Nella finale degli Europei Under 21 che si è disputata domenica 6 giugno, gli appassionati di calcio avranno riconosciuto due elementi ricorrenti degli ultimi anni: la presenza della Germania, che è arrivata all’ultimo atto per la terza edizione consecutiva, e ha vinto per la seconda volta; e quella del Portogallo, che aveva raggiunto la finale del torneo nel 2015, e anche allora fu sconfitto. Se per la Germania certi risultati sono una consuetudine storicamente consolidata e verificata, per il Portogallo si tratta di una novità piuttosto recente, anche se ormai dovremmo essere abituati a vedere le rappresentative della piccola nazione ai confini occidentali dell’Europa che arrivano in fondo alle varie competizioni, a tutti i livelli: l’Under-17 ha vinto gli Europei nel 2016; l’Under-19 è stata quattro volte finalista continentale dal 2014 in poi – ha saltato solo l’edizione 2016, chiusa in semifinale – e ha vinto una volta, nel 2018; e ovviamente c’è la Nazionale maggiore, che arriva agli Europei 2020 da campione in carica e dopo aver conquistato la prima edizione della Nations League, nel 2019.
È sempre più evidente che il Portogallo abbia trovato il modo di regolarizzare lo sviluppo del talento, dai giovani fino alla Nazionale maggiore: la Seleçao das Quinas allenata da Fernando Santos è di nuovo una delle candidate principali alla vittoria del titolo continentale, non perché si sia ritrovata tra le mani una generazione vincente e/o grazie a un giocatore irripetibile come Cristiano Ronaldo, ma perché ha creato un modello replicabile nel tempo, una vera e propria filiera industriale che alimenta il suo movimento calcistico anno dopo anno. Nell’immaginario collettivo, i talenti portoghesi sono quelli capaci di fare cose assurde col pallone tra piedi, ma inevitabilmente incostanti e fumosi; giocatori apparentemente brillanti e inarrestabili che poi si esauriscono nella definizione di one-season-wonder, o poco più. Difficile costruire successi duraturi, in questo modo.
Spesso l’immaginario collettivo veicola leggende esagerate e anche poco veritiere, ma questa volta no, o almeno non del tutto: non a caso, nella squadra che ha vinto Europei c’erano molti giocatori che sembravano destinati a prendersi il calcio mondiale e che invece hanno avuto una flessione forse irrimediabile. Sono i vari André Gomes, Renato Sanches (pochi giorni fa un amico mi ha chiesto se giocasse ancora), João Mario, Cédric Soares e Adrien Silva. E poi ovviamente c’era anche Ricardo Quaresma, che è il vero alfiere dei giocatori che sembravano e poi non lo erano. Oggi, però, le cose sembrano essere cambiate, al punto che l’attuale selezione di Fernando Santos ispira sensazioni esattamente contrarie: la squadra di quest’anno è quanto di più simile a una corazzata, è forte in tutti i reparti, ha molteplici opzioni e tanti giocatori ormai affermati ai massimi livelli. Oltre a Cristiano Ronaldo ci saranno João Felix, Bernardo Silva, Bruno Fernandes, Diogo Jota, Rúben Neves, Danilo Pereira, William Carvalho, João Cancelo, Pepe, Ruben Dias, Rapahel Guerreiro. Probabilmente solo la Francia può dire di avere una rosa più completa, più forte, più profonda.
La trasformazione del Portogallo non è una metamorfosi dei singoli ispirata dalla carriera inarrivabile di Cristiano Ronaldo, o comunque non è dovuta solo alla casualità spontanea e non governabile del talento che si autodistribuisce. È stata voluta dalla FPF, la federazione portoghese, ed è stata raggiunta grazie a un nuovo metodo di lavoro di tipo profondo, organico, sistemico. Il simbolo di questo cambiamento è l’inaugurazione della Cidade de Futebol, il centro federale di Lisbona aperto nel 2016, nel giorno del 102esimo compleanno della Federazione: un quartier generale in cui sono concentrati, nello stesso spazio, un centro tecnico, uno stadio, altri due campi da calcio, spogliatoi e palestre dotati di strutture all’avanguardia, un’area uffici riservata a tecnici e ai loro staff, e poi anche un hotel, un museo e altri servizi aggiuntivi. Ovviamente la “città del calcio” è solo l’aspetto più macroscopico e luccicante del nuovo corso portoghese. Il piano strategico della federazione, iniziato nel 2012 in seguito alla nomina del nuovo presidente Fernando Gomes, è stato quello di costruire un’infrastruttura non solo fisica ma anche culturale, in grado di dare una direzione univoca a tutte componenti della macchina federale, dai giocatori più giovani agli allenatori e ai dirigenti.
Il Ceo della federazione, Tiago Craveiro, ha riassunto così il lavoro dei vertici federali parlando a Fc Business: «Abbiamo sempre avuto ottimi calciatori, ma avevamo capito che mancavano organizzazione e pianificazione. Siamo 10 milioni di persone, non possiamo permetterci di perdere giocatori: dobbiamo essere efficienti e sfruttare al massimo quello che abbiamo, perché non possiamo disperdere il talento». Si parte quindi da un dato strettamente quantitativo: la missione di FPF è prima di tutto aumentare il numero di calciatori, far giocare più ragazzi e ragazze, e creare un ambiente positivo e stimolante per lo sport, collaborando anche con il settore privato e con molti partner internazionali, organizzando attività formative, campagne di sensibilizzazione sui temi di inclusione e diversità, workshop per tutte le società di calcio.
Un approccio che ha avuto diramazioni in ogni settore. La Federazione ha voluto mettere su anche un’università tutta sua, un elemento più unico che raro per un’istituzione sportiva, così da costruire in maniera diretta cultura e conoscenza – calcistica e non – da diffondere a tutti. Inaugurata a marzo 2017, la Portugal Football School oggi forma più di 2.500 studenti, e fornisce anche corsi di base per i dirigenti dei piccoli club in tutto il Paese. In questo modo, aiuta a migliorare le conoscenze nell’amministrazione del calcio: «Ci siamo chiesti», aggiunge Craveiro, «cosa potessimo fare perché le società meno sviluppate, anche a livello locale, funzionassero meglio. La risposta era nella formazione delle persone che lavorano negli uffici, che gestiscono quelle società».
Poi si arriva anche al campo, al modo in cui si decide di far giocare i giovani, quindi di allenarli. Ecco, la diffusione ormai planetaria degli allenatori portoghesi è una cartina tornasole del nuovo modello portoghese inventato e attuato dalla Federazione. Se una decina di anni fa la Foootball Associations inglese ha deciso di lavorare per trasmettere a giocatori e allenatori un’idea di calcio associativa, proattiva e diversa dalla cultura tattica tipica del football britannico, l’idea della Federcalcio di Lisbona è stata quella di traslare sul campo la cultura e le abitudini dei loro connazionali: il 20% dei cittadini portoghesi vive all’estero, sono uomini e donne sparsi in tutto il mondo, immersi in ambienti, culture e stili di vita diversissimi tra loro. Più o meno tutti i portoghesi del mondo dicono che hanno una grande capacità di adattamento, che sanno adeguarsi, sanno farsi accettare e apprezzare. Pensandoci bene, sono le stesse caratteristiche umane e professionali della nouvelle vague di tecnici lusitani: da Rúben Amorim a Sergio Conceição, da Carlos Carvalhal (Rio Ave) ad Abel Ferreira (vincitore della Libertadores con il Palmeiras). La loro è una forma di pragmatismo adattativo che già apparteneva agli allenatori portoghesi della generazione precedente – da José Mourinho a Paulo Sousa, da André Villas-Boas a Nuno Espírito Santo, Leonardo Jardim e Jorge Jesus – ma perfezionata e sistematizzata, portata in pianta stabile nei corsi federali ed elevata al massimo livello. Lo stesso Sergio Conceição, allenatore del Porto, è uno che ha dato alla sua squadra un sistema di gioco offensivo, basato su pressing, palleggio e attacco in verticale quando possibile. Solo che, a differenza di molti allenatori con queste caratteristiche, lui stesso definisce il suo approccio a partire da una visione profondamente utilitarista: «Preferisco vincere 1-0 piuttosto che 4-3, perché l’unico risultato che assicura punti è quello in cui non subisci gol».
Un approccio che oggi sembra sublimarsi nella Nazionale di Fernando Santos. La squadra che ha vinto a Euro 2016 era alla ricerca di un compromesso costante tra i funamboli con cui circondare Cristiano Ronaldo e la schiera di mediani e difensori che avrebbero dovuto coprire le zone centrali e più sensibili del campo. Una squadra che sembrava il risultato di una combinazione chimica ricercata pesando e misurando empiricamente tutti gli elementi a disposizione. Una squadra nata probabilmente come una risposta tattica e anche culturale alla delusione per gli Europei del 2004, che in qualche modo sono il mito fondativo della Nazionale di oggi: la squadra allenata da Scolari, quella con Figo, Deco, Rui Costa, Pauleta e ovviamente Cristiano Ronaldo, aveva un potenziale offensivo praticamente sconfinato, ma alla fine si è arresa a un avversario più debole ma più concreto come la Grecia di Otto Rehhagel. Adesso il Portogallo ha saputo rendere sistematico lo sviluppo e la conservazione di quel talento che fino a qualche anno fa sembrava allo stesso tempo brillante e volatile, accecante ed effimero. Ha costruito attorno a questo capitale un modello e una cultura calcistica partendo dalle persone, dai portoghesi stessi, dalle loro abitudini e dalle loro particolarità. Così è riuscito a creare la Nazionale di oggi, bellissima e fortissima. A giudicare dai risultati delle giovanili, però, la situazione potrebbe migliorare ancora nei prossimi anni.