Non abbiamo mai visto una squadra come il nuovo Paris Saint-Germain

Una collezione di superstar, ma con una struttura tattica possibile: Pochettino avrà un compito difficile, perché non potrà solo limitarsi a vincere, dovrà fare qualcosa di più.

«Non ci sarà mai più una squadra come quella». Questa frase, attribuita a Earvin Magic Johnson, ha raccontato – e racconta ancora oggi, per certi versi – il cambio di paradigma incarnato e determinato dal Dream Team alle Olimpiadi di Barcellona nel 1992, quando una selezione composta da 11 giocatori Nba e un giocatore collegiale ribaltò completamente prospettive e percezioni degli sport di squadra – dal punto di vista dell’entertainment, dello status symbol, dell’iconografia, tutto al di là del mero risultato di campo.

Il Paris Saint-Germain di Lionel Messi – anzi: il Paris Saint-Germain che ha aggiunto Lionel Messi ad una rosa già sovradimensionata di suo, se rapportata a molti competitor nazionali ed europei – si inserisce a sua volta in questo filone narrativo in cui il confine tra il possibile e l’impossibile si assottiglia fin quasi a scomparire. Del resto, mettere insieme l’ex capitano del Barcellona e quello del Real Madrid – ma anche i numeri 10 di Brasile, Argentina e Francia – in una rosa che comprende già il miglior portiere del mondo per i prossimi dieci anni, uno dei migliori interpreti del ruolo dell’esterno destro a tutta fascia, più Verratti e Di María, è qualcosa che va oltre i sogni, oltre le fantasie più sfrenate che fino all’altro ieri potevano concretizzarsi solo su Fifa Ultimate Team. E forse nemmeno lì: il Psg, infatti, ha messo su una sorta di nuovo multiverso Marvel proiettato nella realtà sportiva contemporanea, in cui gli Avengers di ieri, di oggi e di domani si coalizzano per dare l’assalto a quella Champions League che è l’unico obiettivo possibile, l’unico trofeo che legittimerebbe la legacy – e gli investimenti – della proprietà qatariota nella stagione che porterà al primo Mondiale disputato nella Penisola Araba.

Da oggi comprare – a caro prezzo: fino a 970 euro, secondo le prime stime – un biglietto per vedere una partita del Psg significa comprare e comprarsi un posto in prima fila (più o meno) per assistere a una storia in divenire che, un domani, potrebbe essere raccontata in un All or Nothing di Amazon o nell’ennesima serie originale Netflix. Tutto questo per poter dire a figli e nipoti che si era lì, che si era parte della storia, che “io c’ero” mentre gli Harlem Globetrotters del calcio del XXI secolo portavano in giro per l’Europa il loro carrozzone glamour a ritmo di samba, anzi di tango, anzi di entrambi. Non si compra più un prodotto, piuttosto un’esperienza unica e potenzialmente irripetibile: le basi dell’advanced marketing perfettamente applicate nell’epoca in cui saper vendere è più importante di cosa si vende e a quanto.

Questi riferimenti al basket USA, al Dream Team originale, alla logiche americane di spettacolo applicato allo sport e viceversa, non devono risultare forzati, non devono essere percepiti come il tentativo di ritrovare un precedente comparabile a tutti i costi. Il Psg 21/22 sta perfettamente dentro questo racconto, e non solo per il tipo di mercato condotto – ha ingaggiato i migliori free agent disponibili, proprio come una franchigia NBA – o per l’idea della squadra che non può perdere, perché può contare su giocatori che hanno scritto e continueranno a scrivere la storia del calcio contemporaneo: proprio come i 12 di Chuck Daly a Barcellona 92, il Psg è stato assemblato con un criterio, possiede cioè una logica di campo che sostiene la collezione di superstar. Quindi dimenticate il Real Madrid dei Galacticos, dimenticate quel 4-1-4-1 iper-offensivo in cui Makelele o Cambiasso dovevano correre per tutti, dimenticate Beckham costretto a reinventarsi regista arretrato: pur nella sua evidente sovrabbondanza di fenomeni offensivi, il Psg è una squadra credibile, tutte le sue stelle più accecanti possono essere schierate in campo contemporaneamente, senza determinare grossi squilibri tecnici o tattici. Non è impossibile, infatti, immaginare un tridente puro con Neymar, Messi e Mbappé, schierato davanti a un centrocampo con due mezzali tecniche (Verratti e Wijnaldum) e un vertice basso di governo (Paredes) oppure più fisico (Danilo, Gueye), e poi alla canonica difesa a quattro; al netto delle (possibili, probabili, forse inevitabili) operazioni di mercato in uscita, la presenza di giocatori versatili come Marquinhos, Draxler, Kehrer, ma anche degli stessi Hakimi e Di María, permetterà al Paris di assumere forme sempre diverse e fantasiose in ogni partita.

In virtù di tutto questo, la posizione più scomoda in assoluto è quella di Mauricio Pochettino, allenatore di un gruppo che non può limitarsi a vincere. Anche questo è un elemento di continuità con il Dream Team: nel 1992, la Nazionale di basket americana passò alla storia (anche) per aver stravinto tutte le partite disputate con ampio margine e senza la necessità di chiamare un solo timeout. È probabile che dal Psg, oggi, ci si aspetti qualcosa di comparabile, una dimostrazione pratica che renda manifesta quella superiorità che al momento resta ancora solo teorica, persa nelle pieghe della fantasia dei tifosi che non vedono l’ora che i loro sogni di grandezza diventino realtà.

Proprio l’aspetto emotivo, dentro e fuori la squadra parigina, costituisce il dettaglio decisivo di un piano narrativo che, in attesa della controprova del campo, vive sulle sensazioni, sulle reazioni di pancia, su analisi dettate più dal sentimento che dalla razionalità. La storia dello sport ci insegna che parte dell’aura leggendaria che consegna certe squadre all’immortalità è dovuta al favore popolare, al grado di simpatia – nel senso letterale del termine – che emerge dai racconti e che permette di sopravvivere al tempo e alle distanze: lo stesso Dream Team del 1992, era a sua volta unfair – cioè troppo più forte, troppo più dominante, troppo più tutto in relazione al suo contesto di riferimento, tanto da alterare l’idea stessa di competizione – eppure non è mai stato rievocato come un villain di riferimento, come la squadra da battere in nome di un presunto bene superiore. Anzi: la leggenda racconta che l’idolatria e l’ammirazione fossero talmente globali e condivise che, durante le partite, i giocatori avversari chiedessero ai compagni in panchina di scattargli delle foto mentre Jordan gli schiacciava in testa, mentre Magic Johnson mandava a schiacciare Robinson, Barkley o Pippen con uno dei suoi classici assist no look.

Da questo punto di vista, il Psg si trova nella situazione diametralmente opposta, e non solo perché ci risulta difficile immaginare oggi i giocatori di Lione, Marsiglia o Lille che chiedono alle panchine di fare una diretta Instagram mentre Messi, Neymar e Mbappé attaccano l’ultimo terzo di campo in verticale. L’essere nato in concomitanza – o come conseguenza – delle lotte politiche ed economiche intorno alla Super Lega ha fatto sì che questo Psg – più di tutte le edizioni precedenti  diventasse il simbolo dell’incoerenza di chi gestisce e muove lo sport professionistico ad alti livelli, sbandierando la difesa a spada tratta del calcio come fenomeno di massa, per le masse, per poi ritrovarsi a gestire un qualcosa di altrettanto elitario, chiuso, non inclusivo.

In attesa che Messi e Neymar recuperino la miglior condizione, il Psg ha già vinto le prime due gare della Ligue 1 2021/22: Hakimi ha segnato il gol del momentaneo pareggio nell’esordio contro il Troyes finito 2-1 per i parigini, Mbappé ha realizzato la rete numero due nel successo per 4-2 contro lo Strasburgo (Photo by Bertrand Guay/AFP)

Lo scorso 21 aprile, subentrando ad Andrea Agnelli al vertice dell’ECA, Nasser Al Khelaifi disse che «il calcio adorato da generazioni di tifosi prospererà solo se unito, ed è nostro dovere come custodi adempiere a questo obbligo». Nemmeno quattro mesi dopo, lo sbarco di Messi a Parigi ha imposto una cesura netta al calcio europeo, un cambiamento traumatico ed epocale come e più di quella eventualmente generato dalla nascita della Super Lega. Non è più solo una questione di odio – sportivo, s’intende – verso il più forte, verso la squadra che cerca di chiudere la competizione ancor prima che si giochi una singola partita: questo è ancora una parte integrante e fondamentale della passionalità del tifoso, senza la quale nulla di tutto questo esisterebbe. Piuttosto è questione di come e quando questo sia avvenuto, delle circostanze in cui è stato possibile accumulare così tanto talento sottraendolo agli altri, dell’oggettività e del realismo con cui la logica del “se non puoi combatterli unisciti a loro” ha prevalso su qualsiasi aspetto romantico, poetico, retorico di questo gioco.

Chiariamo: ad essere messa in discussione non è la legittimità o la correttezza formale dell’operato del Psg, ma la portata storica del suo significato, nonché l’impatto in termini di popolarità di un gioco che sta faticando tantissimo a imporsi tra le nuove generazioni. Offrire loro una realtà, anzi una squadra, così simile a un videogame sembra un tentativo come un altro per guadagnare posizioni nei confronti di forme di intrattenimento più veloci, dirette ed immediate, anche se verrebbe da chiedersi che tipo di attrattiva possa avere qualcosa che, ad oggi, assomiglia sempre più a un confronto lungo una stagione, con i più forti da una parte e tutti gli altri dall’altra. Forse Magic Johnson aveva ragione. Forse davvero «non ci sarà mai più una squadra come quella». A Messi, Neymar, Mbappé e Pochettino il compito di smentirlo. In campo, ma soprattutto fuori.