Le Olimpiadi, per il Governo, dovevano essere l’occasione per “ripulire” una delle zone più pericolose della capitale giapponese. Ma la pandemia ha bloccato l’opera proibizionista.
Per avere un’idea delle sensazioni che può suscitare una città come Tokyo che ospita i Giochi olimpici durante una pandemia, basterebbe aver fatto un giro, almeno una volta nella vita, a Kabukicho. Ma non di sera. Magari all’ora di pranzo, in una giornata autunnale di pioggia. In tutte le guide turistiche della capitale giapponese viene definito “il quartiere a luci rosse di Shinjuku”, ma Kabukicho non ha niente a che vedere con De Wallen ad Amsterdam. Non ci sono prostitute in vetrina, qui il sesso è meno sfrontato e procace. Si entra da un porta a neon, un torii in giapponese, simile a quelle che introducono l’ingresso in un tempio sacro, e si finisce in un dedalo di viuzze, buttafuori anziani dall’aria stanca e qualche ragazza che distribuisce pacchetti di fazzoletti, la versione giapponese del volantinaggio, per promuovere un locale. Forse, se proprio dovessimo trovare una similitudine con i mondi europei più vicini a noi, bisognerebbe pensare a Pigalle a Parigi, e a quella sublime decadenza che accompagna i luoghi notturni nelle ore di giorno, quando le persone sono al lavoro e l’area è silenziosa, triste, mentre si prepara per affrontare il successivo tramonto.
A Kabukicho a volte si spara. Altre volte si assiste a risse, spedizioni punitive, accoltellamenti. Sono anni che l’amministrazione della città di Tokyo tenta di ripulire il quartiere per renderlo uno dei luoghi di punta del turismo internazionale atteso per i Giochi olimpici estivi del 2020. «Una campagna di purificazione» è l’espressione esatta usata dalla polizia della capitale giapponese. L’obiettivo minimo del governo centrale giapponese, ai tempi della vittoria come sede ospitante nel 2014, era quello di accogliere un milione di turisti da tutto il mondo. I vantaggi economici della promozione del turismo sono innegabili, spiegava l’allora Primo ministro Shinzo Abe, e lo dimostrano le grandi catene di megastore di elettronica e di abbigliamento che negli ultimi anni hanno aperto negozi nelle aree più turistiche di Tokyo, luoghi in cui si parlano ormai sempre tre lingue: giapponese, inglese e cinese. Chi può stare al passo con l’apertura al mondo ci sta, ma la società è indietro rispetto a questa accelerata trasformazione imposta dall’alto. I cambiamenti e l’evoluzione, probabilmente anche per via della geografia insulare del paese, faticano a trovare spazio perfino in una città come Tokyo, la New York d’Oriente, che a differenza della Grande Mela si trasforma lentamente, perché è la profonda espressione della società giapponese. Ci avevano sperato, con i Giochi olimpici, di farla diventare un’altra città. Ma poi è arrivata la pandemia a rovinare tutto.
La governatrice di Tokyo, Yuriko Koike, ha detto spesso che la sicurezza viene prima delle pressioni economiche legate alle Olimpiadi. Nel 2016, quando è stata eletta, per prima cosa ha dimezzato il budget destinato alle nuove infrastrutture come il grande stadio olimpico. Il progetto dell’archistar Zaha Hadid è stato cestinato, il nuovo stadio olimpico, costruito nello stesso luogo dov’era quello di Tokyo 1964, è stato progettato dall’architetto giapponese Kengo Kuma. E quando a marzo dello scorso anno il governo centrale sembrava ignorare la minaccia dei contagi da Sars-Cov-2 che si stavano diffondendo in Asia, probabilmente per non rovinare la festa olimpica, Koike è stata la prima a fare da opposizione, e a promuovere alcune misure di contenimento. Per un lungo periodo di tempo il Giappone si è salvato dalla pandemia: mentre l’Europa contava i suoi morti, i contagi nel Sol Levante erano molto contenuti. I Giochi olimpici sono stati rinviati lo stesso di un anno, perché molti Paesi avevano deciso di non inviare le proprie Nazionali. A Tokyo la vita è proseguita normalmente fino alla scorsa primavera quando, mentre la città si preparava per la seconda volta di seguito a ospitare i Giochi, i contagi sono improvvisamente aumentati. Ed è iniziata la guerra alla vita notturna, perché la maggior parte dei focolai hanno avuto origine nei luoghi dove il distanziamento sociale non esiste, dove l’alcol abbassa le difese e non si beve divisi da un plexiglass. Da una delle destinazioni più popolari per i turisti internazionali, Kabukicho è tornato a essere il luogo più odiato dalla politica, un ecosistema che avrebbe potuto mettere di nuovo in pericolo i Giochi.
Non è la prima volta che succede. La leggenda vuole che fino a una ventina di anni fa, per entrare a Kabukicho, bisognava essere accompagnati da un nativo giapponese che garantisse per voi. Gli stranieri – o meglio, i gaijin, termine che li definisce, non esattamente un complimento – non avevano accesso libero in quello che era il fortino della yakuza, la mafia giapponese. Prima della Seconda guerra mondiale questa era la zona di Tokyo aperta all’immigrazione da Corea e Taiwan, le due colonie predilette dell’Impero giapponese. Gli immigrati vivevano nell’unica area della capitale in cui erano autorizzati a investire negli immobili, ma era tutto sommato un quartiere residenziale, niente di più. Nella primavera del 1945 un raid aereo americano rade al suolo l’intera area, che all’epoca si chiamava Tsunohazu, e cambia tutto. La ricostruzione comincia subito dopo, in autunno: si fanno grandi progetti di riqualificazione, si decide di aprire un grande teatro per ospitare spettacoli di kabuki, lo stile teatrale giapponese considerato più di intrattenimento rispetto a quello molto alto del teatro no. Gli viene assegnato il nome di Kabukicho, ma il teatro alla fine non si costruisce perché mancano i soldi. Il resto viene lasciato alla libera imprenditoria dell’intrattenimento: nel giro di poco tornano gli immigrati, questa volta soprattutto dalla Cina. Ritornano anche i locali notturni, le discoteche.
Negli anni Settanta qui nasce il primo hostess club, un luogo tipicamente giapponese dove le donne intrattengono gli uomini parlando e facendoli bere, ma senza fare sesso. Arrivano i love hotel, luoghi in cui si può affittare una stanza a ore, e i giapponesi la trasformano in un’esperienza, con materassi vibranti e ambienti a tema. Tornano di moda i soapland, cioè i bordelli dove si offrono prestazioni sessuali dietro alla scusa dei bagni pubblici, molto popolari in Giappone. Si beve negli izakaya, i pub nipponici, si gioca nei pachinko, locali pieni di macchine infernali simili alle slot machine. Iniziano anche i problemi. Il Giappone è il luogo con il più basso tasso di criminalità al mondo. Negli anni Novanta nell’area di Kabukicho il numero di crimini commessi per metro quadrato aumenta del 96 per cento.
Quando nel 1999 vince le elezioni a governatore di Tokyo una vecchia conoscenza dei nazionalisti giapponesi, Shintaro Ishihara, si cerca la riqualificazione. Amico personale di Yukio Mishima, lo scrittore che denunciò con un colpo di stato e un suicidio rituale quella che definiva la “decadenza postbellica” del Giappone, Ishihara lancia un progetto di messa in sicurezza di Kabukicho. Vengono installate telecamere di sorveglianza, inizia la caccia allo straniero: i cinesi, i coreani e i taiwanesi vengono ritenuti responsabili del declino pericoloso dell’area dell’intrattenimento di Tokyo. Ma il microcosmo dove sesso, alcol e criminalità coccolano i salaryman, i lavoratori in giacca e cravatta simbolo della corsa economica del Giappone, resiste nonostante tutto. La letteratura e il cinema fanno il resto: Kabukicho diventa il luogo simbolo della decadenza romantica giapponese. E il ritratto delle contraddizioni della società, dove al rigido protocollo delle ore di luce si contrappone la libertà nascosta dalle ore notturne.
Ne La notte dimenticata dagli angeli (Neri Pozza), la scrittrice Natsuo Kirino fa un ritratto indimenticabile di quel quartiere e scrive: «Quando hai delle cose che vuoi dimenticare, è meglio che la situazione intorno a te cambi il più possibile. Per fortuna Shinjuku è un posto in costante trasformazione, sembra fatto su misura per una donna integrata come me». Come in un sistema di scatole cinesi, Tokyo è tante città dentro la stessa città. Kabukicho fa parte di Shinjuku, uno dei ventitré quartieri speciali in cui è divisa la megalopoli giapponese. Quartiere si fa per dire: con oltre 330 mila abitanti, è una città poco più piccola di Firenze. Ogni zona a Tokyo ha la sua identità, le sue caratteristiche, il proprio matsuri da celebrare, quelle feste all’aperto dedicate alle divinità nipponiche dello shintoismo.
Teoricamente Chiyoda dovrebbe essere il centro di tutto: è il quartiere che ospita i palazzi del governo, il Parlamento e soprattutto il Palazzo dove risiede la famiglia imperiale, il Trono del Crisantemo guidato da Naruhito. La vita pubblica e formale di Tokyo si svolge a Chiyoda, ma è Shinjuku – quattro fermate di metropolitana verso ovest, neanche dieci chilometri di distanza in linea d’aria – il cuore pulsante della vita della città. È il melting pot, la sede della più grande comunità omosessuale giapponese, il luogo in cui le cose accadono, ma con l’oscurità. La stazione della metropolitana di Shinjuku è una delle più frequentate al mondo, e camminando oltre l’uscita est si sale a Kabukicho. Ancora oggi la decina di porte di ingresso di questo fazzoletto di città viene controllata giorno e notte dagli sgherri delle varie famiglie della yakuza. Di giorno sono soprattutto signori anziani, seduti sulle sedie come in un vecchio borgo italiano. Si riconoscono perché sono gli unici a potersi permettere di sfoggiare i tatuaggi, il motivo per cui ancora oggi moltissimi luoghi in Giappone sono vietati a chi ha il corpo decorato, e perché hanno spesso alcune falangi delle dita mancanti, segno che hanno sbagliato in passato, ma hanno pagato il loro debito.
A Tokyo, Kabukicho è anche detto Mizu shobai, un’espressione che indica l’acqua che scorre, l’acqua dei bagni pubblici e della prostituzione, un modo di vivere fluttuante e quasi nichilista. È quello contro cui si sono concentrate le istituzioni giapponesi nel tentativo di mettere in sicurezza la città, ma soprattutto i Giochi olimpici. Ne è nata una sorta di nuovo periodo proibizionista: secondo il comitato tecnico-scientifico di Tokyo, l’alcol è tra le principali cause di contagi perché fa avvicinare le persone, fa raddoppiare i droplets mentre si parla. E allora via l’alcol sin dalle prime ore del tramonto, che di norma scorre a fiumi nella capitale giapponese per via della tradizione dei nomikai, feste alcoliche che servono anche a fare business. Perfino dentro al Villaggio olimpico quest’anno, per la prima volta nella storia dei Giochi, non si potranno bere alcolici nei luoghi pubblici. Chi vorrà festeggiare una medaglia potrà farlo, ma nella solitudine della propria stanza. Così a Kabukicho, dove durante il periodo di stato d’emergenza quasi tutti i locali non potevano assicurare la distanza di sicurezza tra clienti e hanno chiuso, forse per sempre. Altri sono stati costretti a chiudere dalle forze dell’ordine perché non rispettavano le regole: divieto di baci tra prostitute e clienti, obbligo di mascherina anche all’interno degli hostess club, nessuna condivisione di piatti e bicchieri, distanza di un metro e mezzo tra non conviventi – cioè addio al flirt ravvicinato. La vita notturna sanificata ha fatto crollare i frequentatori del quartiere, che sono passati da 150 mila al giorno a meno di 30 mila.
I Giochi olimpici, che avrebbero dovuto portare la gran festa dello sport nella capitale giapponese, si sono trasformati nei Giochi olimpici pandemici. Kabukicho è per l’ennesima volta il capro espiatorio, il cono d’ombra a cui addossare la responsabilità di una eventuale cattiva riuscita delle Olimpiadi. Ma l’immagine di perfezione e lucentezza che la politica vorrebbe mostrare attraverso il palcoscenico di Tokyo 2020 è solo una parte della storia, un ritratto a metà del Paese. Il suo volto è nascosto nei vicoli di Kabukicho di notte.