Le federazioni sportive sono molto indietro su inclusione e diritti

Un'arretratezza che si è manifestata ai Giochi Olimpici, agli Europei di calcio, e in occasione di altre grandi manifestazioni.

Il 4 agosto 2021 non è stato un giorno come tutti gli altri per lo sport britannico: una donna afrodiscendente, Alice Dearing, ha rappresentato Londra in una gara olimpica di nuoto, qualcosa che non era mai successo nei 125 anni trascorsi dalla prima Olimpiade moderna di Atene 1896. Dearing, specialista nella maratona dieci chilometri stile libero, ha 24 anni, è nata a Birmingham e ha origini ghanesi. È alta un metro e sessantasei, ma quando tiene i suoi capelli legati, come fa spesso, sfiora altezze cestistiche. La nuotatrice britannica ha infatti una voluminosa chioma riccia, quei capelli afro caratterizzati da maggiore secchezza per i minori strati cellulari da cui sono formati. L’acqua, in particolare quella piena di cloro delle piscine, consuma i capelli con queste caratteristiche, che faticano inoltre a raccogliersi nelle piccole cuffie che monopolizzano l’offerta commerciale globale. Un ostacolo alla disciplina sportiva per molte persone afrodiscendenti, ma anche per chi ha acconciature come dreadlock, treccine ed extension che rischiano di non sopravvivere a una nuotata. È per tutelare queste persone che l’azienda inglese Soul Cap ha progettato cuffie di dimensioni più grandi, «la presa in considerazione di un serio problema della comunità nera in tutto il mondo» secondo Alice Dearing, che è diventata testimonial del brand.

Se il 4 agosto Dearing avesse voluto utilizzare una di queste cuffie nella dieci chilometri di Tokyo, non avrebbe potuto. La Federazione internazionale del nuoto (Fina) ha infatti bandito dalle Olimpiadi questi copricapi, perché «non seguono la forma naturale della testa». Una decisione che ha sollevato molte polemiche per la sua natura discriminatoria, ma anche perché in contrasto con lo stesso spirito olimpico – che dovrebbe cercare quanto più possibile di avvicinare le persone allo sport. Nella frenetica estate 2021, quella della Fina è in realtà solo una delle tante forme con cui le federazioni sportive internazionali hanno dimostrato tutta la loro scarsa sensibilità e arretratezza sui temi dell’inclusione e della tutela dei diritti. Mentre il mondo corre a velocità sempre più elevate da questo punto di vista, gli organi che rappresentano le discipline sportive faticano a stargli dietro, sospesi a metà tra goffi tentativi di adeguamento e imposizioni dal sapore antico.

Qualche giorno fa la cantante americana Pink si è offerta di pagare di tasca sua la multa inflitta dalla Federazione europea di pallamano (Ehf) alla squadra norvegese femminile. Le atlete si erano lamentate del fatto che il classico bikini – da massimo dieci centimetri – previsto dal regolamento fosse una fonte di distrazione per loro, dal momento che evitare di scoprirsi troppo durante l’azione diventava più importante dell’azione stessa. Il problema è stato risolto ricorrendo agli shorts utilizzati dagli atleti maschili di disciplina, una riappropriazione del proprio corpo e della scelta sullo stesso evidentemente non in contrasto con le caratteristiche che lo sport richiede. Per la federazione è stato però uno sgarbo, come se la maggiore nudità possibile delle atlete femminili fosse un elemento imprescindibile della pallamano su spiaggia, un mezzo per attrarre pubblico, per presentarsi meglio. Sono stati comminati 1.500 euro di multa per «abbigliamento non consono»: una decisione che si è rivelata un boomerang, e che, tra proteste e petizioni, si è già tradotta in un mezzo dietrofront federale con tanto di promessa di discutere – entro il 2022 – un nuovo regolamento più inclusivo sul vestiario da gioco.

Alla campionessa paralimpica di salto in lungo Olivia Breen è invece successo un episodio opposto, ma di fatto uguale nel principio. Durante un torneo in Gran Bretagna una commissaria federale l’ha ammonita per la sua divisa «troppo corta e quindi inappropriata», un tentativo di intrusione nelle scelte personali e atletiche della donna privo di alcuna base regolamentare o logica. «Non siamo nel 1800», si è lamentata l’atleta, individuando in modo perfetto l’epoca in cui a volte sembrano essere rimaste le federazioni sportive. Una debolezza che non risparmia nemmeno il Comitato olimpico internazionale (Cio), che in occasione di Tokyo 2020 non si è fatto problemi a creare un clima bipolare: alle tante iniziative per l’inclusione e le libertà, hanno fatto da contraltare episodi e scelte che, prese singolarmente, potevano far pensare di trovarci davanti a tutto tranne che a un’Olimpiade del terzo millennio. Basta dare una scorsa al nuovo articolo 50 su “Pubblicità, dimostrazioni, propaganda” della Carta olimpica, frutto di oltre un anno di negoziazioni, per rendersi conto dell’arretratezza culturale che ancora oggi permea la più importante manifestazione sportiva: la simbologia della protesta, così come il richiamo ai diritti e alle libertà, sono passati dall’essere ospiti proibiti nella vecchia versione del documento a ospiti scomodi da relegare al dietro le quinte in quello nuovo. Gli spazi che meglio si prestano alla rappresentazione di una battaglia, come il terreno da gioco durante le gare e poi il podio, devono restare intonsi, puliti. «Qui sono proibite le proteste», cita la nuova Carta, che forse riesce a suonare ancora più antiquata nelle righe in cui consente agli atleti di «esprimere le proprie opinioni sui social privati o nelle conferenze stampa», quasi come a voler sottolineare che comunque c’è di peggio nel mondo in quanto a censura. Quindi, non lamentatevi. «Un compromesso», l’hanno definito dal Cio. Di fatto, si tratta di un’ammissione involontaria di completa miopia sull’argomento, visto che quando c’è da lottare contro discriminazioni e simili ogni compromesso è una sconfitta. Che il Comitato olimpico abbia perfino discusso se sanzionare l’atleta americana medaglia d’argento di getto del peso Raven Saunders, dopo che il primo agosto, sul podio, ha incrociato le braccia per solidarietà verso il movimento LGBTQ+, è la ciliegina sulla torta: un salto in un passato nemmeno troppo vicino.

Nel week end a cavallo tra luglio e agosto Sebastian Vettel, pilota di Formula Uno dell’Aston Martin, se n’è andato in giro per il paddock ungherese con un completo arcobaleno e una maglia con su scritto “Same love”. La scelta del tedesco è stata condivisa anche da altri colleghi come Lewis Hamilton (Mercedes), già molto attivo nell’ambito del movimento antirazzista Black Lives Matter, Valtteri Bottas (Mercedes), Carlos Sainz (Ferrari) e Lance Stroll (Aston Martin). La Federazione internazionale dell’automobile (Fia) non ha gradito e ha minacciato di sanzionare i piloti schieratisi contro il padrone di casa Viktor Orbàn e le sue politiche razziste e omotransfobiche. Non entrando nel merito e a difesa delle stesse, ma focalizzandosi più che altro su un presunto galateo che vorrebbe si chiudessero gli occhi su quello che avviene in casa di qualcuno quando si è suo ospite. «È stata una mancanza di rispetto», hanno denunciato dalla federazione.

Si tratta di qualcosa che avevamo già visto qualche settimana prima agli Europei di calcio itineranti, con lo stadio di Budapest trasformato dal regime locale in un puro strumento di propaganda: mentre tutto il mondo impantanato tra lockdown e limitazioni varie dovute al Covid-19, tutti dovevano invidiare la presunta normalità ungherese. Sullo sfondo c’erano gli esercizi di nazionalismo estremista, la formazione magiara a cantare l’inno sotto la distesa di braccia tese della nazistissima Carpathian Brigade – banda di supporter già finiti sotto i riflettori internazionali in passato per episodi antisemiti e di razzismo. La Uefa deve aver utilizzato lo stesso metro di giudizio della Fia per affrontare la situazione, scegliendo di fare silenzio per non disturbare, in nome di presunte buone maniere con cui camuffare l’incapacità di gestire situazioni di questo tipo. Un modus operandi replicato anche fuori dal confine ungherese, quando l’organo più importante del calcio europeo ha negato la richiesta di illuminare con l’arcobaleno l’Allianz Arena di Monaco, in occasione di Germania-Ungheria.

Nella gara contro l’Ungheria agli Europei, il capitano della Germania, Manuel Neuer, ha indossato una fascia con i colori arcobaleno, da sempre simbolo della comunità LGBTQ+; nella stessa partita, Leon Goretzka ha esultato facendo la forma di un cuore con le dita, sempre per condannare l’omotransfobia del regime di Orbán (Kai Pfaffenbach/Pool/Getty Images)

Queste strizzate d’occhio ai regimi non sono ovviamente un endorsement alle loro politiche, quanto piuttosto l’esternazione di una volontà di non sporcarsi le mani a livello istituzionale per evitare di avere grane da gestire, anche se a fin di bene. Non poteva mancare il Cio in questo discorso, con il suo atteggiamento ambiguo nei confronti dell’ultimo dittatore d’Europa, il presidente bielorusso Alexander Lukashenko. Oggi si fa un gran parlare dell’intervento del Comitato olimpico a difesa della velocista Krystsina Tsimanouskaya, a rischio rimpatrio per aver espresso critiche contro la federazione sportiva di Minsk e la sua gestione delle gare di atletica di Tokyo 2020. In effetti, i signori dei cinque cerchi sono stati fondamentali per garantirle protezione, e al riguardo è stata perfino aperta un’indagine contro la Bielorussia. Eppure, si è dovuti arrivare a una situazione così grave ed estrema perché dal Cio facessero qualcosa di concreto contro un paese di cui, sotto banco, parlavano da mesi con preoccupazione: ancora a fine luglio un report sottolineava come da Minsk non fossero stati fatti passi avanti nella protezione degli atleti dalle discriminazioni politiche, senza che a questo seguissero sanzioni. Riservate, evidentemente, solo a chi si espone su un podio o un terreno di gioco.

Il fatto che alle Olimpiadi del 2021 non potesse succedere, da regolamento, quanto successo ai giochi di Città del Messico del 1968 – quando gli atleti americani Tommie Smith e John Carlos alzarono i pugni sul podio in nome del black power – la dice lunga su come il sistema sia rimasto impantanato sotto molti aspetti al secolo scorso. Proprio Smith e Carlos, nelle scorse settimane, hanno firmato una lettera indirizzata al Cio in cui chiedevano di non punire le eventuali proteste degli atleti, loro che più di tutti sanno come si fa a dare risonanza globale a una battaglia per la libertà. Anche l’atleta 25enne britannica afrodiscendente Dina Asher-Smith ha richiamato quella scena iconica di 53 anni fa, immaginando quanto sarebbe stato assurdo, come sarebbe cambiata la storia, se il Cio fosse intervenuto sul momento per dire “scusate, abbassate quel braccio”.

A pensar male verrebbe da dire che le cuffie striminzite, le maglie in bianco e nero, le forme femminili ben in vista e la compostezza durante le premiazioni auspicate da questa o quella federazione sportiva internazionale siano volontaria esternazione di un’attitudine antilibertaria che la fa da padrone in questi ambienti. Una conscia comunicazione, una quotidiana messa in riga di chi vorrebbe un cambiamento nello stato delle cose che non è ammesso. Probabile ci sia anche una dose di questo, ma la sensazione costante, ogni volta che una nuova presa di posizione federale ci fa venire la pelle d’oca, è che ci troviamo davanti a una fiera dell’ingenuità, a una classe dirigente totalmente sconnessa dal mondo, priva degli strumenti necessari per capirlo o comunque impaurita nel farlo.

Mentre il mondo corre, mentre nuove e più incisive forme di comunicazione e di lotta si affermano nella società entrando pure nei terreni di gioco, le federazioni sportive assumono le sembianze di dinosauri che provano a interpretare un futuro che in realtà è già presente, comprendendolo fino a un certo punto e restando sotto molti aspetti ancorati ai tempi che furono. Manca profondità di analisi del contesto, e a volte è pure difficile prendersela con chi se ne rende protagonista, semplicemente perché è la persona sbagliata messa nel posto sbagliato (ricordate l’ultrasettantenne Tavecchio?).

Intrappolate in un modo di ragionare tradizionale proprio delle persone messe lì a rappresentarle, le federazioni sportive vivono in un perenne stato di shock di fronte al nuovo che avanza, e ogni volta si fanno trovare impreparate quando un dossier apparentemente banale si appresta a mettere un’altra colata di asfalto sulla strada del progresso. Sembra che non abbiano idea di cosa fare, sembrano pesci fuor d’acqua che vanno avanti a tentoni cercando di non scomodare nessuno e finendo per scomodare tutti. Un buffo ibrido, corpi sospesi tra il secolo scorso e la contemporaneità. «Ma non avete un amico che vi consiglia?», è la domanda che più vorremmo rivolgere loro. Gli amici in realtà ci sono, ma troppo spesso sono essi stessi espressione di un mondo che ha smesso di esistere. Forse è ora di cambiarli, di dare le chiavi delle federazioni a chi sa leggere il presente.