Alexander Zverev è pronto per l’ultimo step?

Ha potenza, estro, sensibilità nei colpi. C’è solo una cosa che ancora insegue disperatamente: l’affermazione in uno Slam. Il 2021 è stato un anno grande ma anche difficile, ora sembra pronto per la consacrazione definitiva.

Il piano B era già stato definito, Abercrombie and Fitch. Una carriera da modello. Se col tennis avesse continuato a spaccare troppe racchette e a vincere troppo poco, il ragazzo aveva il fisico e gli occhi chiari per non dovere imparare l’arte di arrangiarsi tra circuiti e circoli minori come molti dei suoi colleghi che hanno dato al tennis molto più di quanto abbiano ricevuto. Figlio di tennisti professionisti emigrati dall’ex Unione Sovietica alla Germania, Alexander Zverev è nato una domenica di primavera, il 20 aprile 1997; fino al giorno prima sua mamma Irina ha continuato a scendere in campo ogni mattina per allenare Misha, il figlio maggiore.Il tennis è quasi sempre una questione (o un’ossessione?) di famiglia. Era il 2013 quando in casa Zverev si è capito che Alexander non sarebbe diventato un modello, che avrebbe avuto una carriera diversa da quella di suo fratello che, con un palmarès di un solo titolo vinto e più sconfitte che vittorie sulle spalle, ha comunque avuto il merito di introdurre il più giovane della dinastia nel professionismo, fargli da apripista, presentargli Roger Federer, Novak Djokovic, Rafa Nadal, prima idoli, poi avversari.

Aveva solo cinque anni la prima volta che vide Federer da vicino, giocarono a minitennis insieme, «continua così e diventerai molto forte» gli disse lo svizzero, «d’accordo, grazie» gli rispose il bambino, per niente lusingato dal complimento. Ed eccoli di nuovo insieme in campo, quindici anni dopo, per il primo scontro in carriera, al terzo turno degli Internazionali d’Italia, nel 2016. Federer in quel momento è un trentacinquenne stanco e con la schiena dolorante, è stato numero uno del mondo e ha smesso di esserlo, ha vinto tanto, sì, ma tanto tempo prima, la terra rossa sa come essere impietosa, l’anagrafe anche e quel giorno segna una differenza di età di sedici anni tra il più giovane e il più vecchio. Da diverso tempo qualcuno sta implorando lo svizzero di smettere di giocare. Zverev, al contrario, non ha nemmeno cominciato. È pronto, si vede, glielo mostra, si muove per il Centrale a testa alta, gli sbucano dalla maglietta grandi collane e muscoli scolpiti, due braccia e due gambe perfette, il tennis non è mai stato troppo generoso con i giocatori altri più di 1 metro e 90, il tedesco rappresenta un’eccezione, non è solo servizi a duecento chilometri orari e ace, corre per il campo senza impacci, il suo corpo non è una zavorra: è bellissimo essere un teenager.

È dal 2013 che lo chiamano il predestinato, quel pomeriggio perde in due set, ma il destino si sta compiendo, è arrivato il momento di trovargli un nuovo soprannome. Il ragazzo si farà, questo ormai si sa. Certo, deve crescere: è impulsivo e immaturo, gli capita ancora di considerare il tennis come una prova di potenza e nient’altro, uno sport in cui vince chi tira più forte, tutto dentro o tutto fuori, dove fuori significa palline scagliate contro il telone di fondo campo. A Roma, l’anno dopo, nel 2017, a vent’anni appena compiuti, conquista il primo Masters 1000 della carriera, in finale contro Novak Djokovic. È il più giovane a vincere questo titolo dai tempi del giocatore serbo. Benvenuta Next Gen, benvenuto tennis del futuro: dopo più di un decennio dominato dai fantastici quattro, dopo un elenco nemmeno troppo corto di nani vissuti e invecchiati prima del tempo sempre all’ombra dei giganti, campioncini umiliati e offesi dai Cannibali, nel 2017 ecco Alexander Zverev che dopo essere stato grande tra i piccoli (è stato numero uno al mondo nella classifica junior) ha l’opportunità di essere grande anche tra i grandi.

I puntini si uniscono, dopo Roma la top ten e infine il podio del ranking: diventa il numero tre al mondo, ancora una volta è il più giovane dai tempi di Djokovic. «Il ragazzo ha le palle», titola l’Economist in prima pagina: il tennis può essere uno sport da copertina anche senza i Fab Four. Cinque anni e cinque Masters 1000 vinti, diciassette trofei in totale, tra questi le ATP Finals di Londra nel 2018 e l’oro olimpico di Tokyo la scorsa estate, ma ancora nessuno Slam, la consacrazione definitiva. Agli Us Open del 2020, dentro a uno stadio svuotato dalla pandemia, contro Dominic Thiem, gli mancano due punti soltanto per diventare il campione di New York. Dopo essere stato in vantaggio due set a zero, Thiem riesce a rimontare e a portare la partita al quinto set: ai meriti dell’austriaco si uniscono le colpe del tedesco che per tre ore e 15 minuti è sempre in vantaggio sull’avversario. Sul 5 a 4 è 30 pari, nessuno dei due giocatori è più cosciente di quello che sta facendo. Non è più tennis, è istinto, incoscienza, paura, tirare la palla oltre la rete e desiderare che non torni più indietro. Ecco ciò che fanno i giocatori durante un match.

Zverev ha vinto le ATP Finals nel 2018, alla sua seconda apparizione nel torneo di fine anno; il successo in finale contro Novak Djokovic è arrivato col punteggio di 6–4 6–3 (Julian Finney/Getty Images)

A Zverev mancano due quindici per collegare l’ultimo puntino che ancora gli manca, per sentirsi grande in mezzo ai grandi. Una discesa a rete a casaccio, un rovescio diagonale sbagliato regalano la partita a Thiem: dalla possibilità di gloria alla certezza della caduta nel giro di non più di cinque minuti. È terribile ed è vero: il finalista di un torneo dello Slam è il primo dei perdenti. Due punti persi, a volte basta una manciata di secondi bastano a interrompere le carriere, a decidere se si è vincenti o perdenti. Zverev è bello, ricco, famoso, soprattutto è giovane e forte, ma continua a mancargli qualcosa. «Devi avere pazienza», gli aveva detto un giorno Federer dopo averlo sconfitto. Quarantadue settimane di tennis all’anno, decine e decine di voli, tornei su tornei, terzi e quarti turni, talento e potenza che da soli non bastano, ogni tanto una vittoria in finale che non significa niente perché due giorni dopo al massimo si ricomincia da zero: dopo cinque anni e con pochi grandi titoli alle spalle, per Zverev il traguardo sembra non arrivare mai, la pazienza, in compenso, prima o poi finisce. Aspettando la fine dei mostri sacri si è fatto superare nel ranking e nella conquista di uno Slam da Daniil Medvedev, più brutto, più giovane e più efficace.

La medaglia olimpica al collo, conquistata ai danni di Djokovic, è il traguardo più importante conquistato fino a questo momento nel 2021, la stagione migliore della sua carriera e la peggiore della sua vita, accusato di violenza domestica nei confronti della sua ex fidanzata Olga Sharipova, accuse rigettate dal giocatore tedesco ma considerate dalla Atp abbastanza fondate da meritare una indagine interna approfondita, accolta con favore dall’attuale numero quattro del mondo. Nell’anno che ci ha mostrato la vulnerabilità di Djokovic, la fine della dinastia di Nadal sulla terra rossa, nell’anno che ci ha costretto a fare i conti con l’assenza di Federer, Alexander Zverev ha il compito di colmare un vuoto, smettere di avere pazienza, avverare la profezia di Nadal. Era il 2017 e il giocatore spagnolo disse: «Non c’è nessun motivo per cui Zverev non possa vincere i tornei importanti e diventare il numero uno del mondo». Poi aggiunse: «Se così non fosse vi autorizzo a tornare da me e a dirmi che di tennis non capisco niente».

Da Undici n° 41