Di Unai Emery mi è rimasta impressa un’immagine più di ogni altra: il suo volto stravolto e amareggiato e incredulo ai bordi del prato verde brillante del Camp Nou, una reazione umana e quindi tenerissima al gol del 6-1 segnato da Sergi Roberto negli ultimi istanti di Barcellona-Psg, la partita più irreale degli ultimi venti (trenta? quaranta? novanta?) anni di calcio ai massimi livelli. Oltre a essere un’istantanea cult della crudeltà del fato applicata allo sport, e alla vita, l’immagine di quel volto stravolto e tenerissimo ha un indubbio significato storico: il gol di Sergi Roberto sancì anche la fine di Unai Emery come allenatore di top club. Sì, certo, Emery sarebbe rimasto ancora un anno a Parigi, avrebbe allenato Neymar e Mbappé, avrebbe vinto la Ligue 1 2017/18 con 13 punti di vantaggio. Ma quella rimonta subita contro il Barcellona, proprio per la sua assurdità, rese inevitabilmente precario tutto ciò che è venuto dopo. Tra la primavera del 2017 e quella del 2018, era come se ogni sconfitta del Psg potesse – o dovesse – diventare il pretesto per esonerare Emery, per rimandarlo nella sua dimensione a fare ciò per cui è nato: guidare squadre e giocatori a dei risultati incredibili, ma solo se si tratta di squadre e giocatori in cerca di affermazione.
Per dirla con una frase fatta: Unai Emery ha sempre dimostrato di essere un allenatore grande con i piccoli e piccolo con i grandi. La notte senza senso vissuta al Camp Nou è solo uno dei tanti indizi a supporto di questa tesi. Ce ne sono tanti altri: Marco Verratti – che magari non è un calciatore facile da gestire, non possiamo saperlo, ma è difficile credere che sia Neymar, ecco – in un’intervista del 2018 disse che «con Emery in panchina è stata un’esperienza complicata, non era semplice lavorare con lui». La stessa inconciliabilità si è avvertita nel corso dell’avventura all’Arsenal, un anno e mezzo in cui Emery non è riuscito a scrostare i pezzi di vernice rappresa nel corso dell’infinito e agonico addio di Arsène Wenger, dal punto di vista tecnico, manageriale, emotivo: l’Arsenal di Emery è stata una una squadra in grado di fare qualsiasi cosa, di vincere 11 partite consecutive (nell’autunno 2018) e di raggiungere in scioltezza l’ultimo atto di Europa League, ma anche di sciogliersi sistematicamente in tutti i big match, a cominciare proprio dalla finale di Baku contro il Chelsea; l’Arsenal di Emery ha sbagliato tantissime scelte di mercato, nella prima e soprattutto nella seconda estate con il tecnico basco (nel 2018 sono arrivati Lichtsteiner, Guendouzi, Papastathopoulos, Leno, Torreira, nel 2020 invece Saliba, Pépé, Tierney, David Luiz); l’Arsenal di Emery ha visto nascere e non ha risolto dei conflitti sanguinosi, per esempio la faida tra il tecnico basco e Masut Özil e la controversa scelta di Xhaka come capitano. Anche i rapporti quotidiani erano piuttosto tumultuosi: in questo articolo di Fox Sports sono raccolte le testimonianze di Özil, Lacazette e Bellerín pochi giorni dopo l’esonero di Emery e l’arrivo di Arteta, e tutti e tre parlano di «miglioramenti tattici evidenti» in seguito al cambio in panchina.
Lo stesso Emery, in realtà, ha riconosciuto la sua inadeguatezza rispetto a certe responsabilità, a certe situazioni. L’ha fatto in modo indiretto, giustificandosi e autoassolvendosi un po’, come farebbe qualsiasi essere umano che viene colto in fallo: dopo aver annunciato l’addio al Psg, mentre era ancora tecnico del club francese, si lasciò intervistare dal giornalista spagnolo Martí Perarnau e disse che «a Parigi la mia priorità è rendere felice Neymar, non importa in che modo». Qualche mese dopo il suo esonero all’Arsenal, invece, raccontò al Guardian che «a Londra la società non ha potuto proteggermi», e che «alcuni giocatori non avevano la mentalità necessaria, un giorno dicevano “sì” e quello successivo dicevano “no”, quando invece nel calcio devi dire “sì, sì, sì”, e devi farlo tutti i giorni: non puoi mai andare sotto al 100% dell’impegno, altrimenti rischi di perdere. A noi, a me, è successo proprio questo».
È qui, proprio in questo punto, che viene fuori la vera essenza di Unai Emery. Di un professionista del calcio che, quando era al Siviglia, fu intervistato da Canal Plus e disse che «la vera felicità sta nel processo di crescita, non nel risultato». Di un tecnico che Sid Lowe, sul Guardian, ha definito «obsessive» e «video-fanatic», e in questo caso non c’è bisogno di alcuna traduzione. Insomma, parliamo di un allenatore che non accetta compromessi rispetto a un determinato metodo di lavoro, che magari non sarà un grande idealista tattico – come giocano le squadre di Emery? Fanno possesso palla intensivo? Pressano in maniera furiosa? Difendono basse e compatte nella loro area? Ecco, tutte queste domande non hanno risposta, perché le risposte sono sempre diverse – eppure riesce a essere profondamente radicale, a mettere un marchio in rilievo ben distinguibile sulle sue squadre. Ovviamente questo approccio è molto più funzionale ed efficace laddove i rapporti di forza sono favorevoli all’allenatore, laddove i leader tecnici – ma anche politici – dello spogliatoio sono in via di costruzione, o al massimo sono di passaggio. E allora lui può governare davvero, perché deve istruire i suoi uomini, nel senso che deve guidarli, deve allenarli. Non deve gestirli, che è un altro mestiere.
Il Villarreal, in questo senso, è molto simile al Siviglia. Anzi, forse è un ambiente ancora più ammaliante e quindi più giusto per una persona come Emery. Se in Andalusia il metodo-Monchi obbliga gli allenatori a far fronte ogni anno a una vera e propria diaspora del talento, nella piccola cittadina valenciana – Vila-Real è un comune di 50mila abitanti che si trova a 60 chilometri esatti dalla Playa de la Malvarrosa – il modello si basa su un approccio meno intensivo ed estensivo al calciomercato, su un’idea piuttosto vintage di formazione a lungo termine: il 12% del budget complessivo messo a disposizione dal presidente Roig viene destinato al vivaio, e non a caso la rosa gestita oggi da Emery si compone per un terzo di giocatori cresciuti nella cantera (otto su 26). Ciò non vuol dire che non si facciano acquisti di un certo livello, solo che anche queste operazioni sono sintonizzate con la politica del club: tra l’estate 2021 e gennaio 2022 sono arrivati Danjuma, Foyth, Dia e Lo Celso, tutti calciatori sotto i 25 anni e ancora in cerca della loro reale dimensione nel panorama europeo; l’unica eccezione ha riguardato lo svincolato di lusso Serge Aurier, che però – non a caso, viene da dire – non è ancora entrato davvero nelle rotazioni di Emery. È bastata una sola stagione a Emery per portare questo gruppo e il Villarreal a vincere il suo primo trofeo in assoluto, l’Europa League, a sfidare il Chelsea alla pari – al punto da costringerlo alla lotteria dei rigori – in Supercoppa Europea, a qualificarsi per gli ottavi di Champions 13 anni dopo l’ultima volta.
A corollario di tutto questo, forse, si potrebbe aggiungere tutta l’aneddotica e la retorica sulla video-analisi – secondo un articolo pubblicato da El País, Emery ha detto di aver vivisezionato 17 partite del Manchester United prima dell’ultima finale di Europa League. Ma servirebbe a poco, ormai il quadro è completo, è ben definito: i risultati raggiunti e le vicende vissute fanno di Emery un allenatore un po’ incompreso, un po’ incompiuto e un po’ sottovalutato, come un attore comico di grande livello – non certo un caratterista – che arriva a sperimentarsi nel cinema d’autore, ma che dopo alcuni tentativi non riesce ad adattarsi, a rinunciare ai suoi tempi, a un certo modo di pronunciare le battute, e allora viene stroncato dai registi e dai critici e dai suoi colleghi attori. Anche il suo palmarés, in fondo, racconta proprio una storia di questo tipo: Emery è il tecnico che ha vinto più volte l’Europa League (quattro) ma ha trionfato solo una volta in campionato (Psg 2017/18). E non è mai andato oltre gli ottavi di finale di Champions League.
La cosa più singolare, però, è che anche lo stesso Emery sembra aver preso coscienza della sua particolare condizione. Ce ne siamo accorti pochi mesi fa: il 3 novembre 2021, è proprio lui che scrive e firma una lettera aperta in cui ammette di essere stato contattato dal Newcastle per guidare la costruzione di una grande squadra coi soldi infiniti del Fondo PIF, solo che non ha accettato l’offerta dei Magpies «perché sono coinvolto al 100% con il progetto del Villarreal e voglio continuare a farne parte». Poche settimane dopo, il Sumbarino Amarillo ha battuto l’Atalanta a Bergamo con un 2-3 molto più netto di quanto non dica il punteggio, e così ha centrato la qualificazione agli ottavi di Champions League. Ecco, per comprendere davvero Unai Emery bisognerebbe partire da qui, dal fatto che forse è proprio lui ad aver capito bene cosa vuole fare, cosa sa fare bene. Ad aver capito quello che è, in fondo: un grande allenatore con dei limiti, probabilmente anche auto-imposti, che l’hanno costretto a stare fuori dall’élite, anche solo di pochi passi. E che vuole anche provare a rientrarci, in questa élite, ma senza rinunciare a niente di sé. Sempre e solo a modo suo.