Negli ultimi quindici anni, cioè da quando ha iniziato ad allenare in Serie A, Stefano Pioli è cambiato molto. È cambiato naturalmente nel fisico e nel volto, i capelli si sono diradati, si è fatto crescere la barba, e l’aura che emana oggi è decisamente diversa rispetto a quella dei tempi di Parma, Bologna, Roma, Firenze – tutte esperienze professionali di grande consistenza emotiva e che l’hanno inevitabilmente segnato, nel bene e nel male. La sua avventura al Milan è iniziata nell’autunno 2019, quindi forse è ancora troppo breve perché si possano notare altri e nuovi segni di mutazione, ma lo sguardo di Pioli, quello è cambiato davvero tanto se guardiamo ai primi giorni in rossonero. Basta confrontare due momenti: la conferenza stampa subito dopo Atalanta-Milan 5-0, giocata il 22 dicembre 2019, e i momenti vissuti al termine di un’altra sfida contro l’Atalanta, quella che è terminata 2-0 per i rossoneri il 15 maggio 2022.
Nella sala stampa dello stadio di Bergamo, a fine 2019, Stefano Pioli ha uno sguardo triste e spento e rassegnato, la sua espressione e l’atmosfera erano lugubri, l’allenatore del Milan dice esattamente le parole che si dicono quando si raggiunge il punto più basso, l’apice negativo di un cammino già difficoltoso: «Mi auguro che una sconfitta così pesante rimanga dentro la testa e dentro il cuore dei miei giocatori». A metà maggio del 2022, invece, Pioli ha il sorriso negli occhi, sul terreno di gioco non riesce a resistere alla tentazione di ballare – sì, ballare – mentre i tifosi intonano il coro che gli hanno dedicato sulle note di “Freed From Desire” di Gala; anche quando viene intervistato, fa fatica a nascondere la propria soddisfazione, tra le solite frasi fatte sul lavoro da compiere, sulla settimana da vivere normalmente ci sono degli elogi manifesti ai giocatori del Milan per ciò che sono riusciti a fare, per ciò che ha fatto anche lui. È andata allo stesso modo – la felicità, il ballo sul coro-canzone, l’intervista piena di orgoglio – quando il lavoro si è compiuto davvero, quando è arrivato lo scudetto. Com’era giusto e bello che fosse.
In un’intervista del 2011, Stefano Pioli definì se stesso «un testone, uno che quando è convinto di una cosa non cambia idea». Un paio di anni dopo, raccontò come il tempo fosse una condizione necessaria perché potesse fare bene il suo lavoro, non solo in quanto Stefano Pioli, ma in quanto allenatore: «Non credo che una stagione sia sufficiente per far assimilare tutte le tue idee di gioco, cultura e atteggiamento di un allenatore». Guardandolo da questa prospettiva, Stefano Pioli non è mai veramente cambiato. In realtà queste sue convinzioni e questi suoi atteggiamenti si sono accentuali. Anzi: si sono addirittura radicalizzati. Alla Lazio, all’Inter e poi alla Fiorentina, le sue ultime esperienze prima di arrivare al Milan, è come se avesse preparato il terreno per la semina successiva in rossonero, ovvero ha imparato e ha insegnato un gioco ad alta intensità, aggressivo, verticale, senza pause, inevitabilmente molto dispendioso dal punto di vista fisico ma anche mentale – accorciare e allungare costantemente il campo è una cosa che chiede e costa tantissima energia. Quando è arrivato al Milan, nel Milan (ri)costruito da Maldini e Massara con l’obiettivo di aprire un nuovo ciclo, gli è stato chiesto di giocare proprio in questo modo, anche perché la sua rosa non poteva che essere composta da calciatori da valorizzare, da giovani dinamici e affamati, quindi da atleti – fisicamente, culturalmente – in grado di praticare un calcio aggressivo, verticale, senza pause, di spendere tantissima energia in campo.
Col tempo, col lavoro, questo tetris di esigenze e tendenze si è rivelato perfetto. Basta fare una lista di nomi, per capire questo passaggio: pochi giorni dopo quel famoso Atalanta-Milan 5-0, nella rosa del Milan che boccheggiava a metà in classifica c’erano Calabria, Kjaer, Theo Hernández, Bennacer, Kessié, Saelemaekers, Krunic, Rebic, Rafael Leão, Ibrahimovic, praticamente la spina dorsale della squadra che ha vinto lo scudetto 2021/22. Certo, gli innesti di Maignan, Kalulu, Tomori, Tonali e Giroud sono stati fondamentali per vincere il titolo, per rendere ancora più efficace il gioco della squadra rossonera, per dare maggiore profondità all’organico. Ma è evidente che Pioli abbia allenato la sua squadra del 2019 e l’abbia fatta diventare sempre più quadrata, sempre più spigliata, sempre più consapevole delle proprie qualità – l’aneddoto per cui Paolo Maldini sia andato da Beppe Bergomi prima di un derby e gli abbia detto all’orecchio che «al Milan siamo forti» è diventato un po’ una leggenda, ma è anche un momento in grado di raccontare e simboleggiare questo processo di crescita.
Stefano Pioli ha fatto un capolavoro proprio perché ha saputo creare e aggiungere valore, fino al punto più alto, fino alla vittoria del titolo. L’ha fatto rispettando i programmi economici e strategici della società per cui lavora. E l’ha fatto in un modo veramente suo, perché come detto le sue squadre hanno sempre giocato così, esasperando la componente atletica ed emotiva, ma senza ridurre il calcio a una gara di triathlon o a uno scontro nervoso. Dietro lo scudetto del Milan ci sono delle intuizioni tattiche che appartengono a un allenatore in grado di comprendere e gestire i momenti senza perdere identità, piuttosto ampliando le alternative a disposizione. Giusto per fare qualche esempio: la conversione di Kalulu in difensore centrale dopo l’infortunio di Kjaer e l’accantonamento di Romagnoli; Rafael Leão trasformato nel laterale offensivo più devastante ma anche creativo del campionato; Theo Hernández che fa il terzino e l’incursore offensivo, ma che ha imparato a gestire il gioco e a rallentare e a difendere con dosi significative di accuratezza, costanza, concentrazione; l’invenzione del centrocampo a tre – con il ribaltamento del triangolo – nella sfida decisiva vinta in casa del Napoli e poi il nuovo spostamento di Tonali come attaccante-ombra nelle ultime gare del campionato, anche per sopperire all’unica grande carenza dell’organico dopo l’abdicazione di Ibrahimovic – la presenza di un attaccante diverso e anche più costante rispetto a Giroud. Sono tutte invenzioni che contribuiscono a scorticare l’etichetta di normalizzatore che Pioli si è portato appiccicata addosso per anni, e ora c’è anche uno scudetto sul petto a dimostrare che le cose erano diverse, che le cose sono diverse. Che Pioli è un tecnico raffinato e anche moderno, non ideologizzato eppure con una visione ben delineata del gioco del calcio. E che, proprio in virtù di queste doti, è perfetto per lavorare con squadre composte da giovani. Per prendere il talento potenziale e farlo diventare reale, spendibile. Non a caso, viene da dire, Maldini e Massara hanno scelto di proseguire con lui, piuttosto che finalizzare un accordo già trovato con Ralf Rangnick.
Un discorso simile si può fare per il Pioli-uomo e per il Pioli-comunicatore, da sempre dipinto come un freddo, come un asettico moderatore o inibitore delle emozioni – le sue, ma anche quelle degli altri. Pure in questo ambito è stato usato il termine normalizzatore, perché magari si tratta di un allenatore che usa toni bassi, sicuramente più bassi rispetto ad altri suoi colleghi, ma la realtà è piuttosto diversa, e non solo perché abbiamo visto Pioli ballare una discutibile hit dance degli anni Novanta. Lo ha confessato proprio lui, Stefano Pioli, ai microfoni di Milan TV pochi minuti dopo aver conquistato ufficialmente il primo titolo della sua carriera dopo il Campionato Allievi vinto col Bologna nel 2001: «Non sono così equilibrato, sono molto più emozionale di quello che riesco a trasmettere», ha detto con la solita voce mai sopra le righe, curvando un po’ le spalle in avanti, indossando una maglia d’allenamento del Milan su cui era già stato apposto lo scudetto tricolore.
Ripensandoci bene, non poteva essere altrimenti: i migliori pedagoghi sono quelli che riescono a stabilire un contatto non solo nozionistico con i loro allievi, quelli che sanno entrare nella loro testa. Per farlo davvero, per farlo bene, bisogna essere in grado di trasmettere emozione, coinvolgimento, fiducia, tensione positiva, tutto nelle dosi esatte e nei momenti giusti. Pioli al Milan è stato un allenatore-pedagogo perché ha preso dei calciatori che erano essenzialmente dei ragazzi e li ha portati – tutti, praticamente– a un livello superiore, perché ha preservato la loro freschezza e l’ha esaltata con un sistema di gioco riconoscibile ma non rigido, con dei riferimenti solidi ma sempre in evoluzione. Ma soprattutto perché ha convinto i suoi calciatori che, attraverso un’identità di gioco cucita su di loro, avrebbero potuto fare di tutto: vincere travolgendo gli avversari, ma anche reagire agli inciampi di un campionato equilibratissimo, portare a casa partite che sembravano ormai perdute, sopperire ad assenze lunghe e pesanti, colmare il gap con squadre che avevano rose più esperte e probabilmente anche più forti.
Una serie di capacità che non sono dei superpoteri arrivati all’improvviso, attraverso qualche accidentale mutazione genetica, piuttosto sono il frutto di un percorso, sono state costruite sul campo, nella testa, col tempo, da un allenatore che è cambiato molto ma in realtà non è cambiato mai, da un tecnico che ha sempre voluto cambiare le sue squadre e che ha trovato il luogo e gli interlocutori giusti perché le sue idee e i suoi metodi diventassero vincenti. Il fatto che questi interlocutori siano una società che si è insediata da poco e un gruppo di giocatori molto giovani e promettenti rende tutto ancora più nuovo e più bello, e allora si può dire che quello del Milan sia uno scudetto arrivato in anticipo, che sia una finestra aperta sul futuro. E che Pioli questa finestra l’ha costruita, ne ha oliato i cardini e poi l’ha spalancata, in modo che potesse finalmente entrare la luce, dopo anni di buio.