Citizen Lotito

Come ha fatto il presidente della Lazio a realizzare finalmente una delle sue ambizioni più recondite: diventare senatore.

La vita di Claudio Lotito è la storia di un uomo che voleva essere ubiquo: essere in tutti i luoghi in tutti i momenti, soprattutto partecipare a tutte le discussioni e contribuire a tutte le decisioni. Durante un’assemblea societaria della Lazio tenutasi qualche anno fa, uno dei soci si interruppe nel mezzo del suo intervento perché Lotito si era distratto leggendo qualcosa su un foglio: «Continui, continui pure. Sono dotato di sinestesia, riesco a seguirla lo stesso», disse Lotito, senza staccare gli occhi dal foglio, leggendo e parlando nello stesso momento, protagonista di due discorsi contemporaneamente: il monologo nella sua testa e il dialogo con il socio, la sinestesia come addestramento all’ubiquità. L’immagine che meglio lo rappresenta è una che nel corso degli anni è diventata un meme, quella in cui il presidente della Lazio tiene un telefono poggiato all’orecchio destro e un altro al sinistro, impegnato in due conversazioni nello stesso momento. Un telefono magari era dedicato alle questioni di lavoro, alla vita da imprenditore, alle conversazioni in cui è “l’uomo delle pulizie”, il soprannome che gli è valso il successo cominciato con la S.n.a.m Lazio Sud. L’altro telefono forse serviva per discutere della Lazio o magari della Figc, l’altra metà della sua passione calcistica. Chissà se ora che è stato eletto al Senato della Repubblica – trionfo nel collegio uninominale e blindato del Molise – Lotito aggiungerà un terzo telefono e una terza conversazione, chissà con quale orecchio ascolterà e con quale bocca parlerà e di cosa e con chi.

Lotito ha sempre voluto fare politica, come dimostrano gli anni da re oscuro nel regno di Carlo Tavecchio, pontefice mantenuto sul soglio della Figc ben oltre il limite dell’impresentabilità solo grazie all’abilità manipolatoria e diplomatica di Lotito. Per chi coltiva la velleità della politica, in Italia ci sono due scorciatoie possibili: quella che passa per il mondo dell’impresa e quella che passa per il mondo del pallone, e Lotito le ha prese entrambe. Stando ai suoi piani, avrebbe dovuto raggiungere la condizione di uno e trino – imprenditore, presidente, senatore – già da un pezzo, ma di mezzo si sono messe le lungaggini burocratiche che alla sua constituency molisana ha promesso di rimuovere (il primo obiettivo è la fine del commissariamento della sanità, ha detto in campagna elettorale) una volta entrato nella Camera alta del Parlamento.

Si era già candidato nel 2018 nel plurinominale campano, non era andata bene ma lui non si è mai arreso: ha passato tutta la successiva legislatura a intentare ricorsi pur di ottenere per via legale quello che gli era stato negato per via elettorale. Ma ha fatto prima la legislatura a finire che gli organi preposti a dirimere la faccenda Lotito, così si è arrivati alla campagna elettorale, alla candidatura in Molise e all’elezione al Senato. Sempre con Forza Italia, perché pare che con Berlusconi ci siano affetto antico e affinità elettive. Così come della mitologia berlusconiana è parte fondamentale quella foto scattata per L’Espresso da Alberto Roveri nel 1977 negli uffici dell’allora Edilnord, quella in cui si vede un pistola posata sulla scrivania del giovane Cavaliere, quasi allo stesso modo il romanzo di Lotito comincia nel 1992 con una pagina di giornale: titolo “Arrestato un imprenditore, appalti miliardari”, sottotitolo “Bella presenza, 35 anni, pistola in tasca, telefonino, è fidanzato con una delle figlie del costruttore Gianni Mezzaroma”. Il successo ottenuto in una vita si misura con il numero di parole necessarie a essere descritti, a essere spiegati: se la stessa cosa successa nel ’92 si ripetesse oggi, per dire tutto basterebbero tre parole, “Arrestato Claudio Lotito”.

Chi vi ha assistito – c’è uno stupendo reportage di Simone Canettieri per Il Foglio – racconta la campagna elettorale di Lotito in Molise come una trasposizione centroitaliana del secondo atto di Citizen Kane, quella parte del film in cui Charles Foster Kane decide di cominciare una scalata che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto portarlo fino alla Casa Bianca. Citizen Lotito sembra sia stata una versione di quella storia aggiustata però alla modestia dei mezzi e delle ambizioni, riscritta in chiave comica da ghost writer che potrebbero essere Luca Medici/Checco Zalone e Antonio Albanese/Cetto La Qualunque. Per il mese di campagna elettorale Lotito si è trasferito nella sua Xanadu molisana, l’hotel Don Gugliemo di Campobasso, che è stato il luogo sia degli imbarazzi iniziali che del trionfo finale. «Io il Molise non sapevo neanche dov’era, ma poi l’ho battuto tutto, in lungo e in largo», ha detto, anche per rispondere a chi lo accusava di essere candidato straniero in terra incognita. La campagna elettorale in effetti non era cominciata benissimo, con quella gaffe su Amatrice e sull’Abruzzo: «Conosco l’Abruzzo perché mio nonno era di Amatrice», aveva detto. Amatrice però è nel Lazio, gli avevano fatto notare. «Sì, ma solo dal 1927», a nonno già nato e cresciuto, aveva ribattuto lui. Ma tutto questo che c’entra con il Molise? A urne chiuse e seggio assegnato, ancora non lo abbiamo capito.

La pagina del Messaggero del 1992 sull’arresto di un Lotito ancora sconosciuto e “di bella presenza”. Ne uscirà completamente innocente, ma il giornale è diventato una sorta di feticcio.

Nel frattempo però Lotito ha capito come si fa la campagna elettorale, rispolverando la peculiare poetica che nei suoi primi anni da presidente della Lazio lo aveva reso uno dei personaggi (idolo, macchietta o zimbello, a seconda dei punti di vista) del calcio italiano. Una poetica che mette assieme l’alto e il basso, citazioni colte e battute in vernacolo, riferimenti elitari e ammiccamenti popolari, i valori di Abebe Bikila («ci ispiriamo a lui», disse in una delle sue più memorabili uscite da presidente laziale) e gli aforismi di Vittorio Alfieri («volli, sempre volli, fortissimamente volli» pare sia la citazione preferita di Lotito). Quando si presentò ai giocatori della Lazio, chiese loro di essere «i suoi gladiatori». Quando si è presentato agli elettori molisani, consapevole che la rappresentanza politica è innanzitutto servizio al cittadino, ha usato la stesso segno invertendone però la direzione e quindi il significato: «Sarò il vostro gladiatore», ha detto. Tra Campobasso e Isernia i suoi comizi sono già la materia delle leggende: non si era mai visto uno capace, nel tempo ristrettissimo del discorso politico, di passare dai rimandi all’antichità classica romana («Siete Sanniti, avete già piegato i Romani. Lo faremo di nuovo per ottenere dignità e fondi») alle citazioni del recente passato populista italiano: se per Beppe Grillo era una scatoletta di tonno da aprire, per Lotito il Parlamento è una porta «da sfonnà».

Lo hanno definito fenomeno, per la sua capacità di fare le tre di notte al pub Il Sagittario di Campobasso e la mattina dopo svegliarsi prestissimo per rompere il digiuno assieme ai prelati di Isernia. Ma lui lo ha già spiegato nei suoi anni da presidente della Lazio: non è fenomeno ma noumeno, non appartiene al mondo dei sensi ma a quello del ragionamento. E in effetti è solo tramite ragionamento che si può capire come uno il giorno prima possa cantare a squarciagola “Lotito is on fire” fino a notte fonda e all’alba del giorno dopo intavolare una discussione con i monsignori sull’interpretazione escatologica del cristianesimo. Ma niente è impossibile per chi possiede il dono della sinestesia e desidera il potere dell’ubiquità. Ora il presidente Lotito è diventato il senatore Lotito, e vedremo se il suo rapporto con gli elettori molisani andrà come quello con i tifosi laziali (ci auguriamo di no, per i molisani soprattutto). Di sicuro c’è che è riuscito a costruire un’altra occasione giusta in cui pronunciare una delle sue massime preferite: «Il periodo è stato impegnativo ma alla fine vinco sempre io, vedete». Autore: Claudio Lotito.