A lezione di business dall’Atalanta di Percassi

Con la vendita di parte delle azioni a un consorzio di imprenditori americano, il presidente del club bergamasco ha completato il suo capolavoro imprenditoriale.

Il più grande mistero della straordinaria avventura calcistica di Antonio Percassi è la narrazione che da sempre lo ha accompagnato in Italia. Perennemente improntata alla modestia, come se stessimo parlando di un signore che si è indebitato per coronare il sogno di acquistare la squadra del cuore. Come il pensionato che, grazie agli ultimi risparmi, riesce a comprare la casetta della sua infanzia. Un racconto che si è talmente radicato finendo con il favorire un vero e proprio stravolgimento della realtà. Nel 2020, infatti, Forbes ha rilevato che Percassi è il 36esimo uomo più ricco d’Italia. Un anno prima, in occasione della sfida di Champions tra Manchester City e Atalanta, il Sole 24 Ore scrisse che, mentre la sfida dei fatturati tra i due club era impari, con 180 milioni di euro di ricavi attesi nel 2019 per i bergamaschi versus l’oltre il mezzo miliardo di sterline di giro d’affari per i Citizens, quella tra i due presidenti, invece, era testa a testa: «Lo sceicco di Abu Dhabi vanta un patrimonio stimato in 1,4 miliardi di dollari. Quello di Percassi (calcolato come attivo di bilancio della sua cassaforte Odissea) vale, in dollari, 1,15 miliardi». Nulla cambiò, nemmeno dopo quell’articolo. Probabilmente in ossequio a un vecchio adagio giornalistico: non rovinare mai una bella storia con la verità.

Quasi nessuno ha raccontato Percassi per quello che è: un grande imprenditore, abile, innovativo, globale, eclettico e ovviamente con uno spiccato senso del business. Punto di riferimento in Italia dei grandi marchi. A lui si rivolgono quando vogliono investire da noi. Che sia Starbucks, Victoria’s Secret, Lego. Organizza lo sviluppo delle reti di vendita in Italia. I suoi interessi sono diversificati: il marchio di cosmetici Kiko, numerosi centri commerciali, e ovviamente l’Atalanta. Che lui acquistò nel 2010 per 14 milioni di euro. E di cui sabato scorso ha venduto il 55% a una somma di circa 270 milioni. In dodici anni, ha moltiplicato il valore iniziale del club per trentacinque. Non solo: ha portato il fatturato del club dai 38 milioni del 2011 ai 242 del 2020. Ha chiuso in perdita (lieve) quattro dei primi cinque esercizi. Poi, tra il 2017 e il 2020, ha realizzato un utile complessivo di 130 milioni di euro. In un settore in declino come il calcio. In un ambiente obsoleto, anacronistico e pieno di debiti come il calcio italiano. Un’anomalia, in quanto tale, difficilmente ripetibile.

Se un giorno dovessero dedicargli un film, il titolo perfetto – anche se non originale – sarebbe Prova a prendermi. In dodici anni, Percassi ha acquistato lo stadio dal Comune (per complessivi 8,5 milioni), lo ha ristrutturato, ha riammodernato il centro sportivo, ha venduto calciatori a peso d’oro, spesso dopo averli acquistati per due lire, ha giocato tre volte la Champions. Tutto questo con l’Atalanta. Ha battuto il Liverpool ad Anfield. Ha pareggiato con i due club di Manchester. E due anni fa, al novantesimo minuto, aveva praticamente eliminato il Psg di Neymar e Mbappé dalla Champions League, a un passo da un’incredibile qualificazione in semifinale. Poi, però, il dio del calcio voltò le spalle alla squadra di Gasperini.

L’operazione chiusa sabato scorso con la cordata di imprenditori capeggiata da Stephen Pagliuca, rivela anche altro. Che Percassi non ha mai perduto la testa. Non si è mai fatto trascinare sul terreno dell’egolatria – malattia abbastanza diffusa tra i presidenti di Serie A. Come i grandi uomini d’affari, è stato in grado di capire quando aveva raggiunto il punto più alto possibile, quell’istante in cui – improvvisamente e inesorabilmente – cambia la prospettiva. Da quel momento, si può soltanto scendere. Lo chiamano declino. Una trappola in cui è caduto persino un certo Silvio Berlusconi. Percassi invece ha compreso tutto in anticipo e si è mosso di conseguenza. La scorsa estate ha dovuto persino incassare una contestazione dei tifosi. Perché in Italia guai a cominciare a vincere, a ottenere buoni risultati, sei condannato a farne sempre di migliori. In una spirale spesso autodistruttiva.

Ha ceduto il 55% a una somma superiore alla clausola rescissoria di Neymar (che fu di 222 milioni). Gli spin doctor dell’Atalanta amano definirla partnership, non cessione. Finalizzata alla conquista di nuovi mercati. Sarà il tempo a rendere chiari i termini dell’operazione e la strada che ha imboccato l’Atalanta. Non c’è bisogno di aspettare, invece, per affermare che Percassi ha dato una lezione di management a tutti i suoi colleghi di Serie A. È evidente che quella che – a sproposito e fino alla noia – è stata definita favola-Atalanta, in realtà è stato un progetto imprenditoriale di lungo corso. Del resto Percassi ci provò già all’inizio degli anni Novanta, a entrare nel mondo del calcio. Acquistò l’Atalanta dopo la morte dello storico presidente Bortolotti. Durò poco: la retrocessione del 1994 lo convinse a mollare. Vendette a Ruggeri. Dal cui figlio, quindici anni più tardi, la riacquistò.

Tutt’al più quel che è concesso dire, a proposito del progetto Atalanta, è che – come in ogni grande storia che si rispetti – è essenziale anche un pizzico di fortuna. Strappa più di un sorriso rileggere oggi le dichiarazioni che Gasperini rese a Radio Anch’io il 24 ottobre del 2016, all’indomani della vittoria della sua Atalanta sull’Inter di De Boer. «E dire che ero vicino a finire prestissimo la mia esperienza», furono queste le sue parole esatte. Perché, sempre secondo Gasperini, «a Bergamo ho dovuto far fronte situazione anche ambientale molto critica, con qualche sconfitta anche non meritatissima. Si tratta di una piazza molto calda, come quasi tutte in Italia, ci sono le stesse tensioni delle grandi squadre. All’inizio si deve avere la fortuna di fare qualche risultato anche se la squadra non è ancora perfetta nei meccanismi, perché tutto viene giudicato subito con i risultati. Si deve avere fortuna o una società che crede nell’allenatore come ha fatto con me l’Atalanta».

C’è sempre uno sliding doors nella vita e nella storia di ciascuno. Dopo cinque giornate di quel campionato 2016-17, l’Atalanta aveva tre punti frutto di una vittoria e quattro sconfitte. L’ultima, in casa col Palermo: gol di Nestorovski. Circolavano già i nomi dei favoriti per la successione: Cesare Prandelli e Stefano Pioli. Poi, quella squadra andò a vincere a Crotone e soprattutto sconfisse il Napoli di Sarri con gol di Petagna. A fine stagione sarebbe arrivata quarta, solo che allora il quarto posto valeva l’accesso all’Europa League, non alla Champions – che sarebbe comunque arrivato nel 2019. L’anno prima, con Reja in panchina, i bergamaschi avevano chiuso il campionato al tredicesimo posto.

Da quando è arrivato all’Atalanta, nell’estate 2016, Gasperini ha accumulato 269 panchine in gare ufficiali con il seguente score: 142 vittorie, 69 pareggi e 58 sconfitte (Emilio Andreoli/Getty Images)

In quella stagione, tanto per rendere l’idea, l’operazione di mercato più costosa fu l’acquisto di Alberto Paloschi acquistato dallo Swansea City: per averlo, l’Atalanta sborsò sette milioni di euro. Kessié tornò dal prestito al Cesena. Nella sessione invernale di mercato fu preso, dal Groningen, un certo Hateboer per 1,4 milioni di euro. Cristante arrivò in prestito dal Benfica. Caldara fu dato alla Juventus per 19 milioni, ma rimase ancora un anno a Bergamo. Il vero colpo di mercato, è evidente, fu Gasperini. Con lui è avvenuta la svolta, calcistica e imprenditoriale. È lui che ha reso possibile la conversione del calcio in alchimia. Ha trasformato metalli scadenti in oro. La Germania ha discusso a lungo del come sia stato possibile lasciarsi sfuggire uno come Gosens. Se avesse previsto delle stock option nel suo contratto, l’allenatore non apprezzato da tutti – eufemismo – per il suo caratteraccio avrebbe guadagnato certamente di più. È il motivo per cui quando all’Atalanta scoppiò un caso da grande squadra, con Papu Gómez contro il tecnico, la famiglia Percassi non ha avuto un attimo di titubanza. Ha scelto Gasperini.

In un’intervista rilasciata a El Paìs nell’agosto 2020 (una delle rare interviste concesse), Percassi disse: «La cosa più importante sono i buoni scout. Poi servono allenatori, struttura. Siamo un club di provincia. Questa è la nostra storia. Io e mio figlio siamo stati calciatori dell’Atalanta. Sappiamo meglio di chiunque altro quanto siano importanti in un club come il nostro le giovanili». Il quotidiano spagnolo non si bevve fino in fondo la storia della cantera. Scrisse di «contraddizione evidente» visto che la squadra titolare che sconfisse il Valencia allo stadio Mestalla aveva solo due elementi provenienti dal vivaio: il portiere Sportiello e un difensore centrale, Caldara. Il resto era composto da stranieri acquistati a «prezzi inauditi rispetto a quanto pagato dalle rivali che sono ai quarti di Champions: Djimsiti (libero), Gosens (900mila euro), Palomino (4,5 milioni di euro), Freuler (1.9 milioni), De Roon (1.3), Hateboer (1,4), Pasalic (in prestito), Ilicic (6) e Papu Gómez (4.5). In totale, circa 19 milioni di euro».

Si trattava e si tratta di materiale grezzo affidato all’alchimista Gasperson, che lui lo trasformava (e trasforma ancora) in oro. Nel vero senso della parola. Perché Percassi sa comprare ma sa anche vendere. A Bergamo, plusvalenza è un termine che ha ancora una connotazione positiva. La sua Atalanta ne ha realizzate un bel po’. Giusto per ricordare qualche medaglia: ha venduto Romero al Tottenham per 50 milioni più di cinque di bonus. Alla Juventus Kulusevski per 35 milioni e Caldara per 20. Kessié e Conti al Milan rispettivamente per 30 e 24 milioni, Bastoni e Gagliardini all’Inter per 31 e 28 milioni, Cristante e Mancini alla Roma per 25 e 15.

Chissà, forse saranno state le sei partite in Serie A da difensore, o le cento e passa presenze in Serie B, sempre con la maglia dell’Atalanta. Di fatto Percassi ha attraversato il calcio italiano senza lasciarsi sedurre dalle sirene del protagonismo. Senza mai perdere di vista l’obiettivo di un imprenditore. Purtroppo da noi il business è considerato una sorta di peccato, qualcosa di cui vergognarsi. Negli Stati Uniti sarebbe stato osannato. Per quello che ha creato e per la somma a cui l’ha venduto. In Italia, invece, deve fare esercizio di equilibrismo tra difesa delle radici e occasione di ulteriore crescita per l’Atalanta. Quasi come se dovesse difendersi da accuse di tradimento. Anche su questo terreno Percassi se l’è cavata decisamente bene.