Perché le pagelle calcistiche de L’Équipe sono così severe?

Non è così raro vedere qualche 3, o anche qualche 2, tra i voti assegnati ai calciatori. Ma ora qualcosa sta cambiando.

Vista la sua natura inevitabilmente privata, è impossibile stabilire il volume d’affari generato dal fantacalcio. Le app create e che si sono diffuse negli ultimi anni hanno automatizzato e sistemizzato un po’ dei processi che prima avvenivano su quadernoni e agendine varie, ora c’è qualche numero ufficiale in più a cui fare riferimento, ma tutto resta molto incerto, molto nebuloso. E allora non sapremo mai quanto incidono davvero le pagelle dei quotidiani, i voti dati dai giornalisti ai giocatori, sul nostro ecosistema economico. In ogni caso, in Italia abbiamo un sistema di valutazione a scarto ridotto, senza grandi sussulti: certo, un mezzo voto può far sempre la differenza, ma raramente un giocatore scende sotto il 4 senza considerare i bonus/malus. Allo stesso modo, deve segnare almeno una tripletta per pensare di avere 9 in pagella.

In Francia, la situazione è molto diversa. Perché il giornale che compila le pagelle più famose, ovviamente stiamo parlando de L’Équipe, ha un’altra scala di valori. Una scala che sembra assurda, a dir poco, se confrontata con la nostra – e con quella di altre testate europee. Basti pensare che N’Golo Kanté ha ricevuto un bel 3 al termine della finale dei Mondiali 2018 contro la Croazia, nonostante la vittoria per 4-2 della Nazionale di Deschamps. The Athletic è partito proprio da questa valutazione così strana (e così baassa) per provare a raccontare – a spiegare, a motivare – questa discrepanza così alta. Che rappresenta un problema non da poco anche per gli stessi calciatori: come ha detto un giocatore non meglio identificato che attualmente milita in Premier League, «io e i miei colleghi non ammetteremmo mai che diamo importanza alle valutazioni dei giornalisti. Ma lo facciamo, eccome se lo facciamo. Il voto di un giornalista può farti arrivare perfino a dubitare delle tue sensazioni, della tua analisi critica, quindi della certezza di aver giocato bene o male».

In un contesto del genere, quindi, le pagelle estreme de L’Équipe sono ancora più estreme. E rischiano di fare male. Il punto è che nella testata francese sono sicurissimi di ciò che fanno. Che questo sia l’approccio giusto. Lionel Dangoumau, caporedattore calcistico, ha spiegato così la scala adoperata dai suoi colleghi e sottoposti: «Dieci-perfetto, 9-eccezionale, 8-molto buono, 7-buono, 6-sufficiente, 5-medio, 4-insufficiente 3-cattivo, 2-molto cattivo, 1-catastrofico. Lo zero non lo diamo mai o quasi mai, diciamo che ce lo riserviamo per un comportamento particolarmente grave o antisportivo, per esempio quando un giocatore prende a pugni un avversario». Detto questo, si arriva al nocciolo della questione: considerando molti casi precedenti non proprio incoraggianti, primo tra tutti quello di Kanté, come diavolo si fa ad avere un voto alto dai giornalisti dell’Équipe? «Se un calciatore vuole ricevere una buona valutazione, deve giocare davvero bene», risponde Dangoumau. «Noi siamo molto esigenti, non basta segnare un gol per avere un 8 o un 7».

Succede spesso che gli appassionati di calcio, giocatori compresi, finiscano per dimenticare la complessità del gioco. Del loro stesso ambiente. I voti dell’Équipe, almeno secondo L’Équipe, provano a ricostruire e a mettere insieme tante variabili: «Cosa significa per un giocatore avere una buona partita?», dice ancora Dangoumau a The Athletic. «Un terzino deve solo difendere o deve anche supportare l’azione offensiva? Un attaccante che segna due gol ma sbaglia cinque occasioni nitide ha fatto una buona partita? E poi un altro aspetto di cui tener conto è quello relativo agli avversari: se affronti una squadra più debole, non puoi avere valutazioni troppo alte. Anche il livello dei giocatori è importante: da Messi e Ronaldo, per esempio, io mi aspetto sempre qualcosa in più rispetto agli altri». Basta leggere tra le righe di queste frasi per capire che Lionel Dangoumau sta parlando di fatti e situazioni che, alla fine, finiscono inevitabilmente per abbassare la valutazione individuale, non per alzarla. E allora è così che si spiega la severità dei giudizi dei giornalisti francesi. Anche se alla fine pure loro si sono un po’ ammorbiditi: negli ultimi cinque anni hanno dato più 10 (come voto) rispetto ai quaranta precedenti. In tutto sono stati tredici, l’ultimo è andato ad Alban Lafont, ex portiere della Fiorentina oggi in forza al Nantes, autore di una prestazione incredibile contro il Psg. Su questa scelta, Dangoumau racconta che «puoi essere troppo trattenuto o misurato. Ci sono momenti in cui anche l’emozione conta: cosa provi, cosa ti fa provare il giocatore. Se è davvero eccezionale, deve essere ricompensato».

Un’altra curiosità molto diffusa è quella relativa ai pagellisti, cioè ai giornalisti incaricati di dare le valutazioni individuali: come lavorano? Come fanno a seguire 22 giocatori per l’intera durata di una partita? Per rispondere a questa domanda, Dangoumau ha usato un po’ di sano realismo: «Tutto è soggettivo, ovviamente, e dopotutto anche il nostro lavoro è costantemente giudicato dai nostri lettori. Per le partite importanti, così da avere pluralità di giudizio, scegliamo più di un giornalista. Arriviamo fino a tre per le partite della Nazionale francese. Questo forse rende ancora più difficile il nostro lavoro, perché il calcio è un ambito in cui tutti hanno una propria opinione. Come per tutte le cose della vita, ci sono dei limiti che vanno compresi e accettati». Una delle domande più interessanti tra quelle poste a Dangoumau riguarda un ipotetico rovesciamento dei ruoli: e se fossero i giocatori a fare le pagelle dei giornalisti? «Ci sono molti giocatori contemporanei che potrebbero farlo, che avrebbero la personalità e la cultura per riuscirci. Il primo che mi viene in mente è Adil Rami. Per me un giocatore potrebbe valutare il lavoro di un giornalista, a patto che non scriva cose ridicole o disoneste». Magari potrebbero solo essere un po’ meno severi rispetto a L’Équipe. Così, per rasserenare un po’ gli animi.