Di notte ci abbandoniamo a pensieri meravigliosi. Di notte arrivò, attorno alle quattro del mattino, l’ultima impresa dei fratelli Abbagnale: 25 settembre 1988, Seul, quando Giuseppe e Carmine trionfarono sul fiume Han resistendo nel finale al poderoso rientro della Germania Est. Di notte pescammo, attorno alle due del mattino, anche l’ultimo oro olimpico del nostro canottaggio: 24 settembre 2000, Sydney, quando il quattro di coppia di Agostino Abbagnale, Alessio Sartori, Rossano Galtarossa e Simone Raineri – «i quattro cavalieri delle acque» secondo l’immortale telecronaca di Giampiero Galeazzi – sorpassò i tedeschi a 500 metri dalla fine e tagliò il traguardo a braccia alzate, con l’urlo di Sartori («Campioni!») che bucò gli schermi dei nottambuli europei.
Il canottaggio italiano è un condominio di lusso, di gran pregio, ma pur sempre un condominio: da generazioni tutti conoscono tutti e come in un film di Scola si ritrovano a navigare insieme nel laghetto del cortile legati da fili azzurri e dorati. Il prossimo 28 luglio lo scettro potrebbe passare nelle mani di nuovi prescelti: perché Abbagnale uguale Napoli, lì dove il mare luccica e rema forte Giuseppe Vicino, mentre Alessio Sartori uguale Terracina, da dove proviene suo cugino Matteo Lodo. Già medaglie di bronzo a Rio 2016 insieme a Domenico Montrone e Matteo Castaldo, Lodo e Vicino remano insieme dal 2011 e sono le punte di diamante di un quattro senza formidabile che per tre quarti è lo stesso dell’Olimpiade precedente (al posto di Montrone c’è il ravennate Bruno Rosetti). A Tokyo andranno per un oro che sta inscritto nella tradizione italiana a cominciare dall’orario della finale: naturalmente, nel cuore della notte.
Di notte ci abbandoniamo a pensieri tremendi. Amplificati dalla distanza geografica, dal fuso orario e dal caos primordiale che distingue ogni Olimpiade. Julio Velasco racconta spesso di come il suo Dream Team di pallavolo, strafavorito per l’oro a Barcellona 1992, scoprì sulla propria pelle tutti i piccoli detta- gli che rendono diverso il contesto olimpico dal resto del mondo: la palestra dagli orari contingentati, il pavimento troppo duro, i letti troppo piccoli, le mense troppo affollate… E nel delirio barcellonese, che impediva finanche di respirare, affondarono con tutte le scarpe. A Tokyo ci sarà tutt’altra atmosfera: il rigore formale nipponico sarà amplificato dai regolamenti anti-Covid, sacrificando tutte le occasioni di festa e fratellanza che rendono inimitabile l’Olimpiade. Più tempo per pensare, più tempo per dormire, più tempo per sognare. «Sono settimane che ci immaginiamo la finale perfetta», riflette a voce alta Matteo Lodo, «finisce sempre che vinciamo in volata dando spettacolo». Al suo fianco Peppe Vicino annuisce. E con una sola parola ci regala il titolo dell’intervista e – chissà – di tutta la loro Olimpiade. «Cosa abbiamo più degli altri? La pazzia».
“Gli altri” avrebbero dovuto essere Martin e Valent Sinkovic, i due fratelli croati campioni olimpici a Rio nel due di coppia, prima di cambiare barca per l’Olimpiade successiva e convertirsi alla cosiddetta “remata di punta”, dove la vogata non è più simmetrica e non si rema più con entrambe le braccia, ma solo con il lato destro o sinistro del corpo. Anche se non c’è alcun astio né minimo veleno, i Sinkovic erano i grandi rivali di Lodo e Vicino, che li avevano battuti ai Mondiali di Sarasota 2017 ma, dopo un biennio 2018-2019 contrassegnato da gravi infortuni per entrambi i nostri canottieri, erano usciti sconfitti negli ultimi due Europei a Poznan 2020 e Varese 2021. Parliamo al passato perché a giugno il direttore tecnico Francesco Cattaneo ha deciso di riportare Lodo e Vicino al quattro senza: la scelta fa parte di quel delicato ma necessario processo di selezione che precede ogni Olimpiade, in cui si valutano spostamenti, pesi e contrappesi per ogni possibile equipaggio, allo scopo di imbarcare più medaglie possibile in valigia sul volo di ritorno. Il percorso inverso è toccato a Marco Di Costanzo e Giovanni Abagnale (con una b sola), inizialmente destinati a gareggiare a quattro e tornati invece al due senza, dov’erano stati anche loro medaglia di bronzo a Rio.
Un effetto-sorpresa che è quanto di più normale possa accadere quando i Giochi si fanno duri. Dalla sicurezza con cui parla, Vicino sembra possedere il gusto dello spettacolo – anche letteralmente, visto che sul suo profilo Instagram c’è un’ampia sezione di story dedicate a quella volta che ha fatto parte del pubblico della Notte degli Oscar. E dunque, la pazzia. «Di Rio ho questo ricordo: noi che andiamo lì da campioni del mondo in carica, favoriti per l’oro, e una volta lì si azzera tutto: ciò che avevamo fatto fino al mese prima non contava più niente. Non avevamo più nessuna sicurezza, tant’è che alla fine abbiamo dovuto fare buon viso a cattivo gioco e ci siamo accontentati del bronzo. Lì ho imparato che l’Olimpiade è una gara a sé, ci sono equipaggi che non hanno niente da perdere e perciò fanno cose mai provate, prendono e partono sparati provando a distruggere gli equilibri: e magari vincono anche». Ma a tutto c’è un limite: «Noi questo non possiamo farlo, proprio perché ci aspettano tutti. Anzi, è sempre meglio costruire allenamento dopo allenamento ciò che dovremo fare alle Olimpiadi, perché una volta che sei lì ti senti preparato per l’esame più importante».
E però, un mese prima che lo starter prema il pulsante della luce verde, la decisione a sorpresa. Dopo cinque anni trascorsi a gareggiare e pensare a due, sono arrivate l’inversione a U e il ritorno al passato, segno che la barca di Lodo e Vicino, Castaldo e Rosetti è la grande speranza azzurra per tornare sul gradino più alto del podio a ventuno anni dall’ultima volta – gradino si fa per dire, il podio del canottaggio non ha scalini, è una striscia lunga e sottile in cui primi, secondi e terzi vengano premiati tutti alla stessa altezza. Il fattore-Covid esaspera la sensazione di lotteria. Stando agli ultimi Europei, dove l’Italia “vecchia versione” è arrivata terza, le squadre da battere sarebbero Gran Bretagna e Romania. Ma mentre tutte le squadre europee hanno dovuto fare i conti con mesi infernali, aggrappandosi alle remate a secco con il famigerato remoergometro – noto strumento di tortura delle palestre di tutto il mondo – per tenersi in forma, ci sono equipaggi che non si sono mai mostrati al resto del mondo come Australia e Nuova Zelanda, che non hanno dovuto sopportare alcun lockdown ma non gareggiano da mesi. È un vantaggio? L’adrenalina giocherà un brutto scherzo? «Nessuno lo sa, è un’arma a doppio taglio», risponde Vicino, il fantasista e capovoga, cui il brivido dell’incertezza non sembra dispiacere. Invece Lodo, che della barca è secondo carrello, preferisce andare sul sicuro, rievocando il proverbiale rush finale che è servito ad arpionare la medaglia d’argento agli ultimi Europei di Varese (però in due…). «Le chiusure a bomba sono una cosa che abbiamo sempre avuto da quando eravamo piccoli. Ma questo tipo di finali non sono così scontati, bisogna lavorarci costantemente. Senza contare che ora gli altri cercano di staccarsi prima».
Cos’altro manca? Come sarà cambiata la geografia del quattro senza in cinque anni e con una pandemia mondiale di mezzo? Come si può avere la certezza di aver pensato a tutto, di aver fatto tutto il possibile per arrivare a giocarsi la vita sportiva in sei minuti e venti secondi? Le discipline minori si portano dietro un carico di preoccupazioni che noi profani neanche possiamo immaginare. Chi vive nell’ombra per un intero quadriennio non può nemmeno immaginarsi le lune di un Sinner, che ha rinunciato a Tokyo perché per ora la sua carriera in ascesa prevede priorità differenti. Olympia, dovunque essa sia, è tutto. E allora esorcizzi, non ci pensi, tieni a mente i piccoli particolari senza importanza che fanno la differenza: «Per esempio, nel- la tappa di Coppa del Mondo a Lucerna il primo giorno siamo entrati da un ingresso diverso e siamo andati malissimo in batteria, poi nei giorni successivi abbiamo preso gli ingressi giusti e le cose si sono sistemate», argomenta Vicino che è attore nato, e non sai se dice sul serio. Probabilmente sì. Magari le sue frequentazioni hollywoodiane gli hanno fatto scoprire la morale impartita da Robert De Niro in Bronx, valida per ogni aspetto della vita, ideale per tutti gli sportivi nell’ombra: «I veri uomini duri sono quei coglioni che vanno a lavorare».
In più l’Italia del canottaggio ha il cuore pieno del ricordo di Pippo Mondelli, un ragazzo campione del mondo a Plovdiv 2018 nel quattro di coppia, portato via a 26 anni lo scorso aprile da un osteosarcoma con velocità brutale, che lascia senza fiato. «Non era un fenomeno di natura: da piccolo gli dicevano che non era adatto e invece era arrivato lo stesso a vincere Mondiali ed Europei», lo ricorda Lodo. «Si era costruito passo dopo passo, sudandosi ogni traguardo, buttando sangue. Era una persona umanamente eccezionale, e in poche ore è passato dal sogno di un oro olimpico a essere malato di un male brutto e grave. Lo porteremo sempre dentro». Pippo Mondelli è il ventisettesimo convocato di una FederCanottaggio in scia al momento felice dello sport italiano, che spedirà a Tokyo la delegazione più numerosa di sempre. Un lavoro di squadra, confortante nello spirito ma anche spietato per la difficoltà di scindere l’agonismo e la vita privata, in un clima che a ridosso dell’Evento è sempre minato dalla minaccia della frizione, dello stress, del litigio: chiedetelo alla portabandiera Jessica Rossi, che nella specialità mista del tiro a volo si presenterà in gara – e con ottime chance di podio – con il suo ex marito Mauro De Filippis, in quella che promette di essere una delle più belle storie dell’Olimpiade italiana.
«In ogni coppia e in ogni squadra capita il momento no, magari dura una settimana intera, ma alla fine si affronta e si supera», Lodo inquadra la situazione. «Poi in gara è impossibile fare grandi discorsi: l’affiatamento lo capisci solo nei momenti difficili, quando senti se ognuno è pronto a morire per gli altri». Davvero, cos’altro manca? Abbiamo pensato a tutto? Dopo ore e ore di vogate massacranti, i nostri eroi vanno a dormire col ronzio delle parole del “dottore” Giuseppe La Mura, il direttore tecnico dell’epoca d’oro del canottaggio italiano, lo zio di tutti gli Abbagnale d’Italia: «Per ottenere risultati eccezionali basta essere atleti eccezionali che affrontano un lavoro eccezionale con impegno eccezionale: niente di eccezionale». Buonanotte, e sogni d’oro.