Qual è il senso di Cristiano Ronaldo al Manchester United?

CR7 torna in una squadra che non aveva bisogno di lui, almeno in campo. Riuscirà a portare a termine l'ultima missione della sua carriera.

A guardarlo da una certa angolazione, il ritorno di Cristiano Ronaldo al Manchester United è un lieto fine perfetto, tipico da commedia romantica hollywoodiana. Tutti, o quasi, sono felici di com’è andata a finire: il campione portoghese è riuscito a cambiare squadra dopo aver dichiarato chiuso, finito, il suo amore accidentato con la Juventus; i Red Devils hanno comprato un attaccante fortissimo, ancora decisivo ai massimi livelli nonostante viaggi spedito verso i 37 anni; ora Solskjaer ha in rosa un fuoriclasse planetario e generazionale, una figura di riferimento che a Old Trafford mancava da tanto tempo, forse proprio dall’addio di Ronaldo, anche perché nel frattempo Paul Pogba non è riuscito a mantenere tutte le promesse che sono state costruite intorno a lui, e in ogni caso non è diventato il trascinatore della squadra, il leader emotivo dell’ambiente; i tifosi dello United hanno riaccolto uno dei loro eroi del passato soffiandolo letteralmente ai loro rivali cittadini, stando alle ricostruzioni dei media; i fan del City, almeno in partenza, non avevano mostrato grande entusiasmo per il possibile arrivo di un calciatore che in realtà è sempre stato un nemico, e inoltre le indiscrezioni sulle prime interazioni tra Cristiano e Guardiola raccontavano come anche lo stesso Pep non fosse così eccitato da questa operazione – ma ovviamente la sua presunta diffidenza aveva una natura diversa rispetto a quella dei tifosi del City, riguardava il campo, il difficile inserimento di Ronaldo nel suo sistema tattico.

Persino gli appassionati neutrali, soprattutto quelli più romantici, hanno salutato con un certo sollievo la scelta di Ronaldo (ma questa scelta è stata davvero sua?) di non trasferirsi al City e diventare così uno dei più grandi villain calcistici di sempre, piuttosto di accettare l’offerta del Manchester United, di tornare a casa, di rispettare quell’ideale codice d’onore che lega un giocatore al suo passato in maniera indissolubile. Insomma, forse gli unici che ci sono rimasti un po’ male per il passaggio di Cristiano allo United sono i dirigenti e i tifosi della Juventus – e nemmeno tutti, in verità: c’è un gruppo piuttosto nutrito di supporter bianconeri che, pur riconoscendo la grandezza di Ronaldo, aveva iniziato a manifestare insofferenza nei suoi confronti. Solo che gli juventini sono un campione esterno, non contano, nel senso che il loro risentimento è giustificato: avrebbero perso CR7 in ogni caso, indipendentemente dalla squadra in cui sarebbe andato a giocare.

Il punto è che tra qualche giorno, alla fine di questa sbornia di gioia diffusa e condivisa, ci sarà il calcio. Ci saranno le partite. Ci sarà un’incombenza piuttosto complicata, per Solskjaer: costruire un Manchester United che possa avere un senso e quindi dare un senso reale al ritorno di Ronaldo. A un’operazione che, almeno in questo momento, sembra rispondere a un’esigenza puramente mediatica, commerciale, non certamente a una necessità tecnica. Certo, non c’è niente di strano o di rivoluzionario in una situazione del genere: Jonathan Wilson, sul Guardian, ha scritto che «il calcio contemporaneo va così, oggi i top club sono prima di tutto dei produttori di contenuti, e in questo senso va detto che il ritorno di Ronaldo al Manchester United è un perfetto colpo narrativo». Resta il fatto, però, che è davvero difficile individuare la ratio di questo affare, è impossibile anche solo provare a immaginare quale potrà essere l’impatto di Ronaldo su una squadra che, ad oggi, può contare su Edinson Cavani, Marcus Rashford, Jadon Sancho, Mason Greenwood, Anthony Martial, Jesse Lingard e Bruno Fernandes, e volendo anche su Amad Diallo, Daniel James e Juan Mata, mentre a centrocampo ci sono Paul Pogba, Donny van de Beek, Fred, Scott McTominay e Nemanja Matic. Basta leggere questa lista di nomi, anche in maniera distratta e superficiale, per comprendere che il Manchester United avrebbe avuto bisogno di un giocatore diverso da Ronaldo per completare ed equilibrare la rosa, anche solo numericamente.

A guardarlo da un’altra angolazione, dunque, il ritorno di Ronaldo al Manchester United è una scommessa a dir poco discutibile. È la stessa storia recente dei Red Devils, a dirlo: i buoni – ma non ottimi – risultati di Solskjaer, il terzo e il secondo posto in Premier League, la semifinale e la finale di Europa League, sono stati raggiunti grazie a un miglioramento lento ma continuo, a un progetto fondato sull’integrazione tra i talenti dell’Academy – Rashford, Greenwood, McTominay – e altri giocatori tendenzialmente giovani arrivati dal mercato – Wan-Bissaka, Maguire, Bruno Fernandes. In questo senso, l’acquisto di Sancho e quello del 28enne Varane – un compromesso irripetibile tra età, qualità ed esperienza internazionale – sembravano aver messo il suggello a questa nuova era di razionalità e lungimiranza, a un progetto serio e assennato, forse l’unico possibile per superare una crisi strutturale che va avanti da dieci anni, che ha vissuto di utopie irrealizzabili – il Ferguson-bis di Moyes, le alchimie cervellotiche di Van Gaal, le anacronistiche battaglie emotive di Mourinho.

E invece, all’improvviso, a Old Trafford si è materializzata un’altra utopia: il Manchester United è destinato a diventare una squadra composta da Ronaldo e altri dieci, e quindi sacrificherà lo sviluppo di uno dei suoi tantissimi talenti offensivi e anche una bella fetta di equilibrio difensivo; sarà una squadra che dovrà giocare un calcio più paziente rispetto a quello rapido e pure abbastanza elementare praticato finora con Solskjaer in panchina, perché Ronaldo va servito e supportato in un certo modo; sarà una squadra definitivamente e inevitabilmente obbligata a vincere, perché con Ronaldo il suo Process è passato in un istante al livello successivo, al livello più alto, anche se magari manca un centrocampista, anche se le alternative al centro della difesa – i vari Bailly, Lindelöf, Jones – non valgono i titolari, se gli esterni bassi di riserva sono Alex Telles e Diogo Dalot. Tutto questo non conta più, ora.

La prima esperienza di Cristiano Ronaldo al Manchester United è iniziata nel 2003 e si è conclusa nel 2009; il fuoriclasse portoghese ha accumulato 292 gare ufficiali e 118 gol, e in più ha sollevato al cielo nove trofei, tra cui la Champions League edizione 2007/08 (Clive Mason/Getty Images)

Tutto questo conta molto, invece, per inquadrare i motivi che hanno spinto Ronaldo a trasferirsi proprio allo United – oltre al lauto stipendio che riceverà ogni mese, ovviamente. La nuova avventura a Manchester è l’ideale prosecuzione di quella vissuta a Torino, almeno nelle intenzioni: CR7 plana in un club che avrà pure una grande storia e un grande blasone, questo è innegabile, ma allo stesso tempo arriva in una una squadra che oggi vale meno di lui, o comunque meno di ciò che è stato. L’obiettivo che CR7 sente di poter raggiungere è riportare lo United a vincere un trofeo importante a otto anni dall’ultimo successo in Premier League e a tredici dall’ultima Champions, esattamente come avrebbe voluto fare con la Champions League che mancava e manca alla Juventus dal 1996. Nel caso ci riuscisse, dimostrerebbe che basta avere CR7, anche a 36 anni e mezzo, per poter vincere. Dimostrerebbe che non è importante avere e mettere in pratica delle idee, che non è necessario lavorare in prospettiva con un gruppo di giovani talentuosi, che non è fondamentale mettere a punto un sistema di gioco sofisticato, che per pareggiare o superare tutto questo è sufficiente avere Ronaldo in attacco – però non da centravanti puro, un po’ spostato a sinistra, con licenza di muoversi liberamente.

Più che i tifosi dei Red Devils, quindi, Ronaldo ha scelto di non tradire la sua visione individualistica del calcio – che poi in realtà assomiglia molto a quella di Ibrahimovic, a quella di Messi e Neymar che vanno al Psg. Il suo ritorno al Manchester United è l’estremo tentativo di avere una legittimazione larger than club che in realtà non ha mai avuto, e che non avrebbe potuto avere nel Manchester City, ovvero nella squadra e nel mondo di Pep Guardiola. Basta riavvolgere il nastro della sua carriera per rendersi conto che questo riconoscimento non è ancora arrivato, non in maniera piena: nel suo primo periodo al Manchester United, Cristiano era decisamente il giocatore più forte di tutti, solo che accanto a lui c’erano degli uomini-simbolo con una storia e un peso enormi, Roy Keane, Ryan Giggs, Wayne Rooney, e poi soprattutto c’era Alex Ferguson, e allora Ronaldo era la punta di diamante di un progetto, non era il progetto; il Real Madrid è un universo a parte, non a caso loro sono i Galácticos, CR7 ci ha pure provato a prendersi tutto lo spazio interstellare del Bernabéu ma non ci è mai riuscito per davvero, del resto come avrebbe potuto con Sergio Ramos, Marcelo, Modric, Kroos e Benzema in campo accanto a lui, e con Zinédine Zidane in panchina? Alla Juve è andata male e forse non è stata tutta colpa sua, d’accordo, ma resta il fatto che Ronaldo aveva una missione e l’ha fallita. Per lui si tratta evidentemente di una macchia enorme, che si poteva sbiancare solo rilanciando il gioco sullo stesso tavolo. Il fatto che possa funzionare o meno, il fatto che possa essere stata una buona idea, andrà verificato sul campo. Proprio quel luogo in cui i bluff o le puntate troppo ardite finiscono per smascherarsi da sole, oppure da chi ha un punto abbastanza forte per venire a vedere.