Il mito del corpo di Arnold Schwarzenegger

Un estratto dal libro Pumping Arnold, di Fabrizio Patriarca, edito da 66thand2nd.

Il corpo denso del culturista è un corpo affermativo. Nel caso di Schwarzenegger dovrei chiedermi non solo quanto afferma, ma soprattutto in che modo. Il corpo di Arnold è senz’altro assertivo, ma il suo modo di affermare non è quello dell’aforisma: ha più la forma di una beffa, o al limite di un insulto. Gli aforismi si nutrono di riconoscimento: quanto più suscitano la mia approvazione tanto più li riconosco efficaci (il miglior aforisma è quello che mi inchioda al rimpianto di non averlo saputo emettere io). La beffa o addirittura l’insulto promulgati dal corpo di Arnold si nutrono, al contrario, di invidia (figura principe: Arnold che circondato dagli sconfitti al Mr. Olympia ’75 indossa la maglietta ARNOLD IS NUMERO UNO, massima ingiuria dell’autocelebrazione, che sprezza tutto il resto a partire dai presenti/testimoni).

Questo è il paradosso che non si può rimuovere dalla mitologia di Arnold: un corpo che è insieme festoso, vitale, avido di mondo e di esperienza (I want to have a great time with my life, così si chiudeva l’intervista a «Playboy» del 1988), ma che tuttavia sfugge all’interrogazione vitalista e ci parla – dal silenzio della fotografia, dalla gloria delle pose – di penitenza e morte: un corpo misterioso che tacendo ci raggiunge col rumore della vita degli organi, i processi chimici che si fanno massa, tensione, scultura. Un corpo che in apparenza è un Carnevale, ma sotto sotto trasmette l’impressione di una Quaresima. C’è poi qualcosa, nell’immagine mitologica di Schwarzenegger, che comunica più di quanto non vogliano le premesse sulle quali è stata tanto abilmente, e avventurosamente, costruita. La neutralità assoluta, per esempio, che vuole illuminare i significati della virilità e finisce – soprattutto nelle fotografie – per solarizzarli.

Nel culturismo la virilità è posta sotto una luce talmente abbagliante da risultarne cancellata, cade in secondo, in terzo piano, si dimentica. Il corpo di Arnold respinge la virilità senza creare paradosso (così come la Transessuala respinge la femminilità, nonostante le insegne del femminile che porta sulla pelle, esasperate). È il segno dell’estrema appartenenza di Arnold al proprio tempo. Come ha scritto Jean Baudrillard: «Siamo tutti transessuali. Così come siamo tutti dei mutanti biologici potenziali, siamo dei potenziali transessuali. E non è questione di biologia. Siamo tutti simbolicamente dei transessuali». Uno dei temi cruciali di Baudrillard ci interroga su cosa possa avvenire dopo l’orgia, dove l’orgia rappresenta il collasso della modernità: overdose di senso, overdose di realtà, overdose di informazione. Il corpo di Arnold, nel passaggio dal bodybuilding al cinema, aderisce in modo innegabilmente esemplare all’emergenza del dopo orgia. Con le parole di Marco Belpoliti: «La risposta è quella di simulare l’orgia e la liberazione, far finta di continuare ad accelerare nella zona della liberazione, mentre in realtà acceleriamo nel vuoto». È l’illusione dionisiaca del povero Pilùsch, a cui ho consigliato di tornare a casa, smaltire i 100 gr. di Sildenafil e riprovarci a mente lucida.

Posto che l’esplosione dell’orgia avviene tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, la risposta simulativa (facciamo finta di vivere ancora dentro l’orgia) libera una serie di temi che conducono a un’umanità simulante fondata sul trionfo della macchina, sull’esplosione del virtuale, su nuove forme d’ingegneria (non solo genetica, ma psichica, per esempio). Sono i temi – ma guarda un po’ – su cui Arnold ha fondato il suo successo cinematografico, ma questo è il meno: Schwarzenegger ha introdotto, nello sport come al cinema, una serie di processi che risultano pervertitori – nel senso di giocosi, portatori di una qualche deviazione – rispetto alla normale produzione di segni (penso al tema inevitabile della simulazione come sostituto della realtà: Atto di forza).

Ciò che sta opposto alla produzione di segni (e alla sovrapproduzione tipica dell’orgia del moderno) Baudrillard lo chiama seduzione, ed è appunto un gioco, un’attività che mina le logiche della produzione operando scambi simbolici: ciò che è vitale diventa mortifero, il maschile si scambia col femminile e viceversa, saltano le opposizioni canoniche, l’umano parla la lingua del simulacro (come nel culturismo). Seduzione in latino è propriamente un divergere, condurre sé stessi da qualche altra parte. La seduzione non produce, perverte. La profonda analogia tra la seduzione di Baudrillard e il modo in cui bodybuilding opera coi segni del corpo umano – per così dire col prodotto – parrebbe singolare, se non fosse che la carriera di Schwarzenegger la rende piuttosto inevitabile, addirittura necessaria.

C’è un film in cui Arnold recita per dieci minuti la parte del bravo padre di famiglia, Commando: porta la figlia a pescare, prendono un gelato e lei gli imbratta la faccia, ridono e si scambiano bacini per tutto il tempo, la piccola attacca un disegno con scritto I love you dad sul frigorifero, ancora bacini, poi i farabutti di turno la rapiscono e inizia uno dei film più cruenti di sempre: ottantasette uccisioni, di cui settantaquattro solo nella scena finale (tanto per dire: Arnold in Terminator ammazza appena ventisette persone).

Alyssa Milano, che interpretava la bambina, ha riferito che Schwarzenegger sul set era amorevole e protettivo, al punto che l’aiutava a fare i compiti. Nella scena finale lui compare a torso nudo, malconcio per la battaglia, somiglia decisamente a uno che ha appena finito di trucidare settantaquattro di persone, e porta la ragazzina in braccio, ovviamente con un braccio solo. Il padre e lo sterminatore coincidono: la barra dell’incoerenza si carica su questa simultaneità tra il family man e l’assassino freddo fino al sarcasmo, al punto che nello spostamento irregolare dei significanti lo spettatore viene colto da una specie di disagio – che americanata! Ma è il nodo di tutta la questione. Quell’incoerenza percepita è il luogo in cui vibra la diversione del segno, l’implacabile spasso del postmoderno.

Così era già in Pumping Iron: di cosa parla il corpo di Arnold se non della nostra segreta avversione per i segni che produciamo, e della voglia sediziosa di sovvertirli, farne strazio, utilizzarli in maniera abnorme, fino all’estremo? Di cosa parla, se non della nostra capacità di avvertire la bellezza, o la simmetria, e non restarne minimamente appagati?

Un estratto dal libro Pumping Arnold, di Fabrizio Patriarca, edito da 66thand2nd