiva esiste ormai da cinque anni, eppure ogni stagione si rinnova, diventa più profonda e più proficua. Nel 2020/21, l’innesto che ha alimentato questa tradizione è stato certamente Cristian Romero.

Romero non è solo un difensore aggressivo che si esalta nella marcatura a uomo, ma è anche un atleta formidabile, in grado di reggere il confronto – fisico e tecnico – con qualsiasi attaccante, di arrampicarsi su chiunque per ribattere il pallone di testa. Certo, magari Benzema, Lukaku e Osimhen – protagonisti in tre delle pochissime sconfitte stagionali dell’Atalanta – sono riusciti a fare la differenza anche giocando contro di lui, ma si tratta di Benzema, Lukaku e Osimhem, appunto; inoltre Romero ha 23 anni, era ed è alla prima stagione in una squadra di vertice, quindi ci sta che abbia accusato dei passaggi a vuoto. Anche perché l’Atalanta, come tutte le cose che chiedono tanto e riempiono la vita dei calciatori, rischia anche di svuotarle, di cancellare le loro energie, di fagocitare la loro visione. Con Romero, questo è accaduto pochissime volte. Perché oltre la pressione e le chiusure tipiche del calcio di Gasperini, sa fare ed essere anche altro: per esempio un difensore cerebrale, in grado di fermare gli avversari con la mente, oltre che con il fisico. Non a caso, infatti, è il primo giocatore in Serie A per palloni intercettati senza ingaggiare contrasti (3,1 per match). Insomma, parliamo di un centrale perfetto per l’Atalanta di Gasperini, ma che in realtà potrebbe giocare ed eccellere ovunque, fin da subito.

Gli incendi sulla fascia appiccati da Federico Chiesa

Il fatto che Federico Chiesa abbia segnato il gol decisivo per la vittoria in Coppa Italia della Juventus non è casuale, esattamente come il gol che ha aperto le marcature nella partita che ha portato i bianconeri in Champions League. Tutto questo è una naturale conseguenza a lungo termine dell’impatto generato fin dal giorno del suo arrivo in bianconero. Il suo gioco elettrico, i suoi dribbling di pura forza, la sua abilità nel creare qualcosa anche durante un’azione apparentemente statica, stagnante, hanno permesso alla squadra di Pirlo di venire fuori da alcuni dei tanti momenti di impasse vissuti nel corso dell’anno. Anzi, se vogliamo il vero problema della Juventus 2020/21 è stata proprio l’incapacità – strutturale e poi anche tattica – di sintonizzarsi davvero sullo stesso ritmo di Chiesa, così da rendere ancora più frequenti e decisive le sue percussioni.

Le idee iniziali di Pirlo erano perfette per Chiesa, e viceversa: il tecnico bianconero aveva in mente una squadra che giocasse ad alta intensità, che difendesse in spazi strettissimi e attaccasse in campo lungo, velocemente, scatenando la corsa e l’imprevedibilità degli uomini offensivi, e ovviamente il killer instinct di Ronaldo. Tutto questo si è visto in alcune partite e in alcuni segmenti dell’anno, soprattutto per merito di Chiesa: l’ex Fiorentina, infatti, è stato uno dei due giocatori della rosa bianconera (l’altro è Morata) ad aver segnato almeno un gol e anche ad aver servito almeno un assist in Serie A, Coppa Italia e Champions League, e ad aver raggiunto la doppia cifra per gol e assist (15 e 11) in tutte le competizioni. Sono numeri importanti, considerando che Chiesa era alla sua prima stagione lontano dalla squadra e dalla città in cui è cresciuto, e anche il fatto che la Juventus abbia vissuto un anno davvero tribolato, a tutti i livelli. In ogni caso, Chiesa ha dimostrato di poter essere determinante in ogni competizione, di avere le qualità per giocare e appiccare il fuoco sulla fascia destra come su quella sinistra, ora serve solo che il nuovo progetto bianconero riparta da lui, da una squadra che sappia stare al suo passo, che riesca a staccarsi dal passato e guardare in maniera convinta – e convincente – verso il futuro.

Chiesa salta tutti

La luce perpetua di Rodrigo De Paul

Quante azioni dell’Udinese 2020/21 avete visto in tv? Ognuno potrebbe rispondere a questa domanda in maniera diversa, anche perché è difficile pensare che un tifoso della Sampdoria o del Cagliari abbia seguito tutte le partite della squadra di Gotti. Ora, un’altra domanda: quante azioni dell’Udinese 2020/21 avete visto senza che Rodrigo De Paul fosse al centro di tutto e/o mettesse il suo zampino? La risposta di chiunque, nessuno escluso, non può essere che “pochissime”. E non è un’iperbole, e non c’entra nemmeno il tifo per l’Udinese. È così e basta.

Certo, si tratta di una condizione che riguarda tutte le squadre con tutti i loro leader tecnici. Ma con De Paul è diverso: da quando è diventato un centrocampista, l’argentino è un vero calciatore box-to-box che va a prendersi il pallone a metà campo, a volte anche nella sua trequarti, e lo trascina in avanti. Quando non è lui a farlo fisicamente, ma succede molto di rado, è sempre e comunque lì a dettare i tempi, a guidare i suoi compagni come se avesse un joystick nella testa. Va così perché De Paul sa fare tutto: sa condurre la transizione positiva, sa orchestrare gli attacchi posizionali nello stretto, sa lanciare i compagni sul lungo e tirare da fuori, sa tagliare le linee e inserirsi alle spalle dei difensori avversari. In virtù di questa luce perpetua che accende nel gioco, De Paul sfugge alle statistiche: i suoi numeri – nove gol e dieci assist, più 2.3 passaggi chiave e 3.5 dribbling riusciti per match – sono ovviamente eccezionali, ma non bastano a restituire l’importanza che ha nel gioco dell’Udinese. Quello è un dato incalcolabile. Perciò si può dire che De Paul sia diventato più grande della sua squadra. E che forse è arrivato il momento di misurarsi con un contesto diverso, perché conquistare una salvezza comoda non può più bastare, a questo De Paul.

I passaggi tra le linee dello Spezia

La qualità del gioco e la salvezza dello Spezia hanno fatto a pezzi un po’ di luoghi comuni: quello per cui non ci si possa salvare in Serie A con un calcio proattivo, ricercato; quello per cui la costruzione dal basso e/o uno stile di passaggi sofisticato appartengano solo ai grandi giocatori delle grandi squadre; quello per cui un allenatore che non ha mai lavorato in Serie A debba adattarsi al nuovo contesto, snaturando la propria idea di calcio, alterando le caratteristiche della propria squadra.

Lo Spezia ha giocato per tutto il campionato come se fosse sotto l’effetto di un incantesimo che blocca lo scorrere del tempo: quella in maglia bianca è stata la stessa squadra che aveva raggiunto meritatamente la promozione in Serie A, solo con (alcuni) calciatori diversi. Diversi nel nome, poco diversi nel censo: la continuità garantita dal lavoro di Italiano e della dirigenza ha portato a un mercato non troppo oneroso – tre milioni di investimento sui cartellini e un monte stipendi di 22 milioni – e del tutto coerente con il progetto tattico, che quindi ha determinato l’arrivo di giocatori non ancora affermati, ma in grado di fare ciò che aveva in mente l’allenatore. E cioè tantissimi passaggi rischiosi dietro le linee degli avversari per risalire il campo; aperture panoramiche per sfruttare il lato debole; ricerca della profondità come arma da utilizzare contro le difese più chiuse. Il gioco audace dello Spezia ha pagato i suoi dividendi: 52 gol fatti e 72 subiti, tante partite dominate – anche contro avversari di livello più alto – e altre perse in maniera netta, ma senza mai tradire un’identità definita, profondissima.  È così che sono cresciuti diversi giocatori ora ritenuti validissimi per la Serie A – Gyasi, Maggiore, Nzola, Marchizza, Pobega – e che nove mesi fa erano degli esordienti o poco più. È questa la vera impresa di Italiano e dello Spezia: aver conquistato la salvezza senza rinunciare a costruire il futuro, essere riusciti a valorizzare il talento senza comprimerlo in un calcio troppo speculativo.

Dusan Vlahovic che segna in tutti i modi

Qual è il modo migliore per definire la forza di un attaccante? Non esiste una risposta definitiva a questa domanda, però esistono tanti piccoli pezzi da mettere insieme: i gol sono fondamentali, certo, ma poi vanno considerati anche il peso, la qualità, la varietà delle marcature; e poi bisogna tener conto del contributo dato alla squadra in termini di partecipazione, di personalità, tutte cose che assumono un valore diverso in base all’età dell’attaccante in questione. Nel caso di Dusan Vlahovic, questi pezzi si incastrano perfettamente, come se fossero le tessere di un puzzle che riproduce un suggestivo scenario di montagna: l’attaccante della Fiorentina ha 21 anni, ha segnato 21 volte nella Serie A 2020/21 – record assoluto per uno straniero così giovane – e questi suoi gol sono risultati decisivi per la salvezza di una Fiorentina poco più che mediocre per larghi tratti della stagione.

Questa è la tara, e di per sé già basterebbe. Solo che c’è anche tutto il resto: Vlahovic ha segnato in tantissimi modi diversi, di rapina, con tiri fulminanti da fuori area, sfruttando la sua grande forza fisica, con un rigore a cucchiaio contro la Juventus. I gol sono la parte più importante del suo gioco, diciamolo ancora, ma non sono tutto: specialmente nella seconda parte di stagione, il centravanti serbo ha messo a disposizione della Fiorentina anche una capacità non comune di leggere il gioco, di comprendere se, come e quando legare i reparti, o se era il caso di rimanere in avanti a fare da pivot, da esploratore della profondità. Le sue prospettive sono sconfinate, perciò non ancora rintracciabili: servirà un’esperienza in una squadra più forte, o in una Fiorentina più forte, per capire se siamo di fronte a un protagonista dei prossimi tre lustri di calcio internazionale.

Prendetevi tre minuti, ne vale la pena