C’è qualcosa da salvare nella Coppa Italia?

È un torneo molto criticato per il suo format, ma in realtà produce ricavi importanti.

Due semifinali di andata per 180 minuti di gioco. E il primo gol è arrivato solo nell’ultimo minuto di recupero della partita numero due. Tra l’altro non si è trattato nemmeno di un gol propriamente detto: il terzino della Fiorentina Lorenzo Venuti, praticamente sul fischio finale della gara contro la Juventus, ha maldestramente messo il pallone nella propria porta. È così che si è stappata una due giorni infrasettimanale di Coppa Italia che non ha offerto granché in termini di spettacolo. Anzi, a dirla tutta è stata un po’ noiosa. L’unica rete segnata, in questo senso, parla piuttosto chiaro. Partendo da qui, era inevitabile che rispuntassero le solite critiche sul format del torneo. Il fatto che siano solite, quindi vecchie, non toglie che siano anche legittime: la struttura del torneo è pensata per portare le migliori otto squadre del campionato ai quarti di finale, così da creare una specie di “Final Eight” che esprima il massimo del prodotto calcistico italiano. Lo aveva detto anche Maurizio Sarri prima dei quarti di finale, prima della partita contro il Milan che ha sancito l’eliminazione della sua Lazio: «Dispiace che la Coppa Italia sia una tra le manifestazioni più antisportive del mondo, con un sorteggio che non si sa chi lo fa, quando, dove, ed è palesemente disegnato per far arrivare certe squadre alle partite che vanno in diretta televisiva».

In effetti dietro la Coppa Italia c’è un disegno che non mette tutti sullo stesso piano: le piccole di Serie A e le squadre delle categorie inferiori devono giocare diversi turni preliminari, quindi hanno un chiaro svantaggio rispetto alle grandi (le migliori otto della precedente edizione del campionato), che entrano in gioco solo agli ottavi, e quindi devono disputare solo cinque partite per aggiudicarsi il trofeo. Inoltre, le big giocano sempre in casa contro formazioni più deboli, almeno sulla carta. Infine, fa discutere anche il format dei turni: da diversi anni, ormai, la Coppa Italia è un torneo a eliminazione diretta con gare secche fino alle due semifinali, che si disputano invece sulla distanza di 180 minuti. Il problema è che le partite di ritorno si giocano un mese dopo l’andata: un tempo sufficientemente lungo per spegnere il pathos del doppio confronto, secondo la visione dei più critici.

Tutte queste logiche fanno sì che la Coppa Italia vada in direzione opposta rispetto alle coppe nazionali di altri Paesi europei: altrove, infatti, preferiscono avere più sorprese e quindi risultati più casuali. Nella prestigiosa FA Cup inglese, forse il torneo con più appeal d’Europa dopo i cinque campionati top, il sorteggio è integrale (anche per il campo da gioco) e tutte le gare si giocano one shot, anzi durante la pandemia è stata abolita anche l’antichissima tradizione dei replay match, che prevedeva una seconda partita (a stadi invertiti) in caso di pareggio al 90esimo minuto; stesso meccanismo anche per la Coupe de France, la DFB Pokal in Germania e la Copa del Rey, solo che il regolamento della manifestazione spagnola prevede che le squadre di divisione inferiore giochino sempre in casa contro avversari di Liga. Quest’anno, anche a causa di questi regolamenti, sono venuti fuori risultati davvero inattesi: in FA Cup, il Middlesbrough, una squadra di Championship (seconda divisione), ha superato prima il Manchester United e poi il Tottenham, e nel frattempo l’Everton ha dovuto battere il Boreham Wood, club di quinta categoria, per arrivare ai quarti di finale; in Francia si è giocato un quarto di finale tra Bergerac e Versailles, cioè due squadre del quarto livello nella piramide calcistica transalpina; in Germania le quattro semifinaliste sono RB Lipsia, Friburgo, Union Berlin e Amburgo (seconda divisione), e anche in Spagna è andata allo stesso modo: la finale si disputerà tra Betis e Valencia, che hanno eliminato Rayo Vallecano e Athletic Club.

Le differenze con la Coppa Italia sono evidenti. Detto questo, è anche necessario mettere tutto nella giusta prospettiva. Innanzitutto, va detto che in tutte queste coppe le squadre di prima divisione entrano in gara dopo quelle di categoria inferiore. Pochi giorni fa, poi, si è giocata la finale di un’altra coppa nazionale inglese, la EFL Cup o Coppa di Lega, conosciuta anche come Carabao Cup per motivi di sponsor. E l’ha vinta il Liverpool, cioè il massimo dell’aristocrazia del football britannico, tra l’altro in finale contro il ricchissimo Chelsea non-più-di-Abramovich. Questo solo per dire che, in un torneo a eliminazione diretta, i risultati sono per forza un po’ più casuali, ma nella maggior parte dei casi vincono comunque i più forti. In realtà citare la Carabao Cup in questo discorso è piuttosto significativo, perché è più simile alla Coppa Italia di quanto non lo sia la FA Cup: le prime due infatti sono organizzate da una lega – cioè dalla Serie A e dalla EFL – mentre la FA Cup è gestita dalla Federazione. È un dettaglio fondamentale: un torneo federale è pensato con la logica di porre tutti sullo stesso livello, in modo che sia rappresentativo di tutti e che agevoli la costruzione di una bella storia di calcio nazionale. Anche perché poi la Federazione – con gli introiti del torneo – ha il dovere e l’interesse di sviluppare il calcio su tutto il territorio, in questo caso quello che la FA chiama grassroot football, il calcio di base.

Per avere un termine di paragone italiano dovremmo immaginare una coppa organizzata dalla Figc. Solo che, come detto, la Coppa Italia viene organizzata dalla Lega Serie A, un soggetto che ragiona in termini di business e quindi punta a creare il prodotto più spendibile sul mercato. Da qui la decisione di favorire le squadre più forti e più grandi. «La verità è che in Italia l’80% degli appassionati di calcio si definisce tifoso delle cinque grandi, Juventus, Inter, Milan, Roma e Napoli», dice a Undici Giovanni Armanini, coordinatore di One Football e giornalista da sempre attento alle dinamiche di business del calcio. «Per cui quando c’è Inter-Juventus, il derby di Milano, o un altro scontro di vertice, le partite le vedono milioni di persone, e questo fa tutto l’interesse dei club e di chi organizza il torneo, ma anche delle emittenti che comprano i diritti di trasmissione».

Favorire questo tipo di accoppiamenti tra le big nelle partite che contano di più ha il merito di riunire la quota più alta possibile di tifosi o semplici appassionati attorno al singolo evento-partita. Sicuramente molti di più di quanti ne attirerebbe una sfida tra una squadra di metà classifica e una di Serie B. Il derby Milan-Inter, anche se ha fatto sbadigliare quasi tutti, è stato seguito da tantissime persone: ce n’erano oltre 56mila a San Siro, che ha registrato il sold out rispetto alla capienza massima consentita dalle disposizioni anti-Covid (il 75%); ce n’erano oltre sei milioni collegate con i loro televisori su Canale 5, che ha fatto registrare uno share vicino al 24.; Fiorentina-Juventus non avrà l’hype del derby, ma in ogni caso ha accumulato quasi 6 milioni di spettatori, con uno share addirittura superiore (24,7%). E anche lo stadio “Artemio Franchi” era praticamente pieno, per quanto possibile.

Con cinque trionfi complessivi, la Lazio è la squadra che ha vinto più volte la Coppa Italia negli ultimi 25 anni: il primo successo è arrivato nel 1998, l’ultimo nel 2019 (Vincenzo Pinto/AFP via Getty Images)

Questi numeri, che si ripetono di anno in anno, rendono la Coppa Italia una piccola eccezione nel calcio europeo, almeno dal punto di vista economico: per il triennio in corso, infatti, i diritti di trasmissione del torneo sono stato acquistati da Mediaset per 48 milioni di euro. Si è registrato un aumento del 27% rispetto al ciclo 2018-2021, e il valore complessivo dei pacchetti è più che raddoppiato rispetto al ciclo 2015-2018. È vero che le cifre, in valore assoluto, non sono paragonabili ai miliardi – letteralmente – che ruotano attorno ai grandi campionati europei. Ma resta il fatto che il calcio italiano fa fatica a crescere nel revenue stream dei diritti tv, e quindi i ricavi generati della Coppa Italia sono indiscutibilmente positivi. «Dobbiamo considerare che la nostra coppa porta alle società italiane più di quanto porti alle società inglesi la FA Cup. Può non piacere, ma dal momento che gli interessi di chi organizza il torneo sono gli stessi di chi poi arriva ai quarti e in semifinale, diventa difficile suggerire una modifica», dice Armanini. Ecco qualche cifra per fare i dovuti confronti: per la League Cup, la EFL incassa circa la metà rispetto alla Coppa Italia; la squadra vincitrice della FA Cup introita quattro milioni per sei partite giocate da gennaio a maggio, una quantità di denaro superiore rispetto a quella incassata dal club che vince la Coppa Italia (circa tre milioni), a fronte però di una partita giocata in meno. A questa cifra, poi, vanno aggiunti ulteriori 3,5 milioni per la partecipazione alla successiva Supercoppa Italiana.

Sull’altra critica diffusa, quella relativa al fatto che le grandi squadre potrebbero/dovrebbero giocare in trasferta le partite contro avversarie di categoria o livello inferiore, c’è un importante distinguo da fare: il regolamento della Coppa Italia prevede che l’incasso sia sempre diviso tra le due squadre che vanno in campo, quindi alle piccole di Serie A, Serie B e (soprattutto) Serie C conviene molto di più giocare a San Siro o all’Olimpico, piuttosto che ospitare una big in uno stadio inevitabilmente meno capiente. Insomma, la Coppa Italia è squilibrata, piramidale, ha un format antidemocratico o forse sarebbe meglio dire elitista. Ma la realtà è che stiamo parlando di un torneo che genera profitti per chi lo organizza, e per tutti coloro che vi partecipano. In virtù di tutto questo, la soluzione ai problemi – che ci sono – non è una tabula rasa che porti a ricostruire da zero il format e stravolgerlo rispetto alla proposta attuale. Serve una riforma, più che una rivoluzione.