Perché le squadre italiane non hanno puntato su Roberto De Zerbi?

Uno degli allenatori emergenti del nostro calcio ha accettato l'offerta dello Shakhtar. Il suo addio dimostra come molti club di Serie A abbiano un problema con i tecnici giovani, pure quelli che hanno già fatto vedere le loro qualità.

Alcune settimane fa, parlavo con un mio amico – un allenatore trentenne – di Julian Nagelsmann. A un certo punto mi ha detto: «Vedi, in Germania a 33 anni puoi allenare il Bayern, mentre in Italia mi ritrovo ancora Cosmi e Ranieri sulle panchine di Serie A». Certo, la realtà dice che Cosmi e Ranieri hanno avuto un impatto piuttosto positivo su Crotone e Sampdoria – soprattutto Ranieri sulla Samp. Ma certe parole non mi sono sembrate insensate. Poi è arrivata la notizia di De Zerbi nuovo allenatore dello Shakhtar, e lo stesso amico mi ha scritto su WhatsApp: «Pensa, lui è dovuto andare in Ucraina per allenare in Champions League». In effetti anch’io ci sono rimasto un po’ male, dopo quello che si è visto in questa stagione. Dopo quello che si è visto negli ultimi anni.

Roberto De Zerbi, allora, sarà il prossimo allenatore dello Shakhtar Donetsk: a 42 anni, guiderà la squadra ucraina in Champions League dopo aver firmato un contratto da due milioni di euro a stagione. Il trasferimento in Ucraina si è concretizzato dopo 155 partite in Serie A sulla panchina di tre società diverse (Palermo, Benevento e Sassuolo). Come ha più volte ripetuto Fabio Capello, tre anni sono il ciclo massimo per un allenatore in un solo club: forse anche per questo, dopo un 11esimo e due ottavi posti, il secondo a un passo dalla qualificazione in Conference League, De Zerbi ha deciso che il suo tempo al Mapei Stadium fosse finito: «Non penso di poter dare di più», ha detto il tecnico bresciano qualche settimana fa, dopo una vittoria per 3-1 sul Parma. Il ragionamento è logico, e anzi, visti i risultati, è anche giusto che un allenatore ancora giovane (compirà 42 anni tra pochi giorni) e molto apprezzato abbia l’ambizione di allenare calciatori più forti, di potersi mettere alla prova in contesti più difficili. Lui stesso, dopo aver battuto la Lazio nell’ultima partita in neroverde, ha spiegato: «Cerco il contesto giusto per esprimere le mie capacità. Servono però le condizioni giuste, voglio avere la possibilità di farlo come l’ho avuta a Sassuolo».

Ma perché nessuno gli ha offerto questa possibilità in Italia? Perché a De Zerbi – un tecnico a lungo accostato a panchine importanti come quelle della Roma e del Napoli, che ha un’idea di calcio definita e moderna, apprezzata anche all’estero, vedi i feedback di The Athletic e del Guardian non è stato offerto un posto in una squadra italiana che gioca in Europa? Non è solo una questione di procuratori, posizionamento o competenze: è un fatto di cultura sportiva. In Serie A, a differenza di quanto avviene altri tornei europei, gli allenatori giovani sono considerati pochissimo, dai grandi e dai piccoli club. Dalla stagione 2010/11 a oggi, gli unici Under 40 che si sono seduti su panchine di grandi squadre sono stati Andrea Stramaccioni all’Inter (promosso dal settore giovanile dopo un periodo ad interim), Vincenzo Montella alla Roma (anche lui promosso pro tempore per finire la stagione), Andrea Pirlo alla Juve (prima stagione da allenatore), più tre milanisti: Gennaro Gattuso, arrivato sulla panchina rossonera a 39 anni, Christian Brocchi, nominato allenatore a 40 anni appena compiuti, e Clarence Seedorf, subentrato a 38 anni. Tutte avventure durate pochissimo, in attesa di sapere come finirà il rapporto tra Pirlo e la Juve. Se si allarga la mappa anche alle altre squadre della Serie A, troviamo tanti allenatori Under 40, ma nessuno di questi è stato confermato o trattenuto per un progetto a lungo termine: Devis Mangia, Diego Simeone, Diego López, Fabio Liverani, Massimo Oddo, Christian Bucchi e Igor Tudor sono stati tutti tecnici di passaggio, rimasti poco più di qualche mese, comunque mai più di una stagione alla guida della stessa squadra. L’unico a riuscire in questa impresa è stato proprio De Zerbi: ha firmato con il Sassuolo il 13 giugno 2018, quando aveva 39 anni, e ha lavorato col club neroverde fino a poche ore fa, senza esoneri o ripensamenti.

Certo, c’entrano anche le doti, le qualità. E infatti De Zerbi – come molti giocatori che ha allenato al Sassuolo – è stato uno dei profili giovani più apprezzati d’Italia: un allenatore che ha fatto la gavetta, che ha saputo costruire un’identità di gioco sofisticata, moderna; quest’anno, se non fosse stato per la differenza reti pro Roma, avrebbe raggiunto la prima qualificazione europea della sua carriera. Chiaramente il suo Sassuolo ha manifestato anche dei limiti: la difesa neroverde ha subito molto (56 gol in 38 gare), il rischio di perdere palla in zone pericolose è sempre stato alto. Ma anche questo è un discorso di qualità: con calciatori più forti di quelli del Sassuolo, probabilmente questo tipo di gioco così ambizioso potrebbe risultare più efficace. Proprio per questo fa effetto pensare che De Zerbi sia dovuto emigrare in Ucraina. Che non sia riuscito a trovare un club di livello medio-alto pronto a dargli fiducia e tempo per poter migliorare ancora.

Ma il problema è sempre quello: nessuno ha voglia di rischiare. Per molte squadre della Serie A, investire su un allenatore come De Zerbi sarebbe stato troppo pericoloso. È un discorso che può aver senso per l’Inter e per la Juventus di oggi, società dall’elevato budget ingaggi che non possono perdere tempo, non possono affidarsi a un tecnico che – per sua stessa ammissione – ha proprio bisogno di tempo perché il suo calcio possa manifestarsi, possa rendere davvero. Le ultime due ricostruzioni della Juventus, dagli esiti piuttosto zoppicanti, sono un segnale chiaro, in questo senso. Ma è più difficile capire perché gli altri club medio-borghesi del campionato, quelli che non hanno l’ambizione (e le risorse) per programmare la vittoria dello scudetto – Napoli, Fiorentina, Roma, Lazio, Milan – non abbiano pensato a De Zerbi. E ovviamente il discorso vale anche per gli anni precedenti, non solo per questa tarda primavera 2021, in cui De Zerbi e lo Shakhtar si sono scelti a vicenda.

Nelle sue tre stagioni al Sassuolo, De Zerbi ha guidato la squadra neroverde in 120 gare ufficiali, accumulando 43 vittorie, 36 pareggi e 41 sconfitte (Emilio Andreoli/Getty Images)

Resta il fatto che questa paura di rischiare, questa scarsa fiducia nella prospettiva, fa parte di una visione smontata da ciò che succede all’estero, per di più da molti anni. Non c’è bisogno di arrivare fino al Barcellona 2008/09, al Triplete del 37enne Guardiola, o al grande percorso di Nagelsmann con il Lipsia: Rúben Amorím,  allenatore 35enne, ha vinto il titolo portoghese alla prima stagione con lo Sporting Lisbona, e già nel 2019 era alla guida di una squadra di prima divisione – lo Sporting Braga. Amorim era veramente giovane, eppure lo Sporting ha deciso di pagare la clausola rescissoria del suo contratto con il Braga (10 milioni) pur di strapparlo agli avversari e alla concorrenza; appena arrivato a Lisbona, ha dimostrato di avere grandi doti nella costruzione di un’identità di gioco solida ed efficace, ma anche maturità e freddezza nel gestire e vincere campionato non facile, condotto sempre in testa eppure deciso solo nelle ultime giornate. Il calcio italiano non ha meno qualità e risorse di quello portoghese, e di certo i tecnici che escono da Coverciano non sono meno pronti dei colleghi loro colleghi lusitani o del resto d’Europa. Evidentemente, quello che c’è diverso fra la Serie A e gli altri campionati è dentro le società,  riguarda la cultura intorno al ruolo dell’allenatore, una figura che da noi non riesce a diventare centrale nella costruzione di una squadra, che nella visione italiana vale molto meno dei calciatori. Quando in realtà vale allo stesso modo e a volte può valere anche di più – non a caso il Bayern Monaco ha deciso di investire 30 milioni per “acquistare” Nagelsmann dal Lipsia.

A differenza delle squadre italiane, lo Shakhtar Donetsk ha deciso di puntare su De Zerbi, un tecnico giovane, straniero e idealista. Per lui si tratta di un’opportunità importante: non solo potrà allenare una squadra che gioca la Champions League, ma lotterà con la Dinamo Kiev per vincere il campionato (le due società si sono divise tutti i titoli nazionali dal 1993 a oggi) e potrà gestire una rosa di una certa qualità. Inoltre, farà un’esperienza di vita in una zona del mondo che vive un momento storico complicato (lo Shakhtar ha spostato il suo business lontano dal Donbass), ma che gli permetterà di conoscere una cultura, una lingua e un universo completamente nuovi. Magari questa si rivelerà la mossa migliore per lui, ma il calcio italiano intanto ha perso un allenatore che forse avrebbe potuto essere valorizzato di più. Che forse avrebbe meritato un’occasione, non di aspettare così a lungo, per via della paura di rischiare.