Provaci ancora, Roger

La carriera di Federer è rimasta ferma ai due match point falliti a Wimbledon nel 2019, ma il tempo e il mondo sono andati avanti: nonostante sia a un passo dai quarant'anni, l'ex numero uno del mondo ha deciso di non arrendersi, di giocare ancora.

Per qualcuno il tempo si è fermato a queste coordinate: 8-7, 40-15. Agli appassionati non c’è bisogno di aggiungere altro: queste cifre apparentemente accostate senza senso enunciano il preciso istante in cui Roger Federer, nella finale di Wimbledon del 2019, stava servendo contro Novak Djokovic, con due match point a disposizione. Federer a Wimbledon ha vinto più di chiunque altro (otto volte), ma in quel momento non era una questione di record, primati, numeri o persino gloria: si stava ricomponendo qualcosa di sportivamente estatico, qualcosa che sembrava non poter succedere più e invece eccolo lì, a portata di match point.

Posso evitare di ripescare i minuti concitati di quel preciso frangente del match. Ricordo distintamente una signora in piedi allo stadio, nell’eccitazione generale, che alza l’indice: uno, ti manca solo un punto. Chissà se Federer ha incrociato il gesto di sfuggita. Quindi il servizio, la risposta di Nole sui piedi, Federer che pecca di mobilità e fa fatica a togliersi dalla pallina, uscendosene con un diritto sparacchiato alla bell’e meglio che termina in corridoio. Qualche nube si addensa già in quel preciso istante, ma Federer ha un altro match point, solo che la convinzione della signora – e di tutti – è già scemata. Sul punto successivo, Federer azzarda una discesa a rete, ma l’attacco non è irresistibile e Djokovic riesce a passarlo facilmente.

Quello che succede dopo è dibattuto: ci sono i complottisti, quelli che affermano che un asteroide è precipitato sul campo centrale di Wimbledon proprio in quella frazione di secondo; ci sono i negazionisti, secondo cui nessuna partita di tennis è stata giocata quel giorno; e chi ha imparato a convivere con il “trauma”, riconoscendo che Federer, dopo aver perso quei due match point, ha perso anche la partita. E c’è chi ha capito immediatamente che peso avrebbe dovuto fronteggiare da lì in avanti: il grande sconfitto. «Adesso devo dimenticare in fretta», ha detto lo svizzero quello stesso pomeriggio.

Ogni volta che uno sportivo incappa in una delusione bruciante, un senso di malessere lo attanaglia nel profondo delle viscere. C’è soltanto una cosa in grado di riportarlo in vita, e di non abbatterlo del tutto: la prospettiva di una nuova partita, di un nuovo torneo, di una nuova opportunità. L’idea di inseguire una vittoria che avrebbe il potere di cancellare quella delusione, e se possibile mitizzarla, dandole la forma del combustibile necessario per raggiungere il trionfo successivo. È qualcosa che traspare nelle parole di qualsiasi atleta, di qualunque disciplina, e Roger Federer non dovrebbe fare certamente eccezione. Il problema, per Roger, è che nei mesi successivi a quel torneo di Wimbledon lo svizzero è sceso in campo, senza grossi risultati da annoverare, per un’altra manciata di mesi, e poi si è dovuto fermare per quasi un anno e mezzo: la combo pandemia e doppio intervento chirurgico al ginocchio ci ha sottratto il piacere di vederlo in campo.

Purtroppo per lui, il tempo non si è realmente fermato in quel pomeriggio di luglio 2019: tra poco più di un mese Federer compirà 40 anni, ai quali va aggiunta la doppia operazione e una certa desuetudine al gioco agonistico del tennis – fa impressione dirlo, eppure è così. Lo svizzero ha disputato, da febbraio 2020 a oggi, appena dieci partite nel circuito professionistico, compresa quella del primo turno di Wimbledon 2021 contro Adrian Mannarino, dove Federer certamente non ha brillato ed è avanzato grazie al forfait dell’avversario. Al Roland Garros, dopo aver superato i primi tre turni, ha alzato bandiera bianca. Ha preferito non consumare la già poca benzina che aveva in corpo, in un torneo dove difficilmente avrebbe potuto dire la sua.

Soffermiamoci un attimo al Philippe Chatrier di Parigi, qualche settimana fa: Roger Federer era impegnato nel match di terzo turno contro il tedesco Koepfer. In qualsiasi situazione di normalità la partita sarebbe stata un tripudio di suoni e colori: invece lo stadio era desolatamente vuoto per le restrizioni da pandemia, la mezzanotte era passata da un pezzo e in pochi avrebbero avuto forza e motivazioni per giocare una partita di tennis. E lì, su quel campo che sembrava sbucato da un’ambientazione horror piuttosto che da un elegante circolo sportivo francese, Roger Federer ha battagliato per tre ore e trentacinque minuti contro un carneade qualunque, finendo per vincere, nonostante la decisione, meno di ventiquattr’ore dopo, di abbandonare il torneo.

Roger Federer ha vinto 103 titoli in singolare, dui 20 nei tornei del Grande Slam (record assoluto condiviso con Rafa Nadal); ha vinto anche la Coppa Davis 2014 con la Nazionale svizzera e l’argento olimpico in singolare, a Londra 2012 (Ryan Pierse/Getty Images)

Per molti una smodata dichiarazione di Federer di passione, di amore per il tennis: mettersi in gioco a quasi quarant’anni suonati in un contesto decisamente insolito. Io ci vedo qualcosa di più: da quel Wimbledon 2019, Federer ha deciso che non si sarebbe arreso a quel modo. Lo ha messo in moto l’amara convinzione che no, non avrebbe dovuto chiudere la carriera con quella macchiolina, e pur di impedire al destino cinico e baro di combinargliela grossa è passato sotto la cruna di mesi di impegno, sacrificio, sofferenza e rinunce. Pur di tornare a colpire una pallina da tennis, pur di coronare la sua carriera con un ultimo, mirabolante trionfo. Il fuoco sacro dello sportivo scottato dalla sconfitta in lui è amplificato a dismisura: è montato giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese. Ha dovuto conviverci per così tanto tempo da non poter arrendersi a un Koepfer qualunque e dire “ok, per oggi basta”. L’ha dovuta vincere a tutti i costi quella partita, lo doveva a se stesso più che a chiunque altro.

Vedere Federer trionfare nuovamente a Wimbledon oppure alle prossime Olimpiadi, dove non è mai riuscito a vincere l’oro nel singolare (ha conquistato un argento nel 2012), rimane una speranza piccola, piccolissima. Ma se rivederlo in campo fa già un certo effetto, rivederlo in campo sapendo che, in realtà, lui è lì per vincere e non solo per partecipare ne ingrandisce ulteriormente i contorni da campione. Un campione che da oggi non incarna solo la grazia e l’eleganza su un campo da tennis, ma pure qualcosa in più: determinazione, pazienza e abnegazione. Provaci ancora, Roger.