I meriti di Spalletti nel primo posto del Napoli

La squadra azzurra non ha cambiato niente sul mercato, ma è cambiata tantissimo dal punto di vista tattico ed emotivo.

Quando si parla di calcio, soprattutto di calcio ai massimi livelli, si tende sempre a parlare degli allenatori in maniera esagerata: ne viene mistificata la figura, si ingigantisce il loro impatto, ci si dimentica che la gestione – tattica, manageriale, emotiva – di una squadra può anche essere perfetta, ma poi l’unico riscontro vero, l’unico che conta, è quello del campo. E in campo ci vanno i calciatori, ovvero degli esseri umani come tutti gli altri, con i loro pregi e i loro difetti, con i loro momenti buoni e i loro blackout. Con le loro preferenze anche in fatto di allenatori, perché magari non si può dire e non ce lo diranno mai, ma è certo che ogni giocatore abbia un allenatore preferito, un tecnico del cuore, quello che è riuscito a farlo rendere al meglio, a stimolarlo o a parlarci nel modo giusto.

Poi però ci sono diversi casi che ribaltano questa teoria piuttosto lineare, casi in cui un allenatore riesce a cambiare il destino di una squadra dal giorno alla notte. Ecco, il Napoli di Spalletti è uno di questi casi particolari, estremi, anche un po’ romantici se vogliamo. È una questione di risultati ma soprattutto di sensazioni: per esempio, quanti siamo/sono a ricordare che anche il Napoli di Gattuso, più o meno un anno fa, aveva vinto le prime quattro partite giocate in campionato? Certo, al terzo turno c’èra stato il pasticcio – logistico, legislativo, politico – relativo alla gara non disputata contro la Juventus, quindi la classifica della Serie A 2020/21 è sempre stata un po’ annacquata dagli asterischi e il Napoli non è mai andato effettivamente in testa. Però resta il fatto che quella squadra generò gli stessi risultati ma non lo stesso entusiasmo, se non per il 4-1 rifilato all’Atalanta subito dopo la prima sosta per le Nazionali.

Ecco, la prima differenza è questa: il Napoli di Spalletti è una squadra che ha cambiato registro emotivo, che sembra entusiasta e genera entusiasmo. Che ha battuto la Juventus e ha pareggiato con il Leicester con due rimonte di sostanza, che ha vinto col Venezia pur giocando in dieci uomini – e senza il miglior giocatore dell’organico – per 70 minuti, che ha sconfitto il Genoa con un gol nel finale, che è andata a Udine e ha dominato la miglior Udinese degli ultimi anni con un’autorità sorprendente. Certo, in questa cronologia di avversità superate pesa sicuramente il ritorno dei tifosi negli stadi, non solo al Diego Armando Maradona – per questioni socio-economiche il Napoli gioca in trasferta solo sulla carta, anche ieri sera alla Dacia Arena sembrava di essere in campo neutro. Ma proprio perché stiamo parlando di calcio ai massimi livelli, è ingrato – e anche un po’ retorico – far risalire tutto a ciò che succede sugli spalti: la verità è che il Napoli di Spalletti ha già imparato a gestire molti tipi di emozione, molti tipi di situazioni, perché è una squadra d’esperienza (la rosa ha un’età media di 27,5 anni, la seconda più elevata in Serie A dopo quella dell’Inter) e di qualità, e oggi è guidata in maniera solida dalla panchina.

No, non stiamo cadendo di nuovo nel tranello, non stiamo ingigantendo la figura dell’allenatore. In questo caso l’impatto di Spalletti è un’evidenza scientifica a cui si arriva per deduzione logica: il Napoli 2021/22 è del tutto identico al Napoli 2020/21, De Laurentiis e Giuntoli hanno operato un solo cambio sul mercato dei giocatori – Anguissa al posto di Bakayoko – e poi hanno nominato un nuovo tecnico. A chi segue le partite, poi, la differenza appare netta: fin da quando è arrivato il nuovo allenatore, il Napoli ha smesso di essere una squadra monolitica nello schieramento – il 4-3-3 del 2019/20 e il 4-2-3-1 del 2020/21 sono stati alternati nel corso delle prime cinque partite del 2021/22, e non sono mancati esperimenti di difesa a tre in fase di costruzione, di moduli fluidi con Elmas a galleggiare tra centrocampo e trequarti – ma anche nella proposta di gioco, che non si basa più solo su alcuni concetti come la costruzione bassa e l’utilizzo di catene laterali o il lancio per Osimhen, ma esplora anche strade alternative, miste. Ieri a Udine, per esempio, è stato proprio Spalletti a spiegare che il possesso palla esasperato dei quattro difensori e Ospina sarebbe servito «per chiamare il pressing avversario e accendere grandi vampate offensive». È andata proprio in questo modo:

Un’azione che si è vista più volte nel corso di Udinese-Napoli

Con questa varietà di approcci e stili e possibilità, il Napoli dà la possibilità a tanti giocatori di mostrare il meglio di sé. Certo, questo non avviene contemporaneamente per tutti gli undici titolari, come avveniva per esempio nel Napoli-di-Sarri: cinque o sei anni fa la rosa era stata costruita – da Benítez – e poi integrata con dei calciatori dalle caratteristiche comuni per non dire similari, tutti amavano muoversi e giocare e pensare allo stesso modo, e Sarri è stato bravissimo a intercettare questo bisogno e a tradurlo nel sistema di gioco che sembrava dover appartenere al Napoli per sempre. Solo che da allora le cose sono cambiate, gli uomini sono cambiati perché alcuni di loro sono andati via, e allora l’unico modo per far rendere una rosa diventata ibrida era trovare un allenatore in grado di manipolare costantemente gli uomini e le idee sul campo, di farlo con continuità, intelligenza, autorità. Carlo Ancelotti ci ha provato, a suo tempo, ma forse non era ancora il tempo giusto. E anche lui avrà sicuramente commesso degli errori.

E allora serviva un allenatore come Luciano Spalletti, tecnico e uomo storicamente in grado di adattarsi a modo suo alle tempeste, di portare avanti il suo progetto fino a snaturarsi, a volte anche a spezzarsi. Tutto partendo dal campo e da un’idea tattica – non sempre la stessa – sul come condurre e gestire la squadra, sul come far rendere singoli e collettivo secondo regole e codici ben precisi. Solo il tempo confermerà definitivamente se questa è la strada giusta per vincere un trofeo importante, oppure per recuperare semplicemente la Champions League, forse potrebbe essere anche quella sbagliata, chissà. Le premesse, però, sembrano proprio quelle giuste, ed è una sensazione sempre più viva, sempre più forte, dal punto di vista tecnico ma anche emotivo. Non succedeva da tempo, a un Napoli che sembrava fosse irreversibilmente impantanato nella nostalgia. Anche questo è un segnale importante, e va tutto ascritto all’arrivo, al lavoro dell’allenatore. In questo caso no, non è un’esagerazione.