Il Belgio, la squadra costruita sul talento

Come hanno giocato finora gli avversari dell'Italia nei quarti di finale di Euro 2020.

Se volessimo trovare un ideale filo conduttore nel racconto della prima fase a eliminazione diretta di Euro 2020, potrebbe essere quello per cui il talento, da solo, non è sufficiente. E quindi la logica del basta avere i giocatori forti tende a risultare perdente anche in un torneo di breve durata e in cui la differenza di valori è netta, cristallizzata. Certo, un peso importante ce l’hanno avuto e ce l’avranno sempre gli episodi chiave, i momenti decisivi: l’espulsione di de Ligt preceduta dall’incredibile occasione fallita da Malen, così come il rigore sbagliato da Mbappé o la palla persa da Pogba in occasione del gol del 3-3 segnato dalla Svizzera, hanno contribuito a determinare le clamorose eliminazioni di Olanda e Francia in gare dal pronostico apparentemente scritto. Eppure proprio queste stesse partite hanno dimostrato come e quanto sia importante andare oltre la quantità di talento a disposizione, come e quanto sia necessario possedere la capacità di razionalizzarlo, di modellarlo in funzione di un obiettivo tattico, prima ancora che del risultato.

Partendo da questo presupposto, non è errato dire che il Belgio che affronterà l’Italia a Monaco di Baviera rientri pienamente in questo dibattito, nel senso che è un caso di studi interessante: è una squadra essenzialmente costruita sul talento, che il talento lo accumula e che al talento – inteso come manifestazione estemporanea delle capacità dei suoi straordinari giocatori offensivi – si è affidata per venire a capo delle due gare più importanti, e per questo più complicate, del suo Europeo. Contro la Danimarca, nel secondo match della fase a gironi, è stato necessario l’ingresso di De Bruyne per ribaltare tecnicamente una partita che i danesi stavano dominando per approccio, interpretazione e intensità; contro il Portogallo, negli ottavi, sono serviti un lampo di Thorgan Hazard e un’errata copertura preventiva di Bernardo Silva per venire a capo di un avversario tatticamente non trascendentale, di una squadra che – proprio come la Francia – ha affidato troppo di se stessa ai suoi giocatori chiave.

Allo stesso tempo, però, il ct Roberto Martínez ha sempre provato ad assemblare un undici-tipo che assomigliasse il meno possibile a un bug di Fifa Ultimate Team, che invece aderisse sempre di più alle logiche di equilibrio, simmetria, e sapiente occupazione degli spazi, tanto in ampiezza quanto in profondità, tutto questo senza rinunciare ad assecondare l’attitudine inevitabilmente offensiva della Golden Generation belga. La stessa scelta di passare alla difesa a tre è molto meno conservativa di quel che si pensi: l’idea di Martínez era ed è quella di schierare un trio iper-aggressivo con Alderweireld e Vertonghen ai lati del centrale di riferimento. Questo slot può essere occupato da Denayer, se il centravanti avversario predilige l’attacco della profondità, oppure da Vermaelen, nel caso in cui la scelta sia quella di uscire dal primo pressing senza la necessità di doversi affidare al lancio lungo per Lukaku.

Il problema principale, però, è che la disabitudine a un pressing organico e ben scaglionato si è manifestata a prescindere dagli interpreti, e ha portato il Belgio ad allungarsi troppo in fase di non possesso: nei primi 45’ contro la Danimarca, Højbjerg e Damsgaard hanno banchettato a piacimento nella zona centrale della trequarti offensiva, sfruttando l’incapacità del trio Alderweireld-Denayer-Vertonghen di accorciare e coprire lo spazio alle spalle dei centrocampisti; contro il Portogallo, Cristiano Ronaldo non ha avuto problemi a portare costantemente fuori zona Vermaelen e ad aprire gli spazi per gli inserimenti senza palla di Diogo Jota e Bernardo Silva, evidenziando l’idiosincrasia del Belgio a sopportare lunghe fasi di difesa posizionale per blocchi bassi. Tutto ciò è dovuto anche alle difficoltà dei centrocampisti centrali a correre all’indietro: detto che, in questo senso, avere Witsel al 100% delle sue possibilità fisiche e atletiche avrebbe fatto tutta la differenza del mondo, la scelta di puntare su Dendoncker si è rivelata condivisibile fin quando non si è trattato di trovare qualcuno che si associasse tecnicamente con Tielemans, soprattutto in quelle fasi di partita in cui la prima costruzione necessitava del doppio play.

In questa clip, si vede chiaramente come il Belgio possa perdere le giuste distanze tra i reparti, al punto da portarsi addirittura quattro avversari in area di rigore nel corso di un’azione manovrata

Questo è il motivo per cui un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’azione lo rivestono le catene laterali, assemblate per assecondare le caratteristiche di base dei due esterni e dei trequartisti di parte: a sinistra agiscono i fratelli Hazard, perfettamente complementari nella capacità di creare superiorità numerica e posizionale anche partendo da fermo, così come di tagliare dall’esterno verso l’interno per fornire un’ulteriore direttrice di passaggio verticale al portatore di palla; a destra la dimensione creativa di De Bruyne è ideale per innescare il dinamismo e la profondità degli inserimenti di Meunier, partito indietro nelle gerarchie ma riscopertosi titolare dopo l’infortunio di Castagne contro la Russia. Col tempo, l’esterno del Dortmund si è rivelato essere il vero equilibratore della squadra, grazie alla sua capacità di scalare come quarto a destra nel momento in cui il Belgio si risistema con il 4-5-1 o il 4-4-2 in fase passiva.

In avanti, Romelu Lukaku è il centro di gravità dell’intera fase offensiva, una circostanza evidenziata anche dalla convocazione di Benteke e Batshuayi come back-up cui ricorrere solo in circostanze d’emergenza. Dalle caratteristiche di marcatore che si trova ad affrontare, quindi dal tipo di gara che il centravanti dell’Inter sceglie di interpretare,  dipendono strategie, movimenti, letture, occupazione degli spazi nell’ultimo terzo di campo. L’ideale sarebbe innescare la sua supremazia fisica in campo aperto, una situazione vista contro la Russia quando ha brutalizzato senza pietà la coppia Semenov-Dzhikiya, e parzialmente contro la Danimarca, quando ha innalzato il livello della sua prestazione nel momento in cui si è spostato sul centro-destra aprendo gli spazi per gli inserimenti senza palla di Witsel e Carrasco; metterlo, invece, in condizione di fare a sportellate con difensori altrettanto fisici e aggressivi nell’anticipo – come accaduto contro Pepe e Ruben Dias – risulterebbe controproducente a livello collettivo, perché di fatti toglierebbe al Belgio la possibilità di attaccare la profondità e di risalire il campo per vie centrali, sfruttando un mismatch che, di fatto, non esisterebbe più.

Cosa può succedere se Lukaku viene lanciato in spazi aperti

In generale, però, il più grande limite strutturale – per non dire endemico – del Belgio sembra essere la necessità di restare lungo sul campo per giocare bene, o comunque al meglio delle proprie potenzialità, e di soffrire quelle fasi di partita in cui l’avversario alza il ritmo del pressing e la velocità della trasmissione palla tra le linee evidenziando la distanza eccessiva tra i reparti in fase di non possesso: la situazione classica in cui la squadra di Martínez ha mostrato le maggiori criticità è quella in cui il centrale o il mediano avversario riescono a tagliare fuori la prima linea di pressione con un passaggio in verticale, magari trovando la mezzala/trequartista che attacca per vie centrali in campo aperto, che affronta i difensori intenti a correre a protezione della porta. Ugualmente, la pigrizia generalizzata nel seguire i tagli e gli inserimenti dal lato debole portano il Belgio a patire terribilmente le squadre che sono in grado di consolidare il possesso sovraccaricando un lato per poi ribaltare il fronte del gioco a uno, massimo due tocchi. L’Italia di Mancini è una squadra con queste caratteristiche, quindi potrebbe sfruttare questo bug di sistema.

A inizio giugno, in uno dei passaggi salienti di questo articolo su The Ringer, si leggeva che «al suo meglio, e con tutti gli elementi chiave in buona salute, la Golden Generation belga possiede tutto il talento che serve per arrivare fino in fondo agli Europei». Come detto in apertura, è una visione condivisibile del Belgio, una squadra che ha una dimensione Dream Team ma che può diventare potenzialmente battibile, o comunque alla portata di avversari tecnicamente inferiori, se viene privata delle sue stelle – a maggior ragione se si tratta di Eden Hazard e/o di Kevin De Bruyne, ancora alle prese con il tentativo di recupero dai loro rispettivi infortuni. È una percezione inevitabile, dopotutto: il Belgio non smette di essere una grande senza Hazard e De Bruyne, ma lo è certamente un po’ meno, semplicemente perché gli eventuali sostituti non hanno la stessa dimensione dei titolari: la condizione fisica e il logorio di Dries Mertens non gli permettono di essere qualcosa di più di un super-sub da ultimo quarto d’ora, così come il Carrasco visto finora non sembra così impattante sulla sua squadra, o almeno non quanto KDB e Hazard. Tutto questo perché, appunto, accumulare talento non basta.

E poi c’è la questione tempo che passa: questo è il secondo Europeo dopo due Mondiali nel segno della Golden Generation, dunque il Belgio e i suoi giocatori avrebbero bisogno di vincere ora – o al massimo a Qatar 2022 – per legittimare la loro legacy, per determinare il modo in cui si scriverà di questa squadra negli anni a venire. E, per farlo, non possono fare altro che affidarsi al loro stesso talento e poi alle intuizioni di Martínez, che ha provato e sta provando in tutti i modi a trovare un sistema in cui far convivere tutti i suoi gioielli. L’illusione/speranza dei Diavoli Rossi, è che questo ibrido possa bastare per poter infrangere il grande tabù, o quantomeno per entrare in semifinale. L’Italia ha il compito di dimostrare che, invece, serve dare concretezza e una forma netta al gioco, che per vincere serve creare un contesto tattico equilibrato, ricercato.