Diego Simeone e l’Atlético Madrid l’hanno fatto di nuovo

Il trionfo in Liga dei Colchoneros è l'ennesimo capolavoro firmato dal tecnico argentino, che per tornare a vincere ha dovuto barattare un po' della sua filosofia, rivelandosi più adattabile di come viene raccontato.

Nel momento in cui Óscar Plano ha ricevuto palla nella propria metà campo e si è lanciato da solo verso quella avversaria, vuota, Oblak si è ritrovato a dover affrontare in uno-contro-uno tutti i demoni che infestano la storia dell’Atlético Madrid. Basti pensare che, delle nove volte in cui i Colchoneros sono stati campioni d’inverno prima di quest’anno, soltanto in una sono riusciti a chiudere il campionato da primi. Il gol del Valladolid, nato da un corner a favore dei rojiblancos, sembrava l’inizio dell’ennesimo psicodramma. «Siamo il cazzo di Atleti, non avremo mai nulla di facile. Vinceremo questa Liga, nessuno crede in noi ed è in queste situazioni in cui riusciamo a dare il meglio», pare abbia detto Koke in un audio Whatsapp condiviso dalla stampa spagnola, dopo la sconfitta al San Mamés con l’Athletic Bilbao, uno dei momenti in cui il titolo è sembrato essere compromesso. Il racconto dell’Atletico di Simeone e delle sue imprese si finisce sempre lì, nella narrativa di uno spirito che non si rassegna al ruolo di vittima del fato e combatte. Ovvero, di qualcosa che è mentale, ambientale e intangibile, impossibile da misurare ma altrettanto difficile da ignorare. La mano del Cholo, però, anche in quel momento e come non mai in questa stagione, si è vista sul piano tattico: come nella partita precedente contro l’Osasuna, vinta in rimonta, l’Atleti ha continuato a costruirsi occasioni, a far girare il pallone, ad attaccare con la consapevolezza di poter segnare senza problemi.

Nell’anno in cui, oltre al titolo dell’Atleti (il primo dal 2014), lo Sporting CP è tornato a vincere un campionato portoghese dopo diciannove anni di attesa e l’Inter ha spezzato un monopolio di nove scudetti juventini, è difficile non accorgersi di quanto questi successi siano una diretta emanazione del lavoro degli allenatori che hanno guidato queste tre squadre. Un lavoro che non può semplicemente appoggiarsi al talento o all’inerzia di un contesto in cui si è i più forti, ma che dev’essere pervasivo e incidere sullo status quo. Non è un caso che Rúben Amorim, Antonio Conte e Diego Pablo Simeone abbiano vinto grazie a una proposta tattica forte, capace di elevare il rendimento dei singoli anche oltre le aspettative, e costruendo tre gruppi di uomini in missione, consapevoli di dover costruire al proprio interno i presupposti – anche mentali ed emotivi – per riallineare il percorso della squadra alla sua storia e ai suoi obiettivi. In virtù di tutto questo, l’undicesimo trionfo campionato della storia, così come tutte le cose belle accadute all’Atletico Madrid negli ultimi dieci anni, è frutto del lavoro di Diego Pablo Simeone.

Nessuno in questo momento storico, tra i tecnici delle squadre più competitive, è radicato nell’istituzione che allena quanto lo è lui. La presenza costante ad alti livelli garantita dal Cholo al suo club passa per il corpo del leader, per le sue decisioni e per l’organicità che dà al suo contesto, plasmandolo e rendendolo impermeabile, unico. Il successo di quest’anno, però, racconta molto bene quanto Simeone sia bravo a leggere i singoli momenti all’interno della lunga durata del suo ciclo; cosa che è sempre stato in grado di fare, ma che quest’anno ha fatto in maniera più vistosa, perché è andato a intaccare il caposaldo della narrativa che suo malgrado si porta dietro da sette anni, quella del “cholismo”. Negli ultimi due anni, con le cessioni dei suoi giocatori più forti come Griezmann, Rodri e Lucas Hernández, gli addii dei pilastri di un ciclo passato e i molti acquisti, anche particolarmente costosi, per rimpiazzarli, Simeone si è ritrovato in mano una rosa diversa e più dotata tecnicamente rispetto alle scorse stagioni. Il Cholo è un allenatore che ha sempre costruito le sue fortune ad alti livelli su squadre difensivamente solide, reattive e verticali, ma prima di tutto è un allenatore intelligente, e quest’anno ha impostato il suo Atleti con intenzioni diverse, per esaltare caratteristiche e punti di forza dei suoi giocatori diverse: ciò che ha aggiunto è uno sviluppo del gioco più elaborato, una maggior ricerca del possesso e di attacchi posizionali più efficaci e ragionati.

Per farlo, è partito dalla difesa, affidando a Mario Hermoso, centrale difensivo particolarmente pulito nel tocco e nella distribuzione, il ruolo di terzino bloccato o centrale di sinistra della nuova difesa a tre – l’assetto più utilizzato in stagione – a seconda del modulo scelto in partita. Il nuovo 3-4-2-1/3-5-1-1, ha permesso a Simeone di occupare meglio il campo in uscita e iniziare meglio le azioni, ed è stato il terreno su cui Simeone ha innestato una serie di intuizioni e un lavoro sui singoli che ha reso l’Atleti la squadra strepitosa della prima metà di stagione, in grado di portare a casa 50 punti nelle prime 19 partite. Ad esempio, è riuscito a riconvertire un’ala estrosa come Ferreira Carrasco in esterno sinistro a tutta fascia, in un giocatore concreto e ugualmente difficile da contenere. Ha rigenerato Lemar, impiegandolo prevalentemente nel ruolo di interno di centrocampo, permettendogli di sfruttare le sue abilità nello stretto in un sistema che, rispetto alle sue precedenti versioni, ha privilegiato di più le connessioni su un campo più corto.

La madre di tutte le intuizioni, però, è stata la trasformazione di Marcos Llorente da centrocampista difensivo a incursore, e da incursore a giocatore totale. L’ex Real Madrid, recentemente convocato da Luis Enrique all’Europeo come terzino (!), è un giocatore fisicamente straripante, con un allungo potentissimo, un gran tiro e praticamente immarcabile quando si butta in area da lontano. Al termine della scorsa stagione, il Cholo ha sfruttato la sua brillantezza fisica nei duelli facendolo giocare addirittura come punta, ritenendolo – a ragione – affidabile nel rincorrere e proteggere palla. Quest’anno lo ha utilizzato in una maniera altrettanto semplice, valorizzando al massimo la connessione con un ottimo passatore come Trippier: l’inglese tiene l’ampiezza da esterno destro, Llorente riempie lo spazio che si crea inserendosi e riceve in zone calde. Questa coppia ha funzionato come funzionano arco e freccia: il centrocampista spagnolo ha segnato dodici gol e servito undici assist, e quando Trippier è stato squalificato per una questione di scommesse risalente ai tempi del Tottenham, ha persino sostituito il compagno in fascia. Forse Llorente meriterebbe il titolo di MVP della Liga, vista la facilità disarmante con cui, dal nulla, riesce a fare qualcosa di decisivo; gli spetta di sicuro quello di Most Improved Player, perché così determinante lo è diventato in pochissimo tempo.

Sì, adesso parliamo anche di lui

L’uomo che ha deciso il campionato, però, è stato Luis Suárez. Fin dall’inizio Simeone ha capito che l’uruguaiano, allontanato e ferito dal Barça, sarebbe potuto essere un punto di svolta nell’evoluzione della sua squadra. Per sfruttarlo al meglio era necessario capovolgere la prospettiva, immaginare e attuare un calcio diverso, ma allo stesso tempo un calcio diverso aveva bisogno di un nove come Luis Suárez. Quando l’Atletico schierava Diego Costa e Morata, ovvero un maestro nei duelli fisici e nella protezione del pallone e un attaccante bravo a condurre in transizione, aveva interesse ad aver più campo davanti a sé che dietro. Oggi Suárez non ha più l’esplosività per cavarsela sempre sui lanci lunghi, né è fatto per stare in attesa di un duello. Lo si è notato in alcune partite di quest’anno, quelle in cui l livello tecnico dell’avversario si è alzato e allora l’Atlético ha scelto di affidarsi al vecchio spartito, per esempio contro Chelsea in Champions League e all’andata del derby contro il Madrid: in partite di pura difesa posizionale, Suárez è rimasto praticamente isolato sulla metà campo, senza strumenti per aiutare la squadra a uscire dalle barricate. I suoi movimenti, più brevi ma continui e smarcanti, funzionano meglio riducendo il campo, così come il suo modo di associarsi con i compagni. La nuova punta ha permesso a Simeone di costruire una squadra più propositiva delle precedenti, ma soprattutto, di aggiungere un finalizzatore capace di trasformare in gol e in punti tutto ciò che gli capiti davanti, poco o tanto sia: dei 21 gol segnati dal Pistolero, 11 sono stati decisivi. Tra questi, l’ultimo della stagione, quello determinante per il titolo, contro il Valladolid, lanciato in campo aperto contro Jordi Masip. Un gol che ha dissolto il rischio dello psicodramma.

L’Atletico ha vinto la Liga con la quota più bassa degli ultimi tredici anni, 86 punti, ben sedici in più rispetto al terzo posto della scorsa stagione. Le maggior difficoltà, i Colchoneros le hanno avute nel girone di ritorno, quando Real Madrid e Barcellona hanno recuperato i tredici punti di svantaggio e l’Atleti sembrava destinata a cedere sotto il peso tecnico di squadre più attrezzate e quello mentale di un campionato dominato nei primi mesi e poi rimesso in discussione. Se il titolo è stato festeggiato alla fontana di Nettuno e non a Plaza de Cibeles, è dipeso anche da Jan Oblak, che ha giocato una stagione mostruosa, piena di turning point in cui una sua parata ha fatto la differenza. È stato anche il primo titolo di Koke da capitano, che dopo una dopo una faticosa stagione precedente ha guidato il centrocampo nelle due fasi, con il suo solito lavoro poco appariscente ma ancor più esaltato dal nuovo sistema. Anche Ángel Correa ha messo la sua impronta sul titolo, trascinando la squadra nel finale di stagione, così come João Felix, prima di eclissarsi, aveva fatto nei primissimi mesi. Per vincere questa Liga, tutti hanno alzato il livello e offerto la miglior versione di sé. Soprattutto Diego Pablo Simeone.