Per Berrettini è l’inizio di qualcosa di bello

Nonostante la finale di Wimbledon persa contro Djokovic, l'uomo che sta facendo a pezzi tutta la concorrenza, il tennista romano è finalmente arrivato lì dove desiderava. Adesso l'obiettivo è rimanerci e, magari, far tornare l'Italia grande nel tennis.

Quando Bjorn Borg mortificò il povero Jimmy Connors in finale, nel 1978, e Fred Perry era ancora l’ultimo inglese capace di vincere Wimbledon – Andy Murray non era manco nato – l’ex re dei quattro Slam e produttore della polo più celebre al mondo si allacciò il trench dalla tribuna d’onore e liquidò la faccenda così: «Jimmy Connors è un grande campione, ma oggi ha incontrato uno schiacciasassi».

Non ci sono maniere meno tranchant per definire Novak Djokovic, il tennista che sta per aiutare a risolvere una grande questione aperta del tennis: chi è il benedetto Goat, il più grande di tutti i tempi, Federer o Nadal? Forse né l’uno, né l’altro. Non è questa la sede, ma sul significato del dibattito ci sarebbe, appunto, da dibattere. Perché paragonare le epoche è sempre un azzardo, e Rod Laver completò lo Slam due volte, 1962 e 1969, ciò che intende fortissimamente fare Djokovic in questo 2021 in cui ha già ottenuto una qualifica che manca agli altri due fenomeni: aver trionfato almeno due volte in tutti e quattro i Major e in tutti i tornei Master 1000 (e pure cinque volte alle Atp Finals, da quest’anno di stanza a Torino, trofeo sempre sfuggente per Nadal). Il conto totale dei grandi titoli, a oggi, è 20 per tutti e tre. Ma solo Djokovic sembra in posizione di far lievitare il bottino.

Per un set, insomma, Matteo Berrettini ha buttato un po’ di sabbia nell’ingranaggio perfetto di Djokovic, che sul 5-2 ha avuto un set point per demoralizzare l’Italian Hammer, come lui stesso lo ha chiamato durante la premiazione, ma poi si è incartato, fino a perderlo al tie-break. Ma sul passo lungo dei tre set su cinque, gli inglesi direbbero che è la faccenda è un very different animal, e certamente l’animale Djokovic è più attrezzato di chiunque per arraffare i titoli che contano ai quattro angoli del mondo. Che sia il cemento bollente di Melbourne, la terra veloce di giorno e pantano di notte a Parigi, dove Amazon si è inventata una orribile sessione serale con umidità da palude (e si spera che, dopo i pasticci di quest’anno, qualcuno li faccia ragionare). Così a Wimbledon, dove ormai, come commentò sconsolato il coach in seconda di Nole Goran Ivanisevic, campione qui vent’anni fa con una miriade di serve&volley, «It’s a joke», è uno scherzo, la palla va più piano che su tanti campi in cemento, grazie all’intervento sul tappeto erboso pensato – complimenti, a proposito – per favorire il tennis contemporaneo da fondo campo.

Non c’è modo di abbattere il mostro, non ora. Nemmeno per il primo finalista italiano nella storia di un torneo nato nel 1877, che ha avuto una lista di meriti lunga così, e tra questi averci creduto seriamente. Il precedente del mese scorso, a Parigi, prometteva bene: Djokovic si stava facendo raggiungere, aveva inusitatamente perso il controllo della situazione, si faceva prendere in mano il gioco e – pum!, non appena Berrettini trovava la maniera di aggirare la palla e colpirla con il suo romanissimo tortore (è il bastone, in dialetto locale) Djokovic finiva gambe all’aria.

Novak Djokovic esulta per la vittoria a Wimbledon: per il serbo è il ventesimo titolo dello Slam, agganciati Federer e Nadal (Photo by PETER NICHOLLS/POOL/AFP via Getty Images)

A Wimbledon non è andata così. Qualcuno, preso dalla foga della vigilia, ha parlato di favore del campo per l’italiano, rispetto al Roland Garros. Ma forse pensava all’erba che fu, quella che portava in paradiso gli scudieri del serve&volley e su cui era proibito scambiare da fondo campo. Questa erba no, non è la stessa cosa. Nel 2021, i punti giocati con lo schema servizio-volée nel tabellone maschile sono rimasti un miserrimo 4%. Nessuno lo fa più. Rispetto alla terra rossa, tuttavia, l’erba toglie un po’ di tempo e di rimbalzo alla palla, rendendo gli spostamenti e le aperture di Berrettini un po’ più difficoltose, soprattutto contro un ribattitore stellare come Djokovic. Che dalla superficie ha tratto vantaggi, non danni nella sfida contro Matteo.

L’amarezza per l’epilogo della finale non può nascondere né la superiorità del numero uno al mondo, ormai impegnato in una sfida a sé stante per pigliare tutto quel che c’è sul tavolo e lasciare da tennista più vincente della storia del gioco, né l’assoluto valore di due settimane che hanno certificato lo status di Matteo Berrettini. Che possa essere l’inizio di qualcosa di grande, come si è augurato distribuendo sorrisi al microfono, non ne è convinto solo lui. Il suo tennis, che il coach Vincenzo Santopadre definisce efficacemente «scoppia e lotta», fai esplodere la palla e giocati tutti i punti, funziona alla grande dappertutto. Servizio che sposta l’aria, dritto paragonabile alla clava di Del Potro, un rovescio slice che ingarbuglia il tennis lineare di molti avversari. Se il fisicone lo sorregge – e talora non succede, perché quel gioco così muscolare succhia via risorse e talora, come a inizio stagione in Australia, un pezzo fa crac – non c’è ragione di negare che il prossimo campione Slam italiano possa essere proprio lui, un altro romano dopo Adriano Panatta, cui si chiede la grazia di cancellare quell’impolverato 1976 accanto alla data dell’ultimo successo di un giocatore nostrano in uno Slam.

Matteo Berrettini durante una fase della partita contro Djokovic: il tennista romano è diventato il primo italiano di sempre ad approdare alla finale di Wimbledon (AELTC/Ben Solomon)

A Wimbledon, come in ogni altro Slam finché non tirerà il fiato, attualmente risiede un tiranno con potere di vita e morte su chiunque. Ma il tempo lavora e, con i nuovi standard, i 25 anni di Berrettini sono quasi un’età da esordiente stante l’anagrafe media dei big (Nadal 35 anni, Djokovic 34). Ciò che Matteo ha ottenuto su un campo storicamente inviso agli italiani non era mai stato acciuffato da nessuno: Nicola Pietrangeli aveva ceduto una semifinale lottata a Laver nel 1960, Adriano Panatta un quarto di finale disgraziatissimo a Pat DuPré nel 1979. Che non si dica più che gli italiani non sanno giocare sull’erba. E, non appena lo schiacciasassi avrà parcheggiato a lato strada, che non riusciamo a vincere gli Slam. Perché abbiamo già trovato chi, e restano da stabilirsi solo il dove e il quando. Ma capiterà presto.