Non si poteva restare indifferenti a Sinisa Mihajlovic

Grande calciatore, poi allenatore, mai banale e spesso controverso: il calcio italiano perde un personaggio amato e complesso.

Sinisa Mihajlovic ha vinto una Coppa dei Campioni, l’ultima Coppa dei Campioni dell’albo d’oro. Con la Stella Rossa di Belgrado. L’anno dopo nacque la Champions League. Un successo storico. In semifinale lui e i suoi compagni eliminarono il Bayern Monaco. Nella gara di ritorno prima segnò su punizione da trenta metri, e poi al 90esimo, con i supplementari alle porte, fu un suo cross basso a indurre Augenthaler ad allungare il suo gambone e a provocare un clamoroso autogol. In finale quella Stella Rossa, ancora jugoslava, inflisse al Marsiglia di Tapie la più cocente delusione della sua breve e luminosa parabola. Si giocò allo stadio San Nicola di Bari. Mihajlovic era come al solito schierato a centrocampo, da mezz’ala. La mediana di quella squadra era composta da lui Prosinecki, Jugovic e Savicevic. La finale venne decisa ai rigori: gli slavi non ne sbagliarono uno. Segnarono il croato Prosinecki, il serbo Binic, il rumeno Belodedici, Sinisa (serbo, di madre croata), e il macedone Pancev. Il suo rigore lo calciò così: rincorsa lunga e mazzata rasoterra a incrociare. Era il 29 maggio 1991. Fu l’ultimo atto di una grande scuola calcistica. L’anno dopo, agli Europei, alla qualificata Jugoslavia non fu consentito di andare a giocarsela: il Paese si stava disgregando in una cruenta guerra civile. La risoluzione dell’Onu ebbe ripercussioni anche sul calcio. La Nazionale venne esclusa dal torneo. Fu ripescata la Danimarca, che quel torneo finì per vincerlo.

È uno dei tanti capitoli della vita di Sinisa Mihajlovic morto ieri a soli 53 anni, stroncato da una malattia infame che troppo spesso non perdona. È come se Mihajlovic di vite ne avesse vissute molto più di una. L’ultimo atto, la leucemia, il modo pubblico in cui lui l’ha affrontata, hanno profondamente cambiato e influenzato il giudizio complessivo sull’uomo e sul personaggio. Che è sempre stato, come lui stesso ha ammesso, profondamente divisivo. Soprattutto per le sue prese di posizione extra-calcistiche, quasi tutte incentrate sugli anni della guerra civile. Su tutto e tutti, il suo necrologio per la tigre Arkan ossia il criminale di guerra Zeljko Raznatovic, capo delle milizie paralimitari serbe: le Tigri.

Necrologio che lui non ha mai rinnegato, come ribadì in un’intervista al Corriere della Sera del 2009: «Lo rifarei, perché Arkan era un mio amico: lui è stato un eroe per il popolo serbo. Era un mio amico vero, era il capo degli ultras della Stella Rossa quando io giocavo lì. Io gli amici non li tradisco né li rinnego. Conosco tanta gente, anche mafiosi, ma non per questo io sono così. Rifarei il suo necrologio e tutti quelli che ho fatto per altri». Sugli aspetti controversi – eufemismo – del personaggio si espresse così: «Le atrocità? Voi parlate di atrocità, ma non c’eravate. Io sono nato a Vukovar: lì i croati erano maggioranza, noi serbi minoranza. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni aveva vissuto insieme da un giorno all’altro si sparava addosso. È come se oggi i bolognesi decidessero di far piazza pulita dei pugliesi che vivono nella loro città. È giusto? Arkan venne a difendere i serbi in Croazia. I suoi crimini di guerra non sono giustificabili, sono orribili, ma cosa c’è di non orribile in una guerra civile?»

Era la cifra di Mihajlovic, uno che diceva di aver nostalgia della Jugoslavia di Tito. E a chi lo accusava di fascismo rispondeva: «Che vuol dire nazionalista? Di sicuro non sono un fascista come ha detto qualcuno per la faccenda di Arkan. Ho vissuto con Tito, sono più comunista di tanti. Se nazionalista vuol dire patriota, se significa amare la mia terra e la mia nazione, beh sì lo sono». La sua ostentata difesa di Arkan non passò inosservata ad Adriano Sofri, che espresse così il proprio punto di vista quando Sinisa divenne allenatore della Fiorentina: «Sono anch’io, nei miei limiti, amante del calcio e tifoso: il tifo ha vizi tremendi, ma ha anche il pregio di farci ricordare di essere stati ragazzi, e dunque di farci ammirare ancora un calcio piazzato da un artista come Mihajlovic. Non mi sognerei affatto di mettere Mihajlovic al bando da una città o da una squadra. Mi piacerebbe sapere che ha ripensato a tutto quello scempio, e che gli dispiace tanto. Allora lo stato d’animo di tanti tifosi viola – “forse ci voleva una mano un po’ più dura per la nostra squadra” – non suonerebbe allarmante, ma scanzonato e augurale».Particolarmente sgradevoli furono le parole di Mihajlovic su Anna Frank quando gli chiesero di commentare la trovata di pessimo gusto di alcuni laziali che stamparono la figurina della piccola vittima del nazismo con la maglia della Roma. «Non so chi sia, a scuola non ce la facevano studiare. Voi sapete chi è Ivo Andric, premio Nobel per la letteratura?». Versione che non ha mai troppo convinto.

Era uno che cercava lo scontro. In campo e soprattutto fuori. O che, comunque, non faceva granché per evitarlo. Un po’ gli piaceva l’immagine del duro che non si tira mai indietro. Un po’ si fece ingabbiare dal suo stesso personaggio. Di certo non era tagliato per il politicamente corretto. Nella società contemporanea, in cui tutto è vivisezionato e ciascuno si sente in diritto di esprimere giudizi e opinioni su qualsiasi argomento, anche il suo modo di affrontare la malattia è stato oggetto di discussione. È stato un modo pubblico di vivere il dolore. Ancora oggi leggiamo di critiche più o meno velate al presunto approccio da duro. Impartire lezioni da questo pulpito diventa complesso, oltre che inopportuno. È un tema su cui non ci sentiamo di poter dire nulla. Al dolore ciascuno reagisce come sa e come può. Di certo la malattia ha fatto calare l’oblio sull’altro Sinisa. Quello guascone, antipatico, irritante, scorretto, maleducato e persino razzista. A Vieira disse “ne*ro di merda”. Anni dopo, ammise: «Non lo rifarei». Però aggiunse: «Da quando gioco a calcio, ho dato e preso sputi e gomitate e insulti. Succede anche con Vieira. Gli dico nero di merda. Tre giornate di squalifica. Sbagliai, e tanto. Lui però mi aveva chiamato zingaro di merda per tutta la partita. Per lui l’insulto era zingaro, per me era merda. Nei confronti di noi serbi, il razzismo non esiste».

Da allenatore, Mihajlovic ha allenato solo club italiani – Bologna, Catania, Fiorentina, Sampdoria, Milan e Torino – e la Nazionale serba, tra il 201 e il 2013; è stato anche sotto contrtto con lo Sporting Lisbona, ma è stato esonerato prima che potesse esordire sulla panchina del club portoghese (Claudio Villa/Getty Images)

La leucemia s’è portata via tutto il pregresso. «Anche le tifoserie avversarie mi hanno applaudito: forse questa storia ha unito la gente, quando io sono sempre stato uno divisivo», confessò. Sua figlia Viktorija disse: «La malattia l’ha reso più empatico. Prima mi abbracciava, ma il dialogo non c’era, mentre ora parliamo. Papà era il sergente Sinisa anche a casa. Quello che a tavola devi finire tutto e non si guarda il cellulare, quello che tutti i lunedì, suo giorno libero, veniva a parlare con la preside perché io sono sempre stata ribelle: non sopporto le ingiustizie e rispondevo ai professori. Per questo, lui mi metteva in punizione. Una volta, dopo due settimane chiusa in casa a giugno perché avevo preso due debiti a scuola, lo imploro di farmi uscire e lui: vai sul balcone».

Quasi non ci si ricorda più che Sinisa è stato soprattutto un calciatore. Un bel calciatore. Discretamente forte. Con un sinistro che potremmo definire ai confini della realtà. C’è chi sostiene che il pallone da lui calciato raggiungesse i 160 chilometri orari. Arrivò in Italia nel 1992, aveva 23 anni. Boskov lo volle con sé alla Roma. Giocava a centrocampo con Bonacina, Giannini e il tedesco Hassler. Rimase in giallorosso due stagioni, la seconda con Mazzone in panchina. Poi passò alla Sampdoria, squadra che per anni è stata specializzata nel recupero di talenti che altrove erano sfioriti. L’elenco di esempi è lunghissimo, ne citiamo due: Ruud Gullit e Antonio Cassano. I doriani non lo pagarono neanche poco: 22 miliardi delle vecchie lire. Alla Samp incontrò Sven-Goran Eriksson con cui avrebbe vinto lo scudetto alla Lazio. La svolta della sua carriera avvenne il 25 ottobre 1995: Cagliari-Sampdoria di Coppa Italia. Finì 2-1 per i sardi, con tre espulsi: per la Sampdoria, Franceschetti e Sacchetti; al 25esimo erano già in nove uomini. A quel punto Eriksson spostò Sinisa al centro della difesa. Lo svedese profetizzò: «In quel ruolo diventerà un grande. Ci giocherà per più di dieci anni». Mihajlovic ha poi ricordato così quell’episodio: «Eriksson è stato colui che mi ha arretrato. Mi diceva che avrei dovuto giocare difensore centrale ma io ero in disaccordo. Non provammo mai, poi in Coppa Italia contro il Cagliari venne espulso Mannini (non è vero, ndr) e mi mise difensore. Da lì è partito tutto».

Non era un centrale velocissimo ma aveva senso della posizione e tempismo negli interventi. Si aiutava di esperienza, e poi a pallone sapeva giocare. Giornata dopo giornata, affinò il suo terrificante calcio da fermo. Il paradosso fu che segnava più da difensore che da centrocampista. Le sue punizioni cominciarono a diventare un appuntamento fisso, uno show nello show. Esagerando, ma nemmeno troppo, con lui in squadra una punizione dai 25-30 metri poteva essere considerata quasi un rigore. Eriksson lo volle con sé alla Lazio. Dove vinse uno scudetto, due Coppe Italia, una Supercoppa italiana, una Coppa delle Coppe e la Supercoppa europea del 1999, battendo 1-0 il Manchester United di Alex Ferguson. Quella sera fece coppia centrale con Nesta, alle spalle di Almeyda e Veron. Era la Lazio d’oro di Cragnotti. Uno squadrone.

Il 13 dicembre del 98, si giocò Lazio-Sampdoria di Serie A. Finì 5-2. Mihajlovic di punizioni ne segnò tre. Nella sua autobiografia lo racconta così: «Con Mancini ci piaceva scommettere tra noi prima delle partite; stavolta però lui sceglie il giorno sbagliato per sfidarmi: “Ti do un milione per ogni gol che segni”. In porta c’è Ferron, abbiamo giocato insieme nella Sampdoria, mi allenavo con lui a Genova quando calciavo le punizioni. Nel sottopassaggio lo avverto: “Fabrizio, non ti muovere prima, non fare il fenomeno, perché se fai un passo, tiro una fucilata sul tuo palo e ti faccio fare brutta figura”. Lui sapeva che ne ero capace, perché guardavo fino all’ultimo il movimento del portiere. E io sapevo che avrebbe aspettato nel suo angolo la partenza del pallone. Non mi restava che scavalcare la barriera. Lo faccio al 29’: e uno. Ripeto la dinamica al 45’: e due. Concludo la trilogia al 52’: e tre. Tripletta! Tre gol su punizione da fuori area, forti e all’incrocio in poco più di un quarto d’ora. La fortuna di Ferron è che non ne fischiano altre. Tre milioni.  La partita finisce 5-2, e vado da Mancini: “Mi devi tre milioni”. E lui, serio: “No, perché abbiamo preso due gol. Te ne do uno solo”. “Non ci provare, Mancio. Io che c’entro?”. “Tu giochi in difesa, non li dovevi far segnare”. Mi ha dato solo un milione, il furbo».

Tre punizioni, tre capolavori

Fu proprio Mancini a volerlo con sé all’Inter, dove Sinisa concluse la carriera di calciatore. Era il 2006. A maggio vinse lo scudetto con gli scarpini ai piedi, a luglio era sulla panchina come vice Mancini. Lì è cominciata la sua seconda vita. Non ce ne vogliano i lettori, e nemmeno Sinisa, ma la sua carriera da allenatore non è neanche lontanamente paragonabile a quella da calciatore. In parte ingabbiato nel suo personaggio di sergente di ferro, il tecnico Mihajlovic ha avuto la capacità di essere sempre disposto ad apprendere. Ci ha provato, si è messo in gioco. Ma senza mai riuscire a trovare un profilo che lo contraddistinguesse.

Ha avuto qualche stagione buona, la miglior alla Sampdoria dove subentrò a Delio Rossi e raggiunse nel 2015 il settimo posto in Serie A. In quel periodo sfiorò la panchina del Napoli che gli preferì Maurizio Sarri. Lui finì al Milan: un’esperienza non memorabile dove però ebbe il merito di far esordire il sedicenne Donnarumma. Anche a Bologna, nell’ultimo periodo, si è specializzato nel lancio dei giovani talenti: Orsolini, Juwara, Tomiyasu, Barrow, Theate. Ma nulla in confronto all’aver fatto parte di un gruppo di calciatori straordinari che nel bel mezzo delle loro carriere si sono ritrovati a fare i conti con un tragico evento che ha distrutto per sempre il Paese in cui erano nati e cresciuti.