Simone Biles, da sempre contro tutti

È stata penalizzata perché i suoi movimenti erano troppo difficili, e le altre atlete non riuscivano a farli. È passata dal "sistema" Larry Nassar ed è sopravvissuta. A Tokyo ha cambiato ulteriormente lo sport.

Nell’agosto 2019, un video di una competizione di ginnastica artistica diventa virale. Viene dai Campionati nazionali statunitensi e riprende la 22enne Simone Biles mentre esegue – per la prima volta in una competizione femminile – un doppio salto raccolto all’indietro con triplo avvitamento (triple-double). Non era la prima volta che Biles impressionava il pubblico, ben oltre gli addetti ai lavori e gli affezionati che seguono la disciplina, con uno dei suoi salti spettacolari: alle Olimpiadi di Rio, nell’estate del 2016, aveva infatti già eseguito “The Biles”, il suo marchio di fabbrica battezzato nel 2013, una discesa con doppio salto all’indietro e doppio avvitamento, detto anche Tsukahara avvitato o double-double dismount. Anche quella volta era una prima volta: nessuno nella storia della ginnastica artistica aveva eseguito un movimento simile prima di lei.

Nell’ottobre 2019, durante i Campionati mondiali femminili di ginnastica artistica a Stoccarda in Germania, Biles esegue un nuovo movimento nel suo esercizio a corpo libero, che da quel momento in poi si chiamerà “Biles II”. Durante la sua routine sul pavimento, infatti, è atterrata con un triple-double, e cioè un doppio salto all’indietro con triplo avvitamento. Perché una ginnasta possa reclamare un movimento a lei intitolato deve segnalare il nuovo movimento alla Federazione e quindi eseguirlo con successo in una grande competizione, come i campionati del mondo o le Olimpiadi: ed è quello che Biles ha fatto più volte in durante la sua carriera (i movimenti intestati a lei sono in tutto quattro) e che continuerà a fare finché gareggerà, «perché io posso», come ha detto recentemente al New York Times dopo averne eseguito un altro, di salto spettacolare. Durante la gara GK U.S. Classic di Indianapolis dello scorso maggio, Biles è stata infatti la prima donna a eseguire il salto doppio carpiato Yurchenko (Yurchenko double pike) in una competizione ufficiale, movimento che prende il nome dall’atleta sovietica Natalia Yurchenko, che però non l’aveva mai provato in gara (a lei si deve invece l’introduzione della formula rincorsa-rondata-flick per lanciarsi dalla tavola da volteggio e di altre figure particolarmente complesse).

Nell’agosto del 2019, Biles aveva twittato una foto di se stessa con indosso un leotard, come si chiama il body delle ginnaste, sul cui retro il suo nome era scritto a caratteri glitterati seguito dal ricamo, beh, di una capretta. L’immagine rimandava al gioco di parole “G.O.A.T.”, capra in inglese, il cui acronimo sta per “greatest of all time”, la più forte di sempre. Ecco chi è Simone Biles, la ginnasta americana più forte di sempre e che sa di esserlo, cosa che non ha mai mancato di far notare, sul tappeto così come fuori dalle competizioni, con quella sicurezza di sé tipica degli sportivi che non sono solo eccezionali, non solo vincono con una frequenza tale che a far notizia è più ogni loro, seppur minuscolo, errore, ma che di fatto appartengono a un’altra categoria, a un altro campionato, a un altro olimpo. I media americani spesso la accostano a Serena Williams e a Michael Phelps, per il carnet di vittorie e per come ha rivoluzionato la sua disciplina, tanto dal punto di vista tecnico quanto nell’immaginario collettivo.

È la prima ginnasta nella storia ad aver vinto cinque titoli mondiali nel concorso individuale (Anversa 2013, Nanning 2014, Glasgow 2015, Doha 2018 e Stoccarda 2019), e la prima a vincerne tre consecutivamente. È inoltre la prima statunitense ad aver vinto sette titoli nazionali all-around. Con 19 medaglie d’oro, è la ginnasta ad aver vinto più titoli mondiali in assoluto e nel 2019, con 25 medaglie totali vinte, è diventata la ginnasta più decorata della storia ai campionati del mondo, superando il record di 23 medaglie precedentemente detenuto dal bielorusso Vitaly Sherbo.

Anche chi non segue la ginnastica artistica conosce Simone Biles, ma forse non sa che la sua straordinarietà l’ha messa anche in difficoltà, come succede a tutti quelli che rompono i paradigmi. I suoi salti hanno infatti causato non poche polemiche, tanto più in una disciplina che tradizionalmente tende a premiare l’equilibrio, un’aurea mediocritas verrebbe da dire, tra la parte artistica (ovvero l’espressività, la fluidità di movimento, l’estetica della performance) e quella acrobatica (le cosiddette skill). I salti di Biles, però, sono la performance. A Stoccarda, non a caso, decisero di assegnarle un punteggio basso nonostante la grandezza dell’impresa, motivando così la propria scelta: «La Federazione Internazionale di Ginnastica ha incoraggiato, negli ultimi due cicli olimpici, l’esecuzione perfetta e l’artisticità, pur continuando a incoraggiare lo sviluppo delle skill. Tenendo in considerazione questi aspetti, è stato assegnato un valore “ragionevole” allo Tsukahara avvitato di Simone Biles: ci sono dei rischi concreti, tra cui un potenziale atterraggio sul collo».

Assegnare un punteggio “ragionevole” al Biles II era un tentativo piuttosto esplicito di scoraggiare le altre ginnaste a cimentarsi in salti così pericolosi: almeno per ora, insomma, certi movimenti li può fare solo lei. La stessa scena si è ripetuta a maggio 2021 in occasione del doppio carpiato Yurchenko, a Indianapolis, dove i giudici della FIG hanno assegnato al suo salto il valore di difficoltà 6,6, punteggio di poco superiore al 6,4 del più difficile degli altri esercizi eseguiti da Biles. Una penalizzazione, l’ha definita senza mezzi termini lei, che non le avrebbe dato il vantaggio che meritava sulle atlete che scelgono di eseguire esercizi meno complessi. «Continuerò a farlo, perché io posso», ha detto lei, e in quell’affermazione di sé, G.O.A.T scritto con i glitter, c’è tutto il dibattito su come cambia lo sport, e su come cambiano i metri di valutazione quando irrompono sulla scena atleti che ribaltano tutto quello che pensavamo lo sport fosse fino a questo momento.

La sequenza di un movimento di Biles durante la finale di corpo libero nel 2016 a Rio, in cui ha vinto la medaglia d’oro con un punteggio complessivo di 15.966 (Dean Mouhtaropoulos/Getty Images)

 

È un dibattito acceso e dalle molte sfaccettature, che nei mesi di preparazione alle Olimpiadi di Tokyo ha riguardato anche altre atlete, a cominciare dalle velociste namibiane Christine Mboma e Beatrice Masilingi, dichiarate non idonee a competere in una delle gare di Tokyo a causa dei loro livelli naturalmente elevati di testosterone. Mboma e Masilingi potranno gareggiare nei 100 e nei 200 metri, ma il dilemma resta: come si valutano i corpi eccezionali in un mondo di per sé già fatto di corpi eccezionali? Ne abbiamo parlato per tutta la carriera di Serena Williams, ne riparliamo oggi con Biles, che a 24 anni ha disputato quella che potrebbe essere la sua ultima Olimpiade, anche se in un’intervista a Glamour Us, in cui ha raccontato come la pandemia e lo slittamento di Tokyo 2020 siano stati una sfida a livello psicologico e fisico, non ha escluso le Olimpiadi di Parigi del 2024, ora incredibilmente vicine («I miei allenatori Cecile e Laurent Lanti sono di Parigi, quindi penso che sarebbe bello concludere la corsa con loro lì. Vedremo cosa succede», ha detto). Ma Simone Biles non è solo i suoi salti.

Nata a Columbus, in Ohio, il 14 marzo 1997, dopo aver trascorso i primi anni di vita in un orfanotrofio a causa dell’incapacità della madre, tossicodipendente, di prendersi cura di lei e dei suoi tre fratelli, a sei anni è stata adottata insieme alla sorella dai nonni materni, che l’hanno cresciuta a Spring, in Texas. È da allora che pratica ginnastica artistica: ha esordito nel 2011 e nel 2013 ha vinto la sua prima gara importante ai campionati statunitensi e da lì in poi ha inanellato tutti i suoi record. Nel 2018 ha poi affrontato probabilmente la più difficile delle sfide: utilizzando l’hashtag #MeToo ha postato una nota su Twitter in cui raccontava, per la prima volta pubblicamente, gli abusi subiti da Larry Nassar, l’ex medico della Nazionale statunitense di ginnastica accusato da oltre 150 donne di violenze e molestie sessuali e condannato a una pena minima di 40 anni di prigione e a una massima di 175 anni.

Nel gennaio del 2018, Nassar è stato riconosciuto colpevole dalla corte di Lansing, in Michigan, di aver abusato sessualmente di più di 100 donne e bambine, sue pazienti negli ultimi vent’anni, in un processo che ha attirato l’attenzione dei media internazionali – sia per la gravità dei crimini a lui imputati sia per la decisione della giudice Rosemarie Aquilina di indire quattro giorni di testimonianze pubbliche prima della sentenza. Facendo appello al sesto emendamento della Costituzione americana, che stabilisce il diritto di ogni imputato di fronteggiare i propri accusatori in tribunale, Aquilina ha infatti invitato le donne che hanno accusato Nassar a testimoniare di fronte a lui, rendendo il processo un evento che ha coinvolto emotivamente tutta l’America (e non solo). Una mossa che ha attirato alla giudice non poche critiche, ma che in molti hanno visto invece come un momento di catarsi che ha contribuito a fissare quel processo nel dibattito sui diritti delle donne riacceso dal caso Weinstein.

«Anch’io sono tra le sopravvissute che sono state abusate da Larry Nassar», si legge nella nota di Biles, «credetemi che è stato molto più difficile dire queste parole a voce alta per la prima volta di quanto non sia ora scriverlo nero su bianco. Ci sono molte ragioni per cui ero riluttante a condividere la mia storia, ma so che non è colpa mia (…) Dopo aver ascoltato le testimonianze coraggiose delle mie amiche e delle altre sopravvissute, so che quest’esperienza terribile non mi definisce. Io sono molto di più. Sono unica, intelligente, piena di talento, motivata e appassionata. Ho promesso a me stessa che la mia storia sarà molto più grande di quello che mi è successo e prometto a tutti voi che non mi arrenderò mai», ha scritto. Delle giovani atlete abusate da Nassar, Biles è l’unica ancora in attività. Guardandola a tre anni di distanza, mentre ridefinisce gli standard della sua disciplina – e dello sport più in generale – dall’alto del suo metro e quarantadue, una cosa è certa. Quella promessa l’ha mantenuta.