Giampiero Galeazzi era un passo avanti a tutti

Per anni è stato il simbolo del giornalismo sportivo italiano, con modalità di racconto tutte sue, innovative, dirette.

Senza Galeazzi, gli Abbagnale sarebbero stati gli Abbagnale? Il dibattito è aperto e i puristi non storcano il naso. Il medagliere sarebbe stato lo stesso ma una cosa è vincere due ori olimpici consecutivi (e perdere il terzo all’ultimo metro). E un’altra è diventare icone pop, simboli dello sport italiano, ambasciatori del valore della fatica, della possibilità di primeggiare e riscattarsi attraverso il lavoro. Chi ha reso possibile l’extra medagliere sono stati Giampiero Galeazzi e le sue telecronache che definire accorate è un eufemismo. Telecronache che univano tutto: tecnica, aveva praticato il canottaggio ad alti livelli, sociologia, tempi cinematografici, una spruzzata di retorica. Quella voce roca che scandiva i colpi al minuto, che non ha mai sminuito il ruolo di Peppiniello Di Capua, che gridava talmente forte da catturare l’attenzione anche di chi a casa non stava seguendo. “Se grida così, vuol dire che è una cosa importante”. Aveva l’arte – professionalità è riduttivo – di tenerti incollato alla tv per duemila metri di canottaggio o mille di canoa. E alla fine si era felici per gli Abbagnale, per Antonio Rossi e sollevati per lui che non si era sentito male.

«Nasco e muoio telecronista», aveva detto alla Gazzetta dello Sport in una delle sue ultime interviste. Era letteralmente figlio di un’altra epoca. Di un altro modo di fare giornalismo e, come si dice oggi, di narrazione dello sport. Il suo era un racconto fisico. Spalla a spalla con i protagonisti. Li toccava, dava l’impressione di conoscerli da sempre, li faceva entrare nelle case. Era come se li intervistasse in vestaglia, come se stessero prendendo un caffè, senza dar loro la chance di cavarsela con l’ipocrisia. Ne tirava fuori sempre l’aspetto umano. Si inventò le interviste prima e persino durante la partita. Non la fiera delle banalità di oggi. L’almanacco delle frasi fatte non era così diffuso. Era un altro mondo. Non c’era Internet, la tv era più o meno la verità. Figurarsi la Rai. Lui arrivava e ti travolgeva, senza mancarti di rispetto. Ma andava dritto al cuore della questione. Giornalisticamente, non era tipo da preliminari.

Galeazzi non tornava mai a casa a mani vuote. La vecchia scuola di giornalismo, che poi in teoria dovrebbe essere eterna: “Porta qualcosa e andrai certamente in pagina o in video”. E la sua borsa era sempre stracolma. L’idea di far fare le interviste a Maradona dopo il primo scudetto, nello spogliatoio del Napoli, è oltre la genialità. È arte moderna. Duettava di fino con Dino Viola che era un po’ il Montale del calcio, si divertiva con Platini, non era mai deferente, nemmeno con l’Avvocato. Firmò le due interviste più incredibili a Liedholm e Bianchi, due taciturni che avevano appena vinto lo scudetto con la Roma e col Napoli. Li prendeva sotto braccio e non li mollava. I cartelloni fissi con gli sponsor non c’erano, e nemmeno gli obblighi della Lega. Era all’amatriciana, possiamo dire. Un’amatriciana sopraffina. All’epoca le statistiche e la tattica non si sapeva neanche cosa fossero. Qualcosina, un minimo, cambiò con Sacchi. Anche lui fìnì sottobraccio con Galeazzi dopo la vittoria decisiva in casa del Napoli di Maradona. Era la concretizzazione del “fatece largo che passamo noi”. Un tempo funzionava così. Un microfono, la telecamera al seguito (senza dimenticare il tecnico col faretto), una buona dose di improntitudine, la scritta Rai, e non c’era porta che rimanesse chiusa. Nemmeno quella degli arbitri.

Galeazzi era Galeazzi. Non cambiò nemmeno nel tempio dei perfettini: il tennis. Rimase fedele al proprio schema. Su Youtube si trova la sua intervista a Panatta al termine della finale del 1976 vinta a Roma. Lui e Guido Oddo erano il giorno e la notte. Oddo era la sobrietà fatta persona, le sue telecronache erano anglosassoni. Galeazzi rese indimenticabili le partite di Paolo Canè tennista dall’equilibrio psicologico a dir poco instabile. Si inventò il turborovescio. Con lui Becker divenne per sempre bum bum, facendo storcere il naso a puristi eccellenti che gli contestavano questa immagine di sola potenza per un tennista dalla immensa classe. Sottigliezze. Cosa sarebbero state le sue telecronache di Alberto Tomba. Ma lo sci non gli toccava.

«Tutto quanto fa spettacolo», era lo slogan di Odeon una nota trasmissione tv degli anni Settanta. Una definizione perfetta per Galeazzi. Che fu il primo, e per certi versi l’unico, a rendere le telecronache uno show, a far appassionare a quegli eventi anche i non appassionati. Allargò la platea. La rese non più una esclusiva di maschi e competenti. Se ne accorse Mara Venier che nel 1994 lo volle con sé a Domenica In. Apriti cielo. Aveva violato la sacralità del giornalismo. Gli fecero la guerra, la persero. Non lo sapeva, forse, ma viaggiava con vent’anni d’anticipo. Dopo, è stato tutto un provare a imitarlo. Anche e soprattutto nell’enfasi della telecronaca. E lui, sempre in quella intervista, ci tenne a puntualizzare: «Sì, ma Galeazzi urlava per una finale olimpica o mondiale. Adesso si urla anche per un gol in una partitella di quartiere».