Sul finire degli anni Sessanta mio padre lavorava a casa, coinvolgendo, in vari ruoli, l’intero nucleo familiare. A me, per ragioni di età, spettava un compito decisamente gregario: aprire la porta, e accompagnare il paziente in sala d’attesa. Ho un ricordo piuttosto vago di quegli uomini e quelle donne. Negli abiti ancora piuttosto uniformi e tremendamente decorosi del periodo, sembravano tutti vagamente tristi, e intimiditi. Mi sono spesso chiesto cosa dovessero pensare, dopo aver trovato il coraggio di rivolgersi a uno specialista per affrontare turbe virate al tetro, vedendosi accogliere da un settenne allegro, che arrivava con qualche sforzo al catenaccio della porta. In compenso, so cosa pensavo io di loro: facevano vagamente paura, più o meno tutti tranne uno. Era un gigante talmente alto e grosso che per entrare doveva abbassarsi, e sorrideva sempre. Il nome non l’ho mai saputo – papà ovviamente non voleva, anche se in qualche caso, dopo anni di terapia, quelle figure misteriose erano quasi persone di famiglia. Però di quel ragazzone, cui cercavo di aprire sempre io – col senso di possesso del dottor Treves verso John Merrick, all’incirca – avevo scoperto una cosa, ai miei occhi importantissima: era un giocatore della Pro Recco.
La prima cosa che ho pensato, entrando nella piscina della Sciorba per il match di Champions fra la Pro Recco di oggi e gli ungheresi dell’Eger, è che probabilmente negli anni trascorsi da quella scena la psiche dei pallanuotisti si è consolidata – e che, anche in caso di cedimento, l’interessato non si trascina più fino a un lettino. Su quello di pelle e acciaio di papà facevo già fatica a immaginare il mio gigante, che non capivo come potesse starci: ma visualizzare in una situazione analoga il primo pallanuotista che ho visto in azione nel 2018 era ancora più azzardato. Stava in acqua non molto lontano dalla porta, e per moltissimi secondi emergeva in verticale quasi fino alla vita, mulinando furiosamente le braccia. Sembrava un gioco di spruzzi infantile, ma l’effetto sulla superficie della piscina era quello di una bomba di profondità. Primitivo, e impressionante. No, con tutta la fantasia del mondo, quella creatura non era fatta per giacere in orizzontale, approfondendo per cinquanta minuti dettagli sempre più minuscoli di un sogno.
Se volete immaginare le fasi di riscaldamento nella pallanuoto, dimenticate le pettorine gialle, i colpetti di testa in fila indiana, i palleggi in cerchio, i dieci metri di scatto esibiti a beneficio dei prepartita Sky o Mediaset. Qui si fa sul serio, e peraltro la televisione non c’è, a meno di non considerare tale qualche telecamera un paio di generazioni indietro, con sopra l’adesivo piuttosto malridotto di un’emittente locale. Ripeto, qui si fa sul serio. A turno, i giocatori in acqua tiravano verso la porta vuota, colpendo spesso i pali o la traversa – e in quel momento la formula in uso nel tennis quando un grande servitore prepara la prima palla («Adesso mette giù una lavatrice») cessava improvvisamente di avere una valenza metaforica: a giudicare dal suono, il metallo dei sostegni sembrava colpito, né più né meno, da un elettrodomestico, neanche tanto piccolo. Il pubblico non ci faceva caso. Stava provando cori non molto più elaborati di «Forza Recco», e non sono sicuro si potesse riadattare alla circostanza un’altra metafora corrente, quella del dodicesimo uomo in campo. Gli spettatori erano abbastanza rumorosi e competenti, questo sì, e soprattutto conoscevano i giocatori molto da vicino, per via di legami strettamente familiari: ma non saranno stati più di trecento.
Mentre Gaia Cambiaggi – che ha lavorato per mesi sulla pallanuoto cercando di capire come fotografarla – mi passava alcuni dettagli sulla squadra, i giocatori si sono sistemati a bordo piscina per la presentazione. Visti da cinque metri, tutto sommato erano meno imponenti di come li si immagina. Con quasi nessuno avrei voluto discutere per un posteggio, ma qui non c’è traccia delle metamorfosi fisiche, sempre un filino sospette, cui abbiamo assistito in tutti gli altri sport. Nei primi anni Settanta il libero del mio Genoa, Giorgio Garbarini, giocava in Serie A con una panciera che spuntava, vezzosa, dai calzoncini. Oggi gli energumeni in attività non vanno oltre qualche cerotto multicolore applicato sulla tartaruga, mentre probabilmente Eraldo Pizzo, con qualche anno in meno, potrebbe ancora scendere in acqua senza troppa palestra aggiuntiva – o almeno, questa è l’impressione.
In acqua, l’impressione cambia. Non so a quanto andassero ai tempi di Pizzo, ma oggi corrono parecchio. L’unico a prendersela con una certa flemma era l’omone pelato, con la lieve artrite tipica dei pescatori, che aveva il compito di tirare a bordo vasca – esattamente come avrebbe fatto con un palamito – il sostegno che blocca la palla a inizio gioco. Per il resto, fermo non stava nessuno, e la cosa che più colpisce in questo sport – come sempre dal vivo molto più che in televisione – è il ritmo. Al netto delle interruzioni per fallo, i pallanuotisti si fanno una vasca dopo l’altra senza fermarsi mai: e dopo un po’ la danza delle azioni – i passaggi in semicerchio, fino a quando si apre uno spiraglio per il tiro – finisce per ipnotizzare chi guarda. È un gioco di schemi quanto e probabilmente più del basket. Le rotture, che in genere portano a una fuga e a un gol, derivano quasi sempre da un errore degli avversari: ma sono rarissime, in un gioco che ha meccanismi implacabili. E la sensazione – più tardi i giocatori me l’hanno confermata – è che una squadra forte (mettiamo, la Pro Recco) non possa in nessun caso perdere contro un’altra più debole (mettiamo, stasera, l’Eger). Questo qualcosa toglie, non tanto allo spettacolo, ma alla tensione agonistica, al punto che per gli atleti uno dei problemi è mantenere alti concentrazione e livello, in un campionato dove le partite incerte sono tre o quattro a stagione.
Dopo la partita pubblico e giocatori si sono ritrovati per un bicchiere e un obbligatorio pezzo di focaccia. I giocatori della Pro Recco, cioè, perché quelli dell’Eger, sullo sfondo, erano ancora in acqua. A fine partita si erano avvicinati agli accappatoi, ma il loro tecnico – ungherese, e persino più feroce del suo collega sull’altra panchina – aveva tenuto un rapido discorsetto, comprensibile anche in magiaro: avete perso come una banda di dilettanti, quindi fate vasche finché non vi dico di smettere. Siccome non gliel’aveva ancora detto, i disgraziati continuavano, sempre meno convinti, a nuotare – un contrappasso anche più crudele di quanto sembri, dato che, ho scoperto, gran parte dei pallanuotisti prova per il nuoto una vera ripugnanza fisica.
Il Purgatorio altrui è sempre uno spettacolo rasserenante, e avrei continuato a godermelo se Daniele Roncagliolo, che cura i rapporti della Pro Recco con la stampa, non si fosse avvicinato per sondare il mio grado di pregiudizio verso la squadra. Nessuno, ho cercato di rassicurarlo, tentando di capire perché mai dovessi averne. Perché ce l’hanno tutti, mi ha spiegato. La Pro Recco quest’anno è arrivata allo scudetto numero 34 e alla decima Champions League, quindi a molti non è simpatica. Sai, ha continuato, come la Juventus. Ma io non ho prevenzioni sulla Juventus, ho mentito. Se vince vuol dire che è la più forte, ho perseverato, senza un minimo di vergogna. Però è vero che non ho prevenzioni – sulla Pro Recco.
Sono nato a Genova, dove è sempre stata parte del paesaggio, proseguendo con la nota abnegazione rivierasca un lavoro impostato da altri. I primi quattro campionati, fra il 1912 e il 1919, vennero vinti, come è ovvio, dai signori che avevano dato vita all’apposita sezione del Genoa Cricket and Football Club 1893. Poi, con la consueta magnanimità, il Genoa aveva lasciato spazio ai seccatori di sempre, la Società Ginnastica Andrea Doria, che con la solita smania di strafare titoli se ne era portati a casa addirittura otto. Eravamo agli inizi degli anni Trenta, e da quel momento in poi, nonostante i rispettabili interregni della Rari Nantes Napoli, e in anni più vicini del Posillipo, la pallanuoto è diventata una questione litoranea, cui hanno dato vita quasi tutti i borghi a Ponente e a Levante di Genova, con due attori nel ruolo di nemici giurati: il Camogli, che ha vinto sei scudetti, e appunto la Pro Recco, che ha in bacheca più o meno tutti gli altri.
Per il servizio, Gaia ha scelto i Bagni Sillo di Sori. La sua idea credo fosse ritrarre i ragazzi come creature quasi fantastiche e anfibie, solo momentaneamente emerse dall’acqua. Sotto la tettoia dei bagni, però, l’atmosfera era più realistica: come in tutti i posti migliori della regione, sembrava di essere in un vago dopoguerra. Merito di Giovanna, che ha lasciato tutto come l’ha trovato trent’anni fa, o quasi. Giovanna ha la biografia di tutte le grandi indigene – una stagione all’inferno, che per i liguri significa sempre e solo Milano, un passaggio in India, e poi la scoperta di quello che aveva già sotto gli occhi, il Golfo Paradiso – e la strepitosa bellezza della sua etnia, l’ultima a saltare in blocco le pagine dei magazine che illustrano i danni dell’esposizione eccessiva ai raggi UVA. Non so se il Golfo Paradiso meriti fino in fondo il suo nome – le petroliere all’orizzonte contro il cielo plumbeo sembravano smentirlo, la cucina di Giovanna però lo confermava. Dopo pranzo, insieme al sole, sono arrivati i ragazzi. Uno a turno, sono scesi agli scogli con Gaia, e uno a turno si sono seduti davanti a me. Dato il loro impaccio, ormai quasi esotico in un mondo amministrato per intero dai media, la chiacchierata ha finito per sembrare un interrogatorio di persone informate sui fatti. Ne ho ricavato poco, oltre alla consapevolezza che la pallanuoto non si lascia tanto raccontare. È un congegno, un meccanismo, bello quando funziona, punto.
La squadra è un’ossessione, al punto da cancellare quasi del tutto le impressioni personali, o persino i ricordi. Certo, poi ognuno ha i suoi gusti. Aicardi, ad esempio, uno dei più titolati, sostiene che la sua vera passione è menare: gli avversari, ma soprattutto i compagni, quando se li ritrova contro in Nazionale. Però non è un tratto comune, anzi. È uno sport strano. Ci si arriva quasi per caso, come è successo a tutti loro. Oppure, la si sceglie in circostanze, se non in Paesi, improbabili. Gonzalo Oscar Echenique, ad esempio, in acqua se la cavava, solo che in Argentina un campionato vero e proprio, ai suoi tempi, non esisteva. L’unica era quindi chiedere a un funzionario spagnolo di passaggio a Rosario un provino in Europa. A Gonzalo è andata bene, e adesso vive a Sori, con un cane che ha chiamato Sori. Gli ho chiesto perché, e mi ha risposto con un sorriso, più la stessa parola usata poco prima per descrivere cosa gli piacesse veramente, del gioco: improvisasiòn.
Eraldo Pizzo non era uno che improvvisava, notoriamente, e non lo è neanche adesso. Si lamenta del mal di schiena, ma è evidente che tornerebbe in acqua anche domani. Ci siamo visti un un bar di Recco, verso sera, e in due ore mi ha raccontato molto più di quello che posso riportare. Dovendo scegliere, però, prendo l’inizio della storia. È cominciato tutto qui, mi ha detto. Ha indicato gli orridi palazzotti anni Sessanta tutto intorno, ma era ovvio che vedeva il borgo del 1946, raso al suolo da 27 bombardamenti a cura di quei fanatici della precisione dello Strategic Air Command, che in teoria puntavano al viadotto ferroviario. A pallanuoto allora si giocava in mare, e dal mare, due porte, e quattro file di galleggianti i fratelli Pizzo e i loro amici avevano ricominciato. Ma c’era una novità: prima della guerra, gli arbitri si sistemavano su una barchetta, lasciandosi sballottare dalle onde, mentre ora i nuovi regolamenti imponevano la costruzione di un pontile, anzi due, pena la non omologazione della squadra. Per dare una mano, il sindaco di Recco aveva scritto ai cittadini di presentarsi un certo giorno in piazza portando non soldi, ma cemento.
Così, Recco aveva avuto la miglior approssimazione possibile a uno stadio del nuoto – e al resto più o meno ha pensato, fino al 1982, il Caimano. Neppure lui mi ha detto molto del gioco, però. Sì, che quello che distingue un fuoriclasse è la capacità di intuire un attimo prima degli altri quando, e perché, fischierà l’arbitro, che nella pallanuoto è un attore fondamentale. E che, esclusi i presenti, l’unico campione autentico che avesse conosciuto era stato Gianni De Magistris. Quei dribbling – qui Pizzo ha addirittura accennato al movimento, o stava per farlo. Ma poi si è intristito. La pallanuoto continua a piacermi, mi ha detto, ma oggi è diventata troppo densa.