Come sarebbe stata la carriera di Ronaldo il Fenomeno senza infortuni? E quella di van Basten? E cosa sarebbe stato di Del Piero senza quell’atroce rottura del crociato a 24 anni? Sono tutte domande che, in un mondo come quello del calcio e dello sport in generale che si presta facilmente al topos del “se”, si riaffacciano a intervalli regolari, ciclicamente. «Ho avuto una grande carriera, ma non è valsa tutto il dolore e la sofferenza che ho provato», ha detto tempo fa Marco van Basten, il calciatore che incarna al meglio allo stesso tempo i concetti di grazia e tormento, che ha giocato la sua ultima partita da professionista a 28 anni, nonostante i tentativi di spostare più in là il momento della resa fisica. Ma per tutti gli sportivi, anche quelli che hanno avuto una carriera lunga e ricca di soddisfazioni, l’infortunio è una tappa delicata della vita professionale: in aggiunta alle preoccupazioni fisiche e all’amarezza di non poter fare quello che più si ama, è impossibile non lasciarsi abbandonare al quesito martellante del tornerò mai come prima?
«Fifa e Uefa stanno ammazzando i calciatori», ha detto nel corso dell’ultimo anno Pep Guardiola, uno che vorrebbe evitare di far giocare i suoi ogni tre giorni – altrimenti quando ci sarebbe tempo per la didattica? Ma è evidente che le preoccupazioni di Guardiola e della gran parte dei suoi colleghi riguardano lo stress fisico a cui sono sempre più sottoposti i calciatori moderni, costretti da un calendario folle a conciliare gli impegni più disparati, nei Paesi (e nei continenti) più disparati.
Tuttavia, per quanto gli infortuni siano una componente non eliminabile dal mondo dello sport, lo scenario è decisamente cambiato rispetto ai tempi di Ronaldo e Del Piero, e ancor prima di van Basten. Uno studio del British Journal of Sports Medicine, pubblicato nel 2021, ha analizzato le stagioni di Champions League dal 2000/01 al 2018/19, con conclusioni incoraggianti. Gli infortuni sono complessivamente calati del tre per cento, con tassi più alti (cinque per cento in allenamento e quattro per cento in partita) per quelli che interessano i legamenti. Anche le ricadute sono meno frequenti, con un dieci per cento di episodi in meno.
Il trend positivo è da individuare principalmente nella professionalizzazione delle equipe mediche dei club, con strategie di carico fisico più mirate e studiate su ogni specifico giocatore, in base alle loro strutture muscolari e alle loro esigenze, con misure di prevenzione decisamente più performanti. Anche l’allargamento degli staff, con competenze diverse così da fornire una visione più completa, è un fattore decisivo in questo processo.
Un aspetto che ha spiegato qualche tempo fa a Undici Alberto Bartali, preparatore atletico con un ricco curriculum nel mondo del calcio: «Nell’era contemporanea un club di alto livello conta su uno staff di professionisti che segue costantemente l’evoluzione psicofisica del calciatore. Io ho iniziato trent’anni fa ed ero l’unico preparatore atletico, oggi il mio gruppo di lavoro si compone di sette-otto figure specializzate, e poi ci sono nutrizionisti, medici, fisioterapisti, tutti i reparti lavorano in simbiosi per prevenire gli infortuni e consentire ai giocatori di esprimersi al meglio. Le sedute di allenamento sono personalizzate e monitorate, utilizziamo supporti avanzati, ad esempio i rilevatori gps che misurano i chilometri percorsi in regime di jogging e/o scatti veloci, oppure degli strumenti di analisi immediata che ci permettono di stabilire il grado di idratazione al termine di una partita, così da impostare un percorso di recupero che non comprometta la salute dei giocatori».
Lo stesso discorso – strategie mirate, sedute personalizzate, strumentazioni avanzate – vale anche per il momento in cui l’infortunio arriva, quando, cioè, c’è bisogno delle conoscenze più all’avanguardia per studiare le terapie più efficaci e le vie migliori per il recupero fisico totale. Un aspetto importante per dare una risposta affermativa allo sportivo e al suo intramontabile interrogativo: tornerò mai come prima?
La risposta, nella maggior parte dei casi, è: sì. È sorprendente e affascinante al tempo stesso come molti sportivi di oggi, anche quando passano dalle forche caudine di infortuni terribili e convalescenze interminabili, tornino in campo come se i mesi, per non dire gli anni, fossero stati in realtà molto meno, per la capacità di tornare immediatamente ai livelli d’eccellenza più assoluti. Un aspetto ancora più ammirevole se si pensa che questo discorso si sposa perfettamente anche con quegli atleti molto in là con l’età.
Pensiamo a Zlatan Ibrahimovic, che a 35 anni e mezzo subì la rottura del crociato anteriore: cinque anni dopo, è ancora un leader tecnico indiscusso, in una delle squadre di vertice della Serie A. O pensiamo a Roger Federer, altro splendido quarantenne, che saltò buona parte del 2016 per la rottura del menisco, mentre era alle prese con un banalissimo bagnetto delle sue figlie gemelle: lo svizzero tornò in campo nel 2017 vincendo Australian Open e Wimbledon, in uno dei comeback più inattesi ed emozionanti di sempre. La longevità è uno dei temi che meglio si accompagna al concetto di “impermeabilità” agli infortuni: Federer ha vinto il suo ultimo Slam a 37 anni, Cristiano Ronaldo la sua ultima Champions a 33, LeBron James il suo ultimo titolo Nba a quasi 36. Se si pensa che alcuni campioni dello sport si sono ritirati appena ultratrentenni, come Platini o Sampras, la statistica non può non far alzare più di un sopracciglio.
Carriere che un tempo sarebbero state irrimediabilmente distrutte da infortuni tremendi oggi si risollevano contro ogni pronostico. Poche storie pareggiano, in tempi recenti, quella di Klay Thompson, vittima di due gravi infortuni – crociato prima e tendine d’Achille poi – che gli hanno fatto saltare due anni e mezzo di Nba. Ovvero, quasi mille giorni: un’eternità per chi fa lo sportivo di professione, che suona tanto di mezza condanna per chi, come Thompson, si è abituato e ha abituato gli altri a livelli d’eccellenza. L’altro “pezzo” degli Splash Brothers ha comunque festeggiato il suo ritorno in campo con 17 punti messi a referto, e di certo si può consolare con un’altra saga simile alla sua: quella del suo ex compagno di squadra Kevin Durant.
Quando ancora indossava la maglia dei Golden State Warriors, Durant si ruppe il tendine d’Achille nel corso delle Finals contro Toronto: il suo ritorno in campo è avvenuto circa un anno e mezzo più tardi, nel dicembre 2020. Risultato? Una stagione mostruosa, una condizione scintillante, un Durant che in tanti hanno valutato più forte di come se lo ricordavano – e non erano passate ere geologiche da quando i media parlavano di KD come un futuro ex giocatore (“Scordiamoci il Kevin Durant che conosciamo”, era stato un titolo catastrofico apparso su Bleacher Report).
Durant è arrivato a un centimetro (proprio così: se avesse calzato il 42, magari quel tiro da due sarebbe valso tre punti…) dal trascinare Brooklyn alle Finals Nba: insomma, non solo il 35 dei Nets ha giocato una stagione straordinaria, ma lo ha fatto da trascinatore in un contesto chiamato subito a vincere. «Ai massimi livelli in Nba», ha spiegato a FiveThirtyEight David Geier, ortopedico specializzato in medicina sportiva, «anche una minima perdita di potenza e spinta può essere un grosso problema per competere al meglio. Ma quello di Durant è davvero un ottimo risultato. Non ho visto segnali di nessun tipo che possano indicarci che non sia al cento per cento. E più va avanti, più i rischi diminuiscono». Belli, ricchi, famosi, e adesso pure indistruttibili: è questa la nuova era degli sportivi?