Joaquín Correa in una nuova dimensione

A 27 anni, il Tucu è ormai maturo per diventare un giocatore di primo livello, e Simone Inzaghi ha bisogno di lui per poter imporre il suo calcio anche all'Inter.

Prima di ogni partita del figlio, i genitori di Joaquín Correa accendono un cero alla Virgen del Valle, la protettrice del Nord-Ovest argentino, un culto popolare radicato in quella zona dai tempi in cui gli spagnoli entrarono in contatto con gli indigeni e le loro terre. Correa è nato a Juan Bautista Alberdi, nella provincia di Tucumán, la più piccola della nazione. È uno dei tanti Tucu, soprannome che cade sui calciatori di quella zona come un pedaggio quando si trasferiscono a giocare nelle altre città argentine. Specialmente quando superano la cintura della Avenida General Paz, l’autostrada che circonda Buenos Aires.

La sua storia da calciatore, o perlomeno la parte che ci è data conoscere, inizia proprio nella capitale: a undici anni è talmente più forte degli altri ragazzini che viene mobilitato un ex calciatore del River Plate e della Selección, Juanjo Borrelli, per visionarlo e portarlo alla Banda. La naturalezza con cui tocca il pallone mentre passa in mezzo agli uomini e i suoi lineamenti che anche oggi, dopo nove anni di professionismo e consacrazioni posticipate, hanno ancora un’aria adolescenziale, ci rendono molto semplice immaginarlo a quell’età. I provini vanno bene, ma l’Argentina è troppo grossa e Joaquín è ancora troppo piccolo per reggere i milleduecento chilometri di distanza che separano Baires da casa sua. Per la prima volta nella sua carriera – e sarà questa, alla fine, la cifra di tutto il suo percorso – prenderà la strada più lunga: prima torna a Tucumán, poi al Renato Cesarini di Rosario, e infine, quando il momento è arrivato, entra nel settore giovanile di un altro grande club della provincia di Buenos Aires, l’Estudiantes de La Plata.

Joaquín Correa è arrivato all’Inter a 27 anni, un’età in cui nei videogiochi manageriali, salvo qualche glitch, i calciatori non migliorano più. Nella realtà, che è fatta di contesti e non di algoritmi, molti giocatori come lui, con un talento enorme e non ancora del tutto espresso – Ilicic e Muriel, per esempio – hanno saputo aggiustare le loro contraddizioni e diventare più costanti, più determinanti, appena in tempo per sottrarsi a un destino da promessa incompiuta. Il Tucu, questo processo, lo ha già iniziato alla Lazio. L’ha iniziato con Simone Inzaghi, l’allenatore che ha lavorato su di lui per tre anni e che ha avuto un ruolo chiave nella sua evoluzione come calciatore, ma anche nella sua decisione di trasferirsi all’Inter.

Nelle sue prime partite da allenatore dei nerazzurri, Inzaghi ha dato l’impressione di avere in mente una squadra ambiziosa, per il modo in cui ha tenuto il baricentro alto, per l’aggressività con cui ha cercato di recuperare palla il prima possibile, e per come ha provato a sviluppare trame di possesso per vie diverse dai pattern del suo predecessore, Antonio Conte. Se il cambio di allenatore e le cessioni di Hakimi e Lukaku hanno spazzato via la forma granitica che l’Inter era riuscita a darsi nell’ultimo biennio, Inzaghi sembra aver già piantato i primi semi di un’incipiente identità. È ancora molto presto per trarre conclusioni, sia perché nel suo lustro a Roma l’allenatore emiliano ha dimostrato di saper utilizzare registri diversi – in cinque anni la sua Lazio è stata una squadra tanto a proprio agio ad attaccare in modo diretto quanto ad esaltare i suoi palleggiatori negli attacchi posizionali – sia perché un assetto simile, specialmente al momento di difendere in transizione, nelle ultime due stagioni ha dato l’impressione di non sposarsi bene con le caratteristiche dei giocatori nella rosa nerazzurra – e questa, al momento, è l’incognita più affascinante nel processo di sviluppo della squadra.

La certezza è che l’Inter è stata costretta a cambiare, e ha scelto di farlo conservando alcuni punti di continuità con il passato – la predilezione per un sistema a tre e la capacità di valorizzare giocatori adatti ad attaccare con molti spazi davanti. Allo stesso tempo, però, i nerazzurri hanno messo in conto di dover cambiare molti principi. Per esempio la coppia d’attacco composta da Lautaro Martínez e Romelu Lukaku, che era probabilmente il più grosso manifesto dell’Inter precedente: due giocatori poco complementari, specie per improvvisare e aprire i blocchi bassi, ma così intelligenti e determinati da lavorare fino a crearsi ugualmente un’intesa di ferro, perfetti per esaltarsi a vicenda in un sistema in grado di aprirsi gli spazi, fatto di sacrificio, di continua esecuzione, di duelli individuali ai limiti del titanico. Sopprimere questa coppia significava e significa pensare un’Inter diversa, meno proiettata sulle sue punte. E Joaquín Correa, in questo senso, sembra l’acquisto ideale per interpretare il momento di transizione che sta vivendo l’Inter. Il Tucu è un profilo tecnicamente opposto, chiaramente meno solido rispetto a chi lo ha preceduto, ma ha le caratteristiche giuste per rendere l’Inter una squadra più simile a come la sta pensando Inzaghi.

All’Estudiantes, Correa nasce trequartista. Si ritiene un enganche, quindi un collante tra centrocampo e attacco, anche se la sua qualità migliore non è la visione di gioco, ma la progressione palla al piede. Non è un caso che, in un Paese in cui la grande maggioranza dei giocatori che orbitano o hanno orbitato intorno a quella zona di campo – da Paredes a Dybala, passando per De Paul – eleggono come riferimento l’uomo che è l’idea platonica del numero dieci classico, vale a dire Juan Román Riquelme, Joaquín Correa si emozioni parlando di Kakà. La sua figura leggera sfiora il metro e novanta senza far sentire il peso dei chili, tocca palla in conduzione con una naturalezza particolare, che non perde armonia all’aumentare della velocità. Al Siviglia ha giocato praticamente in tutte le posizioni offensive, persino da nove puro, imponendosi nei suoi momenti migliori come un fattore disequilibrante – per quanto incostante – capace di far valere la propria tecnica in rapidità nel dribbling, nella giocata partendo dalla fascia, a prescindere da un sistema spesso non proprio organico.

I suoi momenti di splendore, abbaglianti ma tutto sommato effimeri, hanno illuminato un’esperienza complessivamente non all’altezza delle aspettative, in cui spesso si è ritrovato ai margini, depotenziato dagli infortuni, senza una cornice tattica che lo valorizzasse appieno, risucchiato nella spirale di talento del mercato bulimico degli andalusi. La mano di Simone Inzaghi, in questo senso, è stata decisiva per dare forma al suo talento: da primo cambio offensivo di una rosa corta, lo ha reso il tassello necessario per rendere la sua Lazio una squadra ancor meno diretta e più imprevedibile negli attacchi posizionali. Fino alla scorsa stagione, quando la Lazio era in possesso, Correa tendeva a ricevere in posizione accentrata, rimanendo sganciato in avanti nella zona di Immobile. La densità dei biancocelesti per vie centrali alimentava triangoli nello stretto tra i suoi giocatori più tecnici, a cui il Tucu partecipava sempre attivamente.

In questi due minuti e mezzo abbondanti ci sono un po’ di azioni belle di Joaquín Correa, tra cui anche i due gol segnati al Verona in occasione del suo esordio con la maglia del’Inter

All’Inter, il suo compito sarà molto simile: pur senza essere il tipo di talento che apre sentieri nascosti nel buio, è un giocatore in grado di associarsi bene con i compagni. Difficilmente inventerà i passaggi che fino allo scorso anno raccoglieva dai piedi di Luis Alberto, ma sicuramente aggiungerà precisione e rapidità nello stretto. L’Inter di Conte, infatti, ha saputo ovviare alla mancanza di imprevedibilità a difesa schierata, all’assenza di un rifinitore e/o di giocatori in grado di associarsi in spazi stretti – insomma, le uniche due controindicazioni della Lu-La – con la sua corazza di codici e meccanismi consolidati. Ora, in una squadra costruita su presupposti diversi, un elemento come Correa, tecnicamente pulito e abilissimo nell’alimentare l’azione offensiva e trovare i compagni smarcati, potrà contribuire al gioco in modo differente.

Grazie a Inzaghi, il Tucu ha aggiunto al suo bagaglio – fatto di progressioni, pause, fraseggi e dribbling – un’ulteriore dimensione: sfrutta al massimo i suoi movimenti senza palla, trasformandolo così da jolly offensivo, con l’unico vero compito di creare disordine, in una seconda punta piuttosto completa. Negli anni, Correa è diventato un giocatore molto intelligente nell’atto di attaccare la profondità e a farsi trovare sempre al posto giusto, anche nella fase risolutiva dell’azione. Pur non disponendo di un centrocampista creativo del livello di Luis Alberto, l’Inter ha diverse armi per stimolare questa sua dote senza palla, dalla verticalità istintiva di Çalhanoğlu fino al mancino di Bastoni, sempre più coinvolto offensivamente. Davanti può essere innescato da due rifinitori come Džeko e Sánchez, ma anche sviluppare connessioni più brevi nello stretto con Lautaro.

Le ragioni per cui Simone Inzaghi ha insistito per riavere il Tucu non sono difficili da intuire: voleva un giocatore in grado di interpretare al meglio i vari registri del suo calcio, aveva e ha la convinzione che il suo contributo al gioco – al di là delle sue intuizioni estemporanee – saprà tamponare almeno in parte la perdita del giocatore più incisivo della squadra, sotto porta e non. Proprio la finalizzazione è l’ambito in cui Correa dovrebbe migliorare per fare il salto definitivo: la conclusione in porta è un fondamentale che sembra sempre sporcato dalla sua istintività, nonostante ami ribadire dopo i gol – quasi tutti meravigliosi, perché paradossalmente la sua tecnica di tiro da media distanza è strepitosa – di avere il ghiaccio nelle vene. Da questo punto di vista, Correa può ancora crescere tanto, come sta facendo in moltissimi aspetti del suo gioco da quando ha incrociato il suo attuale allenatore. L’Inter ha bisogno della sua miglior versione per rimanere competitiva. Ma soprattutto ha bisogno di lui per diventare davvero una squadra di Inzaghi.