Lo spettacolare e tristissimo fallimento di James Rodríguez

Sembrava destinato a essere uno dei giocatori più forti del mondo, ma a trent'anni la sua carriera ad alto livello è già finita. Cos'è andato storto?

James Rodríguez ha lasciato l’Everton e si è unito all’Al Rayyan, una squadra qatariota, senza aver disputato una sola partita davanti ai tifosi di Goodison Park. I fan dell’Everton, dunque, non hanno potuto ammirare neanche una volta, neanche per pochi minuti, il giocatore più forte e famoso che abbia vestito la maglia dei Tooffes negli ultimi venti o anche trent’anni. Per loro sarà un grande rimpianto: se fossero riusciti a gustarsi dal vivo il suo talento luccicante, un dribbling nello stretto, un lancio a tagliare il campo, un assist geniale, una conclusione a sorpresa di James, forse avrebbero avuto finalmente qualcosa da celebrare, si sarebbero sentiti appagati, almeno per qualche istante. E invece niente: dopo la partenza di Ancelotti e l’assunzione – a dir poco indesiderato – di Rafa Benítez, una leggenda del Liverpool, è arrivato anche l’addio in contumacia di James: evidentemente il dolore, la disillusione e la delusione sono sentimenti connaturati all’esistenza stessa dell’Everton, al fatto di avere o di aver scelto l’Everton come squadra del cuore.

E pensare che un anno fa, più o meno, tutto era iniziato con dei presupposti molto differenti: alla fine dell’estate 2020, Carlo Ancelotti riuscì a portare James a Goodison Park, strappandolo praticamente a costo zero al Real Madrid; dopo il trasferimento, James confessò – tra le righe e non solo tra le righe, come racconta questo articolo di The Athletic – di aver scelto l’Everton proprio per riunirsi con l’allenatore che l’aveva apprezzato e che aveva apprezzato di più nella sua carriera, e forse anche per questo l’inizio fu sfolgorante: l’Everton vinse quattro delle prime cinque partite di Premier League, James segnò due volte e servì tre assist, ma soprattutto comandava e rendeva brillante il gioco offensivo della sua squadra, ondeggiava come un ciondolo prezioso tra le linee avversarie, non era velocissimo ma era troppo tecnico e troppo intelligente perché gli avversari potessero leggere il suo gioco e quindi anticiparlo, oppure fermarlo. Questa magia, però, è durata pochissimo: un infortunio all’inguine, uno al polpaccio, continue ricadute e stop alle trasmissioni fino al termine della stagione. Score complessivo: 21 gare da titolare, sei gol e cinque assist, con l’Everton all’ottavo posto in classifica. Il rendimento di James all’Everton, giusto per rendere tutto ancora più amaro, è stato perfettamente in linea con quello tenuto nelle ultime tre stagioni prima del trasferimento in Inghilterra: 58 partite da titolare e 16 gol tra Bayern Monaco e Real Madrid.

Le storie beffarde da raccontare sono due, e sono ovviamente concatenate: la prima riguarda proprio l’Everton, i suoi disperati tentativi di liberarsi di James per tutta l’estate 2021, il sollievo provato nel momento in cui il trequartista colombiano ha trovato asilo in Qatar, cancellando dal bilancio il peso enorme del suo stipendio (oltre 200mila sterline ogni settimana, secondo diverse fonti). Interrogato sulle circostanze che hanno portato all’addio di James, Rafa Benítez si è espresso in maniera estremamente chiara, lapidaria, forse anche troppo dura: «L’Everton sta vivendo un periodo molto difficile dal punto di vista finanziario. E in questo discorso c’entra anche James, la cui situazione è complicata ma anche semplice da spiegare: la Premier League e l’Everton richiedono intensità dal primo all’ultimo minuto di tutte le gare, e quindi un giocatore che può essere disponibile solamente per il 50% delle partite non è facile da gestire».

La seconda sottotrama, quella più significativa dal punto di vista storico-calcistico, è il fallimento ormai certificato, quasi sicuramente irreversibile, di un giocatore che sembrava destinato a diventare un fuoriclasse, a segnare un’epoca, e che invece era ed è rimasto prigioniero di scelte contraddittorie, di una serie impressionante di incrinature ed eventi sfortunati, di un rendimento troppo intermittente. Secondo Jonathan Liew del Guardian, «l’arrivo di James all’Everton è sempre stato un errore, un tentativo romantico di cambiare la storia che si è scontrato con l’atavica incostanza del giocatore, e poi con il ridimensionamento economico del club». Per Thomas Ley, ex redattore di Deadspin e oggi anima di The Defector, il problema è stato di campo, ma soprattutto di tempismo: «James, all’Everton, si è ritrovato a passare da Ancelotti a Benítez, ovvero un tecnico con cui non è mai andato d’accordo. È così che è finito in quella che possiamo definire la Mesut Özil Zone, uno sorta di limbo riservato ai giocatori tecnici, eccentrici, che guadagnano molto e su cui l’allenatore di turno non ha intenzione di puntare». Anche nei rapporti interpersonali le cose non sono andate benissimo: mentre James era fuori e/o giocava poco e male per via dei suoi cronici infortuni, sono nate diverse frizioni in seno alla squadra, alcuni giocatori della rosa non apprezzavano l’eccessiva libertà concessa al colombiano da Ancelotti – in campo e fuori – e si sono lamentati anche del suo scarso ritmo, in allenamento ma anche durante le partite. Insomma, per dirla con una frase che sembra imbevuta di retorica ma in realtà non lo è, non in questo caso: il talento, a volte, può non bastare. Neppure quello enorme, sconfinato, di James Rodríguez.

Il talento di James non è bastato neanche all’Everton, in quella che in teoria era – ed è – una squadra che genera meno pressioni rispetto a un Real Madrid, a un Bayern Monaco, società in cui qualsiasi tipo di mancanza o indolenza, anche quelle involontarie, non possono esistere, figuriamoci se possono essere tollerate. Ecco, in questi club così grandi James è apparso come una cometa: è sfilato per alcuni istanti indimenticabili, esplosioni meravigliose di luce, poi è praticamente scomparso, lasciando lunghe scie di nostalgia e rimpianti. Ma almeno aveva la giustificazione di essere solo una delle stelle presenti in rosa, non l’attrazione numero uno, il giocatore-franchigia – per usare una dicitura tipica degli sport americani. All’Everton, in un contesto inevitabilmente meno esigente, si pensava – si sperava – che potesse tornare a splendere in maniera più costante e più continua, per un tempo più lungo, magari stuzzicato dal fatto che fosse l’unico a poterlo fare davvero, quantomeno ai massimi livelli. Era un’ipotesi percorribile, una possibilità concreta, dopotutto James ha compiuto trent’anni solo poche settimane fa, quindi un anno fa ne aveva appena 29. E invece la storia non è cambiata, anzi si è ripetuta uguale a se stessa.

James Rodríguez ha esordito nel 2011 con la Nazionale maggiore della Colombia: da allora, ha accumulato 80 presenze e 23 gol (Dean Mouhtaropoulos/Getty Images)

L’esperienza all’Everton, seppur breve e ovviamente diversa da tutte le altre, si può facilmente sovrapporre all’intera carriera di James. E il vero problema è che, per l’ennesima volta, non si riesce a capire cosa sia andato veramente storto: la vicenda umana e professionale di James Rodríguez è sempre stata apparentemente perfetta, il colombiano era – ed è – un calciatore bellissimo da veder giocare, un’icona glamour anche fuori dal campo, un professionista dall’immagine positiva e inattaccabile, è stato un ragazzo simpatico e poi è diventato un uomo amato da tutti nonostante fosse gestito da Jorge Mendes. Forse non è riuscito a reggere le aspettative e le responsabilità che derivano da un talento enorme come il suo, forse è stato davvero sfortunato, nel senso che si è fatto male in diversi momenti chiave e poi ha iniziato il suo declino proprio mentre il calcio europeo stava entrando in un periodo di profonda recessione, così è rimasto prigioniero del suo ingaggio e del suo passato, nel senso che non ha potuto avere un’altra possibilità in un club importante – quante società avrebbero potuto sostenere il suo stipendio nell’era post-pandemia? – e ha dovuto anticipare il trasferimento in Qatar per non dover ridimensionare troppo il suo status economico.

Oppure, molto più semplicemente, la sua storia è quella eterna di tanti fuoriclasse che devono esplodere e poi non riescono a farlo davvero, di campioni che sembravano invincibili e poi invece si sono rivelati un po’ più deboli e un po’ più umani di quello che ci aspettavamo, che si sono fatti frenare da una scelta sbagliata sul mercato, dalle loro fragilità fisiche e/o mentali, che non hanno saputo valorizzare il dono del loro talento e quindi non sono riusciti a mostrarlo compitamente se non per alcuni momenti, per alcuni mesi o alcuni anni, poi si sono affievoliti e infine si sono spenti. Forse è esagerato e ingeneroso dire che James Rodríguez abbia fallito, come calciatore: dopotutto per un certo periodo è stato così forte e decisivo da farci credere che il suo culto di bellezza e normalità potesse affiancarsi alla continuità celestiale di Messi, al dominio robotico di Cristiano Ronaldo, non proprio una cosa da tutti. Purtroppo non è andata così, e forse è proprio la memoria di quegli sprazzi di bellezza assoluta a renderci così tristi e severi con James, a farci credere che invece sia giusto parlare di fallimento: ne avremmo voluti ancora, sarebbe stato uno spettacolo fantastico e invece da ora in poi ci dovremo accontentare dei ricordi, dei rimpianti per ciò che poteva essere e che non è stato, non fino in fondo.