Valentino Rossi, uno show esagerato

Come si trasforma lo sport in spettacolo? Con ironia e teatralità. Vale l’ha fatto. Un estratto di Valentino Rossi, il tiranno gentile, edito da 66thand2nd.

Come tutti i ragazzi di provincia sa che il mondo si aspetta ogni volta d’essere stupito. Le sue sceneggiate colossali post-gara sono una continuazione della corsa con altri mezzi. Siccome stravinceva, di conseguenza strafaceva anche dopo. Non sarebbe bastato salire come tutti sul podio e innaffiare la miss di turno con lo champagne. No, Valentino, ne ha fatto uno stile. È un avanguardista goliardico, un surrealista post-motociclista, unisce Walter Chiari e Ugo Tognazzi, spettacolarizzando lo sport. Prima per caso, come salire su un palco a raccontar la barzelletta che si racconta agli amici al bar, la bambola gonfiabile, poi diventa lo svitato che non solo ha dominato la gara ma si occupa anche del dopo. La festa diventa festa davvero, animata con l’eco di quello che è successo in gara, c’è il fil rouge, con naturalezza, tra amici.

Gibernau lo fa partire dall’ultima fila per via della pulizia della griglia? E lui al gran premio dopo s’inventa la ditta di pulizie con lo scopettone. Va troppo forte al Mugello per troppi anni di seguito? Giù i vigili a multarlo. Sette vittorie? Sette nani. Si sente vecchio? Casco col viagra. Vince in Argentina: maglia di Maradona. Arriva tardi al titolo? Giù magliette «Scusate il ritardo», come quelle della «Polleria Osvaldo» con i giornalisti della Rai che vanno a cercare l’inesistente Osvaldo. Siamo ad Amici miei. Come la storia dell’inginocchiarsi davanti alla moto prima di salirci: giù servizi sulla divinizzazione della moto, il paganesimo, e poi lui svela come un Tognazzi o un Chiari che no, non è una preghiera: non aveva la tuta su misura e quando partiva gli dava fastidio. Quindi faceva quel piegamento per metterla a posto nelle ginocchia e all’altezza del culo.

E ride. E poi continua con le pubblicità. In una si dichiara fan di Max Biaggi: una vera supercazzola. Gioca col Cepu, per via della laurea honoris causa in comunicazione – l’unica laurea honoris giusta in Italia –, promuove di tutto anche all’estero, sempre stando sul filo della goliardia, prendendosi in giro, come imperativo. È un creativo che non si accontenta solo di correre, vuole giocare, e dire che è tutto un gioco, e proprio per questo serissimo, rigido, inflessibile durante la gara, poi dopo liberi tutti. Questa energia che si esplicita dopo le vittorie, a sottolineare i momenti cruciali, non è poi così diversa dall’arte acclamatissima di Maurizio Cattelan, entrambi portano i loro mondi fuori dalle ingessature, anche se si tratta di mondi già esagerati, movimentati dalla loro irresponsabilità. Decostruiscono i codici che si sono affermati, scrivendone dei nuovi, tanto che quelli che vengono dopo devono adeguarsi. È una trappola per appropriarsi di tutto.

A Valentino non basta il dinamismo del suo sport, vuole dinamizzare anche il dopo, e il dopo ancora: la vita, per questo continua, si allarga, in una visione ludica che scavalca anche le canzoni del suo Vasco Rossi, che pure è la colonna sonora fissa delle sue giornate. C’è dentro il pavoneggiamento, e il lavoro psichico sugli avversari, li surclassa in pista e poi assedia il loro tempo successivo, li fa sentire accerchiati. Man mano che avanza la sua carriera si complicano le sceneggiate, da semplice Robin Hood arriva a portarsi un pollo gigante in moto, dove c’era stata la bambola arriverà un numero uno enorme, ospiti che riscrivono l’immaginario del tifoso, e che fanno sentire gli altri degli sfigati quando vincono, perché dovrebbero andare oltre la loro natura e quando ci vanno risultano ridicoli. Valentino no, mai, è un uomo di avanspettacolo, sarebbe stato bello vederlo con Monica Vitti o con Anna Magnani, ballare dopo aver vinto una gara, vestiti da hawaiani. Se invece uno pensa oggi a Lorenzo, a Márquez, o ieri a Biaggi, non li immagina. Mentre Valentino è nella sua essenza. La carica istintiva della sua ironia, la predisposizione a farne scena, lo portano lontano dai piloti comuni. Il suo surrealismo gli fa tenere le moto in casa come trofei o sculture, tra salotto-cucina-cameradaletto, in una riscrittura anche degli spazi e prima dei sentimenti. Perché non si accontenta mai. Ha sovrascritto le sue moto, con i nomi e i soprannomi, gli adesivi e poi le imprese. Ha sovrascritto il suo corpo con la tartaruga ninja – che si portava appiccicata sul casco – tatuandosela; poi ha riscritto la sua tuta da corsa con il simbolo del sole e della luna, in una ambiguità che ricorda il soldato Joker di Full Metal Jacket capace di sparare al nemico avendo il simbolo della Pace sull’elmetto, capace di far convivere le due anime in quello che per brevità chiamiamo genere umano.

Si è scelto i suoi colori come se fosse una nazione, il giallo, prevalente, e il blu, come sfondo. Si è fissato il numero 46 è l’ha giocato per sempre alla roulette delle corse e poi ci si è vestito. Ha usato la sua testa – intesa come quella che infila nel casco – come un videoclip continuo: scarabocchiandoci sopra la sua vita, tanto che si potrebbero seguire le sue evoluzioni guardando i suoi caschi e prima le sue pettinature, poi ha scelto la sobrietà. Tutti gli altri piloti, e anche Rossi all’inizio, fanno pensare alla preparazione dei pugili o alla vestizione dei toreri, e ormai con la boxe divenuta un programma notturno dei palinsesti e con le corride dismesse, il motociclismo rimane l’ultimo rifugio per gli hemingwayani; ma poi Valentino è finito ad assomigliare ai cartoni animati che guardava, quei Mazinga Z e Goldrake che lo avevano nutrito, risultando un incrocio tra Ryo Kabuto e Actarus, dando una biografia anche ai suoi accessori oltre che alle sue moto.

In pratica crea un immaginario nuovo all’interno delle corse, un po’ pesca dalle intuizioni dei piloti giapponesi e americani e un po’ ci mette del suo: allargandolo allo stupore delle notti di provincia, porta il mondo sulla Riviera adriatica dicendo: Vedi, ci si può anche divertire, senza smettere di correre. È la stessa operazione che fa Federico Fellini al leggendario Teatro 5 di Cinecittà. Funziona così: Ho perso il mio mondo per via del mio successo, e allora ricreo quel mondo all’interno del mio successo.

Un estratto dal libro Valentino Rossi, il tiranno gentile, di Marco Ciriello, edito da 66thand2nd