Dalla strada allo stadio

A partire dai paninari, Stone Island si è diffuso in tutta Europa sulle ali del tifo calcistico, soprattutto britannico. Un po’ di storia del movimento casual, e di come un brand si trasforma in icona.

Nella quarantennale storia di Stone Island design, musica e sport si intrecciano per esplodere in uno stile unico che, quietamente ma innegabilmente, ha avuto ripercussioni da un continente all’altro e attraverso varie sottoculture. Come spiegare i modi in cui tutt’oggi opera tale fenomeno, al di fuori della moda ma al centro dello stile? Lo racconta Carlo Rivetti, capo carismatico di Stone Island, che ha reso celebre il marchio attraverso un’assidua ricerca, la cura per i particolari e una costante innovazione tecnologica: «Tutto parte dal tessuto, l’unica cosa che mi sta a cuore. In tanti anni abbiamo mantenuto lo stesso linguaggio visivo perché il mio obiettivo è la purezza, e lotto per proteggere il Dna del brand». È per questo che Stone Island è diventato il simbolo identificativo e democratizzante degli anni ’80 e ’90, indossato tanto dai giovani italiani patiti della cultura pop quanto dai gruppi rock Brit pop e dai tifosi pazzi per il brand, soprattutto i casual britannici.

Nell’ambito della cultura giovanile, Stone Island ha iniziato la propria ascesa nel Nord Italia divenendo parte integrante dell’uniforme dei paninari, esponenti della prima sottocultura giovanile italiana, nata spontaneamente a Milano. Per chi è cresciuto tra i modelli di ribellione delle sottoculture beatnik, hippy, e punk può sembrare strano pensare ai paninari come ribelli, eppure è così: se i punk inglesi contestavano il capitalismo sfrenato di Margaret Thatcher e lo squallore della vita in Inghilterra, i paninari protestavano contro le eterne tradizioni culturali italiane, soffocanti e sempre più antiquate. Ogni sottocultura ha bisogno di un’uniforme: nell’abbigliamento, i paninari sono stati i primi italiani postmoderni, mescolando e abbinando liberamente capi stranieri e di casa propria. Abbandonato il formalismo della classica eleganza italiana, hanno eletto a proprio valore stilistico la sprezzatura, una studiata nonchalance che tuttavia celava una grande cura e sforzo nel modo di vestire. Misero da parte i completi dei padri a favore dei jeans Levi’s e delle Timberland, abbinandoli agli italici piumini Moncler. Quando Stone Island entrò in scena, andò incontro al desiderio di novità dei paninari perché anche il nuovo marchio rappresentava una rottura radicale con il modo di vestire tradizionale. Era colorato, funzionale e casual. Soprattutto, era fatto per la moderna vita urbana. I suoi giubbotti erano la quintessenza del cool e facilmente identificabili grazie al logo sulla manica.

I paninari amavano l’italo disco e il synth pop inglese, un tipo di musica che rifletteva la moderna vita metropolitana. E furono generosamente ripagati quando, nel 1986, l’influente duo synth pop londinese Pet Shop Boys ricambiò il loro amore con una canzone intitolata “Paninaro.” Questa, con una melodia echeggiante la musica italo disco e le immagini della Milano contemporanea nel videoclip, svolse il ruolo di lettera d’amore e di conferma (la canzone entrò nella hit parade e il duo, nove anni dopo, ne fece uscire una nuova versione, “Paninaro ’95”). Il singolo era l’anello mancante tra le culture pop italiana e britannica, che a un primo sguardo apparivano tanto distanti. Nessuno sospettava che un altro prodotto di esportazione italiano stesse per trovare una nuova patria spirituale in Gran Bretagna.

L’adattamento di Stone Island ai diversi aspetti della cultura britannica è un fenomeno particolarmente interessante perché ha avuto un carattere organico ed è partito dal basso, senza mediazioni. Alcune delle vicende attraverso cui questo marchio, profondamente italiano, è diventato parte dell’uniforme maschile britannica hanno oggi un sapore leggendario. Nel luglio 1983, l’influente rivista inglese di musica e moda The Face pubblicò un servizio speciale di 4 pagine, “Fila, Pringle, Lacoste: The ins and outs of High Street fashion”, importante in quanto lanciava un primo sguardo su
un movimento stilistico che avrebbe conquistato il mondo ma che allora esisteva solo nelle periferie e in alcune regioni inglesi, lontano dallo sguardo e dall’influenza della moda mainstream.

L’articolo era nato dalle osservazioni del fondatore della rivista, Nick Logan, sulla cultura calcistica del circolo della East London frequentato dal figlio quindicenne Christian. «Avevo l’impressione che stesse succedendo qualcosa di interessante negli stadi fuori della capitale», disse nel 2016. La sua intuizione è confermata dal consulente del brand Gavin Francis Thomas, originario di Manchester: «I tifosi di fine anni Settanta e dei primi anni Ottanta viaggiavano frequentemente in Europa per vedere le loro squadre. Avendo scelto di indossare dei capi ricercati anziché i colori della squadra, per sfuggire all’attenzione della polizia, durante i viaggi iniziarono a comprare articoli di costose marche europee, introducendo i tifosi inglesi a Stone Island e ad altre famose griffe casual allora non disponibili in Inghilterra».

Così Stone Island divenne l’elemento chiave dello stile casual, indossato tanto negli stadi quanto sulle piste da ballo della fiorente club culture britannica da ambiziosi giovani della classe operaia che rispondevano con entusiasmo all’immagine decisa di Stone Island. Questa non derivava solo dal suo logo, ma dall’applicazione costante di nuovi materiali ai giubbotti: tessuti termo-reattivi e riflettenti, lino e lana con rivestimento in gomma… ogni particolare contava. «Tutto stava nell’avere un bell’aspetto, ma entrava in gioco anche l’ambizione», osserva lo scrittore Aleks Eror. «La società britannica è ossessionata dalla classe e, proprio come i rapper con i gioielli, i casual, per lo più proletari bianchi, indossavano articoli costosi per sovvertire la rigida gerarchia classista».

Amsterdam Arena (Johan Cruyff Arena) – ‘000 – Stadium Visit, The Netherlands – Photo by Drax Wd

Intanto, lo scambio a due sensi tra le gradinate degli stadi e la musica pop negli anni Ottanta avveniva a opera di musicisti dell’Inghilterra del Nord che sperimentavano le tendenze della cultura casual nella sua commistione con elementi di movimenti inclusivi come acid house, rave, e baggy. E l’egalitaria musica dance innescò nei giovani britannici il rifiuto delle élite urbane in favore degli stili suburbani e regionali. Il football e i suoi simboli erano fattori importanti per gruppi come i Farm di Liverpool e gli Happy Mondays di Manchester, e quando a Spike Island gli Stone Roses eseguirono lo storico concerto che lanciò gli anni Novanta e che The Face soprannominò «la terza Summer of Love», i vestiti di Stone Island facevano parte del mix stilistico di tutti i partecipanti al festival.

«La verità è che Stone Island è sempre lì, sugli spalti e nei pub», dice Kitson. «E non a caso: c’è stato un ritorno a questo genere stilistico, nostalgico, comodo, iper-maschile, non filtrato, il che può spiegare il suo rientro in voga. A parte questo, talvolta le persone alla moda vogliono semplicemente indumenti tecnici e funzionali». Anche il favore di figure di spicco del mondo del calcio come Pep Guardiola ed Eric Cantona ha contribuito alla popolarità di Stone Island. Carlo Rivetti ricorda l’intervista televisiva in cui Cantona, negli anni Novanta, andò in onda indossando Stone Island: «Ha contribuito a fare di noi un fenomeno in Gran Bretagna». Gli irriducibili, tuttavia, restano giustamente sospettosi di fronte agli attuali tentativi di cooptare Stone Island in tendenze di moda inventate dai media. Ma l’inserimento di Stone Island in questo genere mediato ha contribuito a far luce sulla sua forza attrattiva. «Gli uomini lo indossano quando vanno allo stadio per mostrare che hanno comprato il capo giusto, che lo hanno pagato caro, ma soprattutto che quel capo assolverà la sua funzione», ha detto al New York Times l’analista di trend britannico Nick Paget. «La prestazione è fondamentale». Un altro fan del marchio ha aggiunto: «Quello che mi piace nell’indossare questi indumenti è che non devi più fare personalmente scelte di moda. Hanno un carattere piacevolmente anonimo».

Olympiastadion, Munich – ‘000 – Arsenal FC Fans, Germany – Photo by Drax Wd

Ciò mette in evidenza l’essenza di Stone Island: esistere al di fuori delle norme dell’industria della moda. «Non ci sentiamo affatto di moda», dice Rivetti, accostando allegramente l’estetica del suo marchio al design industriale. Ma come sopravvivere alla fase ascendente del ciclo di consumo, quando il marchio diventa il riferimento per i modaioli e le star hip-hop del giorno discutono su chi sia stato il primo a farlo proprio? Un modo è evitare l’eccessiva esposizione. Su questo Rivetti resta ottimista. «Il mercato si muove per conto suo e, prima o poi, coincide con quello che facciamo», spiega. «Non cambiamo il nostro linguaggio per soddisfare le aspettative altrui. La nostra filosofia, il nostro modo di creare, il nostro approccio tecnologico e ai tessuti, non sono mai cambiati». La determinazione di Rivetti che Stone Island rimanga strenuamente indipendente si riflette nella decisione di mantenere la sede centrale della Sportswear Company (la società cui appartiene il marchio) a Ravarino, a nord di Bologna e lontano dai centri dell’industria della moda italiana. In tutta la sua storia Stone Island è rimasta un’azienda familiare e Rivetti coltiva assiduamente questa sensazione. «Abbiamo del personale che lavora con noi da decenni», dice. «Non molto tempo fa ho premiato una persona che è stata con noi per 40 anni. Dico sempre che da noi quando qualcuno esce dall’ufficio spegne la luce, vale a dire che ha a cuore il bene dell’azienda e si sente parte della famiglia».

Nel maggio del 2012 Ravarino è stata colpita da un terremoto che ha causato gravi danni in tutta la regione. «Non abbiamo perso neanche un’ora di lavoro», dice Rivetti. «Quella settimana il 95% del personale ha vissuto nelle tende o in macchina pur di assicurarsi che raggiungessimo tutti gli obiettivi. Per i successivi sei mesi siamo stati costretti a tenere le porte aperte in modo da poter uscire tutti subito in caso di scosse di assestamento. La paura era tanta ma sono venuti tutti, giorno dopo giorno». Troviamo riflessa la stessa lealtà nei clienti di Stone Island: dopo il terremoto, gli uffici furono tempestati di telefonate e email da parte di seguaci del marchio che si informavano sulla salute dei suoi custodi. Una fedeltà che non è mai scontata, soprattutto nel volubile mondo della moda. Ma, come dimostra la storia straordinaria del marchio di Rivetti, Stone Island è un caso a sé.

Da Undici n° 35
Nella foto in apertura: Philips Stadion, Eindhoven – ’997 – Arsenal FC fans, The Netherlands – Photo by Drax Wd