«Se ti piace il surf, vai alle Hawaii. Se ami lo shopping, devi andare a New York. Se vuoi recitare, la California è il posto per te. Ma se ti piace il college football, devi andare in Texas». Lo ha detto Ricky Williams, e se fossimo nelle condizioni culturali di dare per scontato il significato di questa affermazione, a questo punto potremmo parlare di lui, di Williams, e della sua carriera decisamente fuori dall’ordinario. Ricky Williams giocò in NFL nel primo decennio del secolo: schiacciato dall’ansia quando la salute mentale dei giocatori non era una questione, fu più volte squalificato per aver fatto uso terapeutico di marijuana; fu anche uno dei primi giocatori vegani nonché un raro caso di running back che sfrecciava ancora a 32 anni, nonostante in quel ruolo sia normale vedere atleti di 26 o 27 anni finire scalzati dai rookie appena usciti dal college. Williams ha una gran storia, insomma, ma sarà per un’altra volta: dobbiamo restare su quella frase. «Se ti piace il college football, devi andare in Texas». Perché?
Anche chi non ha mai visto una partita di football americano, anche chi si considera completamente disinteressato alla disciplina, vive una condizione di strana familiarità con questo sport, per via della sua impronta sproporzionata nelle vite degli statunitensi e dell’influenza globale della loro cultura. Le uniformi e i paraspalle sono inconfondibili anche per noi. Sappiamo o pensiamo di sapere chi sia e cosa faccia un quarterback. Forse una sera abbiamo visto quel film con Will Smith sui traumi cranici dei giocatori. Ogni anno arriva quel lunedì mattina di febbraio in cui guardiamo l’halftime show del Super Bowl e sui social media ci passano davanti gli spot trasmessi durante le sue molte pause. A parità di disinteresse, insomma, sappiamo di football molto più di quanto sappiamo di cricket, per dire, o del baseball. Eppure, ci sono moltissime cose del football che non capiamo davvero, prima ancora di arrivare alle regole del gioco. Il fatto che le squadre possano spostarsi da una città all’altra senza che scoppi la guerra civile, per esempio: pensate cosa accadrebbe se domani l’Inter diventasse la squadra di Torino e il Napoli quella di Brescia. Il fatto che in NFL non si possano “comprare” i giocatori, e che siano le squadre più deboli ad accaparrarsi sistematicamente i giovani più forti e promettenti. Il fatto che una stagione duri solo cinque mesi, e ancora meno per le squadre che non si qualificano ai playoff. Il fatto che sia uno sport redditizio, che porti enormi ricavi ai proprietari delle squadre, e non un giocattolo per milionari annoiati o emiri con soldi da buttare.
E poi c’è questa storia incomprensibile del football giocato dagli studenti, e del suo seguito. Amiamo descrivere gli italiani come un popolo malato di calcio, eppure la gran parte delle squadre di Serie A – cioè il meglio del meglio che il movimento sia in grado di esprimere – fa fatica a portare allo stadio trentamila persone per una partita di campionato. Ecco, in Texas trentamila persone è il pubblico di una partita di cartello fra le squadre di football di due scuole superiori; mentre una normale partita di campionato fra ragazzini porta facilmente allo stadio almeno diecimila persone. Anticipo la domanda: il biglietto si paga. Le squadre dei college, poi, giocano ogni settimana dentro impianti monumentali costruiti solo per loro, e davanti a un pubblico più numeroso di quello di una finale di Champions League: la squadra della University of Texas, i Texas Longhorns, gioca in uno stadio da oltre centomila posti; lo stadio della University of Michigan ne ha centosettemila ed è il terzo più capiente al mondo, preceduto solo dal Narendra Modi Stadium di Ahmedabad, in India, e dallo stadio cittadino di Pyongyang, in Corea del Nord. E lo riempiono, quasi sempre.
Il livello tecnico della competizione non spiega questo successo. Se i giocatori di NFL sono degli alieni, tanto che molte delle partite vengono decise da dettagli, colpi di genio e sbavature, nel college football capita spesso di vedere errori marchiani e giocate sbagliate: d’altra parte soltanto l’uno per cento dei giocatori di college finisce in NFL, mentre gli altri vanno a fare gli architetti, i consulenti, gli psicologi, i direttori del marketing, eccetera. Può darsi che siano entrati al college perché considerati promettenti come giocatori più che come studenti, ma di certo pochissimi usciranno con la stessa etichetta. Le partite di high school, poi, sono ancora più dilettantesche e sgangherate: e in molte delle zone più rurali degli Stati Uniti può capitare di vedere in campo soltanto cinque o sei giocatori per squadra, invece che undici. Non ci sono abbastanza ragazzini. Eppure, il pubblico sugli spalti non manca mai.
Una parziale spiegazione di questo fenomeno richiede di familiarizzare con gli ordini di grandezza dello sport e della geografia statunitense: ci sono soltanto 32 squadre di NFL, in una nazione che è grande 33 volte l’Italia. Per moltissimi americani, insomma, il football che conta si può vedere con passione ma soltanto da lontano, e senza il profondo legame identitario col quale si segue la squadra della propria città. Senza contare che, appunto: quale città? I Los Angeles Rams, che hanno vinto l’ultimo Super Bowl, furono fondati a Cleveland e soltanto pochi anni fa erano la squadra di St. Louis. Gli attuali Las Vegas Raiders erano i Los Angeles Raiders che erano gli Oakland Raiders. Con le squadre di high school e quelle dei college, invece, è tutto diverso: non si possono spostare e non si sposteranno mai. Un’altra parziale spiegazione è l’affascinante e generale ossessione degli statunitensi per lo sport: il popolo più sedentario al mondo non concepisce l’esistenza di un pub senza quattro tv che trasmettano in ogni momento quattro competizioni sportive diverse, e vive la propria vita partita dopo partita.
Un’altra ancora è la qualità impareggiabile dell’esperienza-stadio, in NFL come alle partite dei ragazzini: ci sono tantissimi bambini e tantissime donne, non ci sono perquisizioni vessatorie, si parcheggia facilmente, si mangia e si beve senza stare in coda, i bagni sono puliti, il tifo è intenso ma festoso e – con tutte le eccezioni del caso – nessuno insulta nessuno. Non esiste il “settore ospiti”, perché a nessuno verrebbe mai in mente di malmenare un tifoso avversario. Eppure, queste spiegazioni non sono abbastanza. C’è qualcosa di molto più profondo, nel legame tra gli americani e il football: dalle fantasie violente alla resistenza ai colpi più duri, dalla tenacia al sacrificio, dal numero impressionante di schemi e giocate da memorizzare fino alle infinite possibilità di riscatto, negli Stati Uniti questo sport è il surrogato di ogni esperienza umana.
Torniamo quindi al punto da cui eravamo partiti, da quella frase di Ricky Williams: non esiste negli Stati Uniti un posto in cui tutto questo si veda bene come in Texas. I valori del football rispecchiano molti dei valori statunitensi, ma quelli texani di più. Il college football è un fenomeno gigantesco in tutto il paese, ma in Texas di più. Il football delle scuole superiori riempie gli stadi ovunque, ma in Texas di più (a questo punto serve davvero ricordare dov’era ambientato il romanzo Friday Night Lights, da cui fu tratta la celebre serie tv?). E quindi, per noi che guardiamo tutto questo da fuori, il football americano e la cultura del football possono diventare un efficace grimaldello per afferrare la cultura di un luogo più impenetrabile di quanto sembri, per capire l’incomprensibile, per capire il Texas. Anticipo la domanda, di nuovo: perché dovrebbe interessarci?
Grande il doppio della Germania, con due fusi orari, settecentotrenta aeroporti e dieci diverse regioni climatiche, il Texas è il più grande stato americano nonché quello che cresce di più, quello che attrae più persone da ogni parte del mondo, quello con le città più diverse della nazione. Da tempo il suo patrimonio economico e culturale ha smesso di esaurirsi nel petrolio, nel bestiame, nei cowboy e nelle armi, e oggi copre la tecnologia e il digitale, il settore farmaceutico, l’aerospazio. La musica e la letteratura, invece, ci sono sempre state. Oggi tutte le città texane sono governate dai Democratici, le zone urbane e suburbane diventano ogni anno più influenti di quelle rurali, la qualità della vita è molto alta. L’elenco delle aziende che sono arrivate dalla California è pressoché infinito e le imposte sul reddito non esistono (avete capito bene: IRPEF, zero). Lawrence Wright – scrittore texano e premio Pulitzer, noto soprattutto per Le altissime torri e Going Clear – non ha dubbi: «Il Texas sta diventando sempre di più il centro del paese: quello che accadrà in America in futuro dipenderà da cosa sarà il Texas, da cosa diventeremo. Il Texas è già uno stato molto potente, è già il secondo stato americano più popoloso. Ma di questo passo fra un paio di decenni la popolazione del Texas sarà superiore a quella della Florida e a quella di New York messe insieme. Il Texas guiderà la nazione. E si può sostenere che chiunque guiderà la nazione, guiderà il mondo». Ecco perché dovrebbe interessarci. Il problema è che ogni porzione di Texas che possiamo osservare e studiare racconta solo un pezzo di questa storia. La soluzione è il football, che la racconta tutta.
Ho viaggiato in Texas alla ricerca di questa storia, o almeno di qualche suo pezzetto, con DAZN: e il risultato di questa indagine è la prima puntata della nuova stagione di The American Way, una miniserie che racconta gli Stati Uniti attraverso il football. The American Way: Texas è un documentario da un’ora e venti minuti, già disponibile in esclusiva su DAZN e contiene immagini che mostrano il Texas in purezza e interviste con Lawrence Wright, per l’appunto, ma anche con Randy Allen, il più vincente e iconico allenatore texano di high school; con Drew Pearson, il leggendario giocatore dei Dallas Cowboys autore della prima giocata a essere chiamata “Hail Mary”; con Charlotte Jones, vicepresidente esecutiva dei Cowboys e donna più potente della NFL; col grande musicista country Bob Livingston; col giovane e promettente atleta-studente Christian Jones, che gioca per i Texas Longhorns; e con molte altre persone in grado di portarci dentro quel mondo, e farcelo capire un po’ di più.