La presentazione di Leo Messi come nuovo acquisto del Paris Saint-Germain deve essere sembrata a tutti un po’ inverosimile, o quantomeno surreale, con Leo che parla al fianco di Nasser Al-Khelaifi, con i loghi e gli sponsor del Psg in bella vista alle sua spalle, con l’onere di doversi presentare ai suoi nuovi tifosi. Come se non bastasse, questa giornata così strana e così storica ha vissuto un altro momento ancor più singolare e straniante: nel tunnel che porta sul campo del Parco dei Principi di Parigi, il nuovo numero 30 del Psg ha incrociato lo streamer Ibai Llanos – uno che adesso può vantarsi di aver portato Messi per la prima volta in live su Twitch. I due si conoscono – Llanos aveva accompagnato Sergio Agüero alla cena di addio a casa di Messi a Barcellona, qualche giorno fa – e hanno chiacchierato con un distacco un po’ finto, un po’ plastico; inizialmente Messi è parso freddo come suo solito ma sorrideva lo stesso, poi lo streamer gli ha fatto un paio di domande e alla fine gli ha chiesto di firmare due maglie del Psg con il numero 30 e il suo nome cucito sopra, come se fosse un tifoso qualsiasi, mentre qualche addetto stampa del club passava a Leo il pennarello giusto.
È stata una scena surreale, si diceva. E forse non poteva essere altrimenti, perché è stato un frammento di una delle giornate più incredibili e imponderabili e inattese della storia recente del calcio. Ripensandoci bene, l’intera storia dell’arrivo di Leo Messi al Psg è davvero incredibile, è il frutto di una serie di eventi concatenati che, fino a qualche giorno fa, non sembravano nemmeno tra le opzioni possibili. Intanto perché non si tratta neppure di un vero trasferimento: Messi non è passato dal Barcellona al Paris Saint-Germain, ma è stato per più di un mese in un limbo astratto, in cui era un giocatore del Barcellona – per la sua famiglia, per il club, per i tifosi di tutte le altre squadre del mondo, forse anche per se stesso – ma in realtà non lo era, perché semplicemente non c’era più alcun contratto che lo legasse al Barça.
Anche la scelta di un anno fa, quella di non cambiare squadra nonostante le frizioni tra lui e la dirigenza, sembrava aver emesso una sentenza chiara, definitiva: Messi voleva rimanere al Barcellona, con la 10, la fascia da capitano attorcigliata al braccio e con i suoi tifosi, ma soprattutto voleva rimanere a Barcellona, nella città in cui è arrivato a pochi anni e in cui è diventato il più bravo di tutti a fare la cosa più bella di tutte. E allora sarebbe rimasto per sempre, soprattutto se il suo nemico Bartomeu avesse lasciato il club – cosa che si è puntualmente verificata. Alla fine non è andata così, Messi non è rimasto per sempre. Per tanti motivi. Il motivo più grande, però, c’entra poco col Psg, ed è la pessima condizione economica del Barcellona. Ecco, questo è un punto importante, anzi fondamentale, della vicenda: le ricostruzioni degli eventi degli ultimi mesi mostrano come il Barcellona sapesse che il contratto di Messi sarebbe arrivato a scadenza; il club catalano, quindi, ha accettato – o magari ha dovuto accettare – che le trattative per il rinnovo si prolungassero, ha sentito il ticchettio dell’orologio in ogni momento senza poter trovare una soluzione. E, alla fine, ha ceduto.
Insomma, è chiaro e lampante che la separazione tra Messi e il Barcellona sia la conseguenza di un mismanagement sportivo, di una condotta imprenditoriale a dir poco ingenua, per non dire improvvisata, da parte di Rosell, Bartomeu – gli ultimi due presidenti della società catalana – e dei loro collaboratori. Anche nell’epoca del player empowerment, la pessima gestione di un club costringe il giocatore più bravo di tutti ad accettare una soluzione diversa da quella che avrebbe preferito: Messi, infatti, ha dichiarato che sarebbe stato disposto a ridursi l’ingaggio, che l’avrebbe spalmato su cinque anni. Ma non c’è stato niente da fare, e questa è una cosa antistorica: se è vero che in tutto il mondo gli atleti hanno acquisito maggiore capacità di prendere decisioni sulla loro carriera, di determinare il proprio futuro secondo interessi sportivi e non, è anche vero che nessuno, al momento di mettere nero su bianco, può imporre la sua volontà come un dio greco che non conosce opposizione. Insomma, neanche Messi può farci nulla se i bilanci del Barcellona non consentono il rinnovo del suo contratto. Neanche Messi può scavalcare le regole della Liga, e non può combattere con quelle che, a tutti gli effetti, sono cause di forza maggiore.
La realtà, dunque, è che i club sono ancora i veri e unici artefici del loro destino. Il Barça lo è stato, suo malgrado: ha dovuto accettare il declino dopo anni di scelte inopinate, di contratti assurdi – impegnativi, lunghi, costosi – concessi a giocatori che oggi fanno fatica a vedere il campo (Dembélé, Coutinho, Umtiti, Pjanic), diventando l’archetipo di una gestione incompetente. Di conseguenza, quest’estate non ha potuto firmare Messi, l’unico giocatore che avrebbe davvero voluto e dovuto firmare, e al momento non potrà nemmeno registrare i nuovi acquisti nelle liste ufficiali della Liga – per poter acquistare ufficialmente Agüero, Depay ed Eric García, tra gli altri, il club blaugrana dovrebbe fare cassa nei prossimi giorni con cessioni a cifre rilevanti. In merito a questa situazione, una delle letture più interessanti è quella di Jonathan Liew sul Guardian, il cui discorso si potrebbe quasi estrapolare dall’ambito calcistico e riproporre in altri settori del mercato del lavoro: «Messi aveva già preso in considerazione di tagliarsi lo stipendio, ma né Laporta, né gli sponsor, né le banche creditrici del Barcellona avrebbero rinunciato ai loro soldi, com’è giusto che sia. Ogni volta che c’è da stringere un buco alla cintura è ai giocatori che viene chiesto di assumersene l’onere, nonostante siano i veri creatori della ricchezza che caratterizza il calcio. La vera lezione della partenza di Messi è sull’estrema impotenza del calciatore d’élite nelle fauci del capitalismo non regolamentato: un promemoria che anche i più grandi non sono immuni alle forze maligne e rapaci di questo sistema».
C’è anche una prospettiva diversa, che ci mostra come la nuova dirigenza del Barcellona sia salita in carica con le mani già legate e consapevole della sua condizione: non poteva firmare Messi né costruire una squadra adatta a supportare il suo talento; allo stesso tempo non poteva venderlo, non poteva rifiutarsi di prolungare il suo contratto per motivi politici – sarebbe scoppiata una guerra civile in Catalogna, a voler essere ottimisti. E lo stesso giocatore non poteva andarsene di sua spontanea volontà per non tradire i tifosi. Allora il mondo in cui Messi finisce al Psg sarebbe frutto di quella che Rory Smith, sul New York Times, ha definito la «visione cospirazionista»: l’addio più insensato di sempre consente al Barcellona di ripartire da zero, a Messi di cambiare squadra da svincolato e a entrambi di non prendersi la colpa perché la colpa è delle istituzioni che hanno legato le mani al club e impedito gli accordi. Solo che poi lo stesso Smith aggiunge: «È una teoria convincente, ma non sopravvive al primo esame. Il Barcellona aveva in programma di annunciare il nuovo accordo con Messi alla fine del mese, aveva portato al Camp Nou uno dei suoi amici più cari, Sergio Agüero, a quanto pare su esplicita richiesta di Leo. Insomma, queste sono le mosse di chi prova in qualche modo a far funzionare le cose, non sembrano macchinazioni di un burattinaio machiavellico».
Purtroppo nessuno ha avuto e/o avrà accesso a tutta la verità. Non sappiamo, soprattutto, quale fosse la reale volontà di Messi: può darsi che davvero non fosse convinto di rimanere in un Barcellona rimaneggiato, o che avesse voglia di tentare un ultimo assalto alla Champions League in una squadra ora inevitabilmente favorita a stravincere qualsiasi cosa. Adesso, quantomeno, abbiamo l’opportunità di vedere Messi con Neymar e Mbappè, ma anche con un vecchio rivale come Sergio Ramos e una schiera di fenomeni ben assortiti come Donnarumma, Marquinhos, Hakimi, Verratti e Di María. E magari neanche stavolta basterà per vincere la Champions League: questa sì che sarebbe la conclusione più surreale di una stagione iniziata nel modo più surreale e sorprendente possibile.