La Serie A e la fretta di stravolgere tutto

Uno dei vecchi difetti del calcio italiano, di quelli duri a morire: sacrificare la progettualità in nome del tutto e subito.

Dopo tre partite di campionato, due squadre in Serie A hanno deciso di cambiare allenatore. Il Cagliari si è privato di Semplici, il Verona ha chiuso con Di Francesco. Tre partite sono un tredicesimo di torneo, ma evidentemente già sufficienti per farsi assalire dalla paura di rimanere sul fondo della classifica. Il Verona è ultimo, a zero punti, il Cagliari ne ha uno solo in più, frutto del pareggio conquistato alla prima giornata contro lo Spezia. Ci sono ancora 105 punti in palio da qui a fine stagione: di fronte al timore di aver intrapreso la strada sbagliata, però, questi calcoli passano in secondo piano.

In queste situazioni chi fa la figura peggiore? L’allenatore esonerato o la società? Si può sottolineare quanto si vuole il fatto che Di Francesco non vinca una partita in Serie A dal 7 novembre 2020 (da lì in poi una striscia di 19 panchine senza successi), ma il problema non sta nei numeri né nei curriculum, quanto nel concepimento di un progetto: si affida una squadra a un allenatore perché lo si ritiene l’uomo giusto per rendere concreti i piani sviluppati da una società. Se un tecnico viene sollevato dopo duecentosettanta minuti, vuol dire che l’errore è della dirigenza: l’errore, cioè, di non aver saputo scegliere l’uomo giusto.

È curioso vedere come in una società di calcio risaltino le stesse dinamiche che possono accompagnare una storia d’amore tribolata: le perplessità, i timori, la preoccupazione di non poter essere felici con il proprio partner. Difficile però che una storia possa interrompersi dopo tre settimane, foss’anche in regime di reciproca diffidenza: nel calcio, soprattutto in quello italiano, succede invece esattamente questo. Chi può dire oggi, con assoluta certezza, che Di Francesco non fosse l’allenatore giusto per il Verona? O che Semplici non potesse proseguire felicemente la sua esperienza alla guida del Cagliari, dopo i 22 punti in 15 partite raccolti lo scorso anno? Siamo solamente a metà settembre, non possono esserci risposte certe a queste domande.

Il calcio nel 2021 si poggia su strategie e pianificazioni: nulla può essere lasciato al caso perché le società sono equiparabili ad aziende, dove è fondamentale impostare un business plan ed eseguire tutto quello che è in potere perché abbia successo. Eppure, succede ancora che decisioni della massima importanza vengano prese in una manciata di minuti: tutto il lavoro portato avanti per mesi può essere sovvertito sulla base di un’inquietudine di fondo.

La rappresentazione più plastica – e più abusata nel calcio italiano – è proprio l’avvicendamento di un allenatore, ma il discorso non si limita a Cagliari o Verona, e nemmeno alla scelta di cambiare guida tecnica: è un vecchio difetto del calcio italiano quello di contraddirsi in continuazione, di sacrificare un progetto sull’altare del dio risultato. Succede a tutti i livelli, dalla Serie A alle leghe semi-professionistiche, succede pure alle società che per anni sono state prese a modello di buona governance, come la Juventus: ha mandato via Allegri salvo poi richiamarlo due anni dopo, in cui ha intrapreso una (doppia) strada senza mai aspettare di vedere cosa ci fosse alla fine.

Succede con gli allenatori, ma pure con i calciatori, con i dirigenti, con lo staff: al calcio italiano manca la pazienza, la capacità di aspettare che quanto seminato possa essere raccolto. Le rivoluzioni non hanno mai portato granché di positivo, piuttosto assomigliano alla condanna di Sisifo, costretto a ricominciare tutto da capo. Ed è una virtù, la pazienza, che bisogna far propria al più presto: il nostro calcio non può competere sullo stesso terreno delle società più ricche, e allora servono le idee, le intuizioni, soprattutto la capacità di convogliarle in progetti a lungo termine che durino nel tempo.