Non sono molti i calciatori che hanno ricevuto un soprannome da Gianni Brera. Un passaggio che segnava l’ingresso in un cerchio superiore, una sorta di Hall of Fame sociale. Il suo era Stradivialli. Brera ci arrivò per passaggi successivi. In principio, lo chiamò Stradivario. Vialli Gianluca da Cremona è sempre stato uno che bucava lo schermo, oltre che le porte avversarie. Difficile stabilire se sia stato più un attaccante forte o più un simbolo della cultura pop italiana a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Anche perché indossava naturalmente la sua diversità. È sempre stato un personaggio fuori dagli schemi tradizionali del pallone nostrano. Sin dal censo. La sua era una famiglia benestante, possiamo anche dire ricca. La villa dei Vialli, a Cremona, era chiamata Castello. Anche se la madre ne era infastidita e smentiva: «Borghesi, ecco che cosa siamo. Diciamo che stiamo bene, non ci lamentiamo di certo. Mio marito lavora e ha cinque figli grandi: come potrebbe essere ricco? Gianluca ha un modo di fare elegante che non dipende dai soldi, ma dalla tradizione di una famiglia della quale fanno parte ingegneri, professionisti e anche un rettore universitario». Un modo di fare elegante, disse la madre. Spesso, ma non sempre. Mazzone ne sa qualcosa, come vedremo.
Sembra un dettaglio ininfluente la sua ricchezza, in realtà non è così. Non gli veniva perdonata la sua estrazione sociale. Anche da quelli più intelligenti. Persino Gianni Mura lo stuzzicava: «A Genova sta bene, il rischio è che ci stia troppo bene e sia infiltrato dalla macaia. Intendiamoci, giocatori come Vialli non abbondano, in Italia né altrove, e la tendenza è quella di chiedergli sempre di più. Atleticamente, tecnicamente, tatticamente c’è poco da insegnargli o da chiedergli, e allora? Solo un po’ di concentrazione, di sofferenza più o meno tra virgolette, di rabbia che non viene dai nervi. Non è facile far finta di essere poveri, ma è proprio quello che ogni tanto Gianluca Vialli potrebbe anche tentare».
È stato uno dei primissimi calciatori, se non il primo, a esibire l’orecchino. All’epoca sull’orecchino ai maschi quasi si imbastivano convegni, figurarsi ai protagonisti del machista futbol. Fu uno dei rari esempi, se non l’unico, di rifiuto a una vagonata di milioni di Berlusconi che lo avrebbe voluto al Milan. In realtà ne guadagnava quasi altrettanti nella sua amata Genova. Fu, con Roberto Mancini, il simbolo delle leggiadra e anticonformista Sampdoria di Paolo Mantovani: l’isola felice del pianeta calcio dove ci si divertiva senza lo stress né l’assillo di vincere. Il Mancio creava, Gianluca concretizzava. A sovrintendere c’era Vujadin Boskov: allenatore e uomo di mondo, come tutte le persone realmente intelligenti sapeva anche far finta di essere stupido. Era come se non facessero parte del campionato italiano, come se si allenassero in un altrove e poi la domenica piombassero in Italia. Vinsero uno scudetto, una Coppa della Coppe, un bel po’ di Coppe Italia e persero una maledetta finale di Coppa dei Campioni ai supplementari, contro il Barcellona.
Il Vialli protagonista della cultura pop fu senza dubbio quello della Sampdoria. Il simbolo nacque negli anni Ottanta con la Nazionale Under 21 di Vicini. Squadra di cui il Paese si innamorò. Venne mediaticamente contrapposta alla bolsa Italia di Bearzot che stava vivendo l’estenuante parabola discendente dopo il Mundial 82. Quella squadra vinceva e divertiva (anche se perse la finale dell’Europei ai rigori contro la Spagna) grazie a una nidiata di ottimi giocatori che poi costituirono la spina dorsale della Nazionale del 1990, quando Gianluca fu atteso come un divo e finì col fare la comparsa.
Calcisticamente Vialli incarnava la figura di attaccante moderno. Nacque esterno, con la Cremonese. Vicini lo spostò centravanti. Correva, non si risparmiava mai. Sapeva giocare a calcio ma la sua peculiarità era l’esuberanza fisica. Era un’esplosione di muscoli. In area sapeva farsi rispettare. Atleticamente nulla gli era precluso: le sue rovesciate erano il pezzo forte della casa. Non era un cecchino, questo no: i gol li sbagliava. Però ne segnava anche di impossibili. Sarebbe piaciuto molto a tecnici come Guardiola e Luis Enrique, perfetto per il pressing alto che allora era una rarità. Anticipò Julián Álvarez di quasi quarant’anni. Era complesso non innamorarsi calcisticamente di Vialli. Era un leader naturale. Anche se ha sempre faticato a trovare la propria sistemazione: era un lusso per il calcio di provincia (prima Cremona, poi Genova) dove però si trovava a proprio agio; soffriva la pressione quando i riflettori diventavano troppi. Ha vinto tutte e tre le coppe europee eppure di lui quasi si ricordano più i gol che si divorò contro il Barcellona di Cruyff nella finale di Champions giocata con la Sampdoria che quella stessa coppa alzata da capitano e condottiero con la Juventus di Lippi.
Per spiegare Vialli è ineludibile il tormentato rapporto con la Nazionale. Il giorno di gloria fu il 14 novembre 1987, a Napoli. L’Italia di Vicini sconfisse la Svezia per 2-1 con una sua doppietta che portò gli azzurri agli Europei: impresa non scontata visto che quattro anni prima eravamo rimasti fuori. Segnò due gol alla Vialli: entrambi di potenza, entrambi sotto la traversa, entrambi dalla parte esterna esterna dell’area, uno di destro e uno di sinistro. Due gol che fecero tornare alla mente Gigi Riva. Gianni Brera si allarmò a tal punto da farsi dare spazio su Repubblica per un articolo dal titolo: “Non disturbate Rombo di tuono”: «Si è creduto di scoprire, dopo Italia-Svezia di Napoli, che Gian Luca Vialli è il nuovo Gigirriva. Ma prendere Vialli per il nuovo Riva significa mancargli di rispetto e insieme fargli un po’ troppo credito». E ancora: «I due gol di Napoli rientrano nelle predestinazioni astrali, giovevoli a lui e contrarie al portiere svedese. Dovesse ripetersi Vialli in prodezze del genere, tutti sarebbero costretti ad ammettere che Riva ha trovato il suo degno erede. Per il momento consideriamo la natura eccezionale dei due folgoranti e decisivi gol alla Svezia». Immancabile il riferimento alla ricchezza: «Di Gian Luca Vialli giovanissimo sapevamo che, figlio di babbo, mai e poi mai avrebbe pensato di giocare per gli altri».
I fatti diedero ragione a Brera. Agli Europei dell’88 segnò un solo gol e nonostante la semifinale l’Italia non lasciò il segno. Poi fu il turno di Italia 90. Vialli era l’indiscusso attore protagonista di quella squadra, il divo sparato sulla locandina. Non si capì bene cosa avesse, lui non stava bene ma dagli esami non risultava nulla. Trapelò malumore o comunque incomprensione nei confronti dello staff medico. Si cominciò a parlare di malessere diplomatico. Fatto sta che il gol non arrivava e l’opinione pubblica premeva per Baggio titolare, dopo che Schillaci aveva scalzato Carnevale. Lui ci mise del suo mandando sul palo il rigore contro gli Stati Uniti. E cominciò a sentire il terreno franare sotto i piedi. «Corriamo molto e segniamo poco? È vero, ma è Vicini a farci giocare così. Se il ct mi chiedesse di fare l’attaccante puro alla Van Basten, lo farei. Mi chiede di muovermi, di svariare e io eseguo, con soddisfazione». Per tutta risposta, a parte qualche dichiarazione di circostanza, il ct non lo protesse certo come fece Bearzot con Paolo Rossi. E così Schillaci e Baggio diventarono titolari a furor di popolo. Lo ridussero a comprimario. Vialli finì in panchina. Incomprensibilmente, volendo fare gli ingenui sugli equilibri di potere nello spogliatoio, Vicini lo riesumò titolare in semifinale contro l’Argentina. Toccò giusto il pallone che portò al gol dell’illusorio vantaggio. La pretestuosa polemica sul tifo di Napoli depotenziò qualsiasi processo sulla gestione del ct. Quel che resta di Vialli a Italia 90 sono le misteriose fughe in auto per incontrare Alba Parietti, anche se lui ha sempre provato a negare: «È una cosa che fa parte della mitologia, ma non dirò mai la verità…».
Non andò meglio con Sacchi. Eppure cominciò benissimo, col gol del 3-2 in rimonta a Eindhoven contro l’Olanda di Van Basten e Bergkamp: una delle più belle partite della gestione dell’Arrigo. Vialli sembrava talmente indispensabile che Matarrese organizzò in fretta e furia una partita con San Marino per fargli scontare la squalifica di un turno e averlo in campo nell’amichevole di lusso con la Germania. Finì che pochi giorni prima, Gianluca rifilò una gomitata ad Apolloni in Coppa Italia e non venne convocato per volere di Matarrese.
Non fu l’unica espulsione di quel periodo. Era la fase di incubazione del suo passaggio alla Juventus. In un Sampdoria-Cagliari fu cacciato da Nicchi (doppia ammonizione, ai tempo il rosso diretto – come disse Schuster – era solo per l’omicidio) per un’inutile entrataccia su Mobili. Ma il meglio venne subito dopo: andò davanti alla panchina sarda a dire a brutto muso qualcosa a Carlo Mazzone, anche lui espulso. I due lasciarono il campo spalla a spalla in un confronto che avrebbe meritato l’home theatre. Ai microfoni Mazzone disse: «Vialli si è risentito ed è venuto in panchina a dirmi cose poco piacevoli che un ragazzo dell’età sua proprio no. Per due motivi: uno perché sono più vecchio di lui, due perché poi gli potevo pure correre dietro in mezzo al campo e saremmo andati a livello mondiale. Vialli un personaggio come me lo deve solo rispettare e sappia questo: che prima o poi il pallone gli si sgonfia e lui raccoglierà quello che ha seminato nei suoi dieci anni e avrà solamente un grande conto in banca».
Vialli era un personaggio. Quando sbagliava, tutti si sentivano in dovere di dire la loro. Persino l’antropologa Ida Magli, che lo fece a pezzi in un attacco del tutto gratuito: «Biondo, rapato, con l’orecchino: credo che Vialli lo faccia perché non ha una personalità ben definita: così di volta in volta fa finta di averla, la cambia di continuo. Per dirla con buona grazia si comporta un po’ come una bella donna d’altri tempi. È un atteggiamento femmineo, il suo, che non significa però mancanza di virilità. Questo sia chiaro».
Arrivò la trasferta di Malta e Gianluca – da juventino – la Nazionale non la vide più. Incredibile ma vero, pare che c’entrasse anche il Parmigiano e uno scherzo che l’Arrigo non gradì. Così, qualche anno dopo, su La Stampa Marco Ansaldo raccontò quel divorzio: «Una spruzzata di parmigiano. Per chi non è allergico al formaggio è uno dei piaceri della tavola. Ma per chi è allergico agli scherzi può diventare un motivo per rompere un rapporto e non riaprirlo più. I retroscena dell’ostracismo comportamentale di Sacchi a Vialli portano a storie piccole. Anzi piccine. Tanto è vero che i protagonisti le tengono nascoste, a raccontarle potrebbero arrossire: dietro l’esclusione di un attaccante carismatico, in forma, ci sono pure episodi ridicoli. Come il parmigiano che cadde sui pantaloni dell’Arrigo mercoledì 16 dicembre del ’92 durante il ritiro alla Borghesiana, estrema periferia di Roma. Vigilia della partita con Malta, che non era propriamente l’evento dell’anno: clima un po’ svaccato, prima di Natale. Insomma quel genere di situazioni che Sacchi detesta. «Intensi, intensi». Sì, buona notte. E, raccontano testimoni, a tavola successe l’incidente. Vialli fece riempire di parmigiano grattugiato il tovagliolo di Sacchi e quando il ct fece per metterlo al collo potete immaginare cosa accadde. L’Arrigo che ride spesso, e mai di sé, non gradì. Il nome di Vialli, che a Malta segnò un gol in una delle peggiori partite del ciclo sacchiano, non comparve più nelle convocazioni successive».
Quella per Vialli alla Juventus fu un’operazione da quaranta miliardi. Sembrava la sua rivincita. Il suo approdo in bianconero coincise con l’addio di Totò Schillaci. Invece, dopo le immancabili discussioni sulla scomparsa dell’orecchino, fu a lungo considerata un clamoroso flop. Tra infortuni a raffica (una volta, contro la Roma, si ruppe un piede calciando un rigore) e incomprensioni tattiche. Non la buttava dentro mai, al punto che Trapattoni cominciò a provarlo da regista. Era determinato a cambiargli ruolo, convinto che fosse finita la sua fase di centravanti. «Alla lunga, Gianluca potrebbe cambiare gioco e ruolo come accadde a Boniperti, Sandro Mazzola e Bettega. Ci penso da tempo. Si tratta di fenomeni abbastanza naturali».
Ci pensò Lippi a cambiare il destino della Juve e di Gianluca. Anni dopo, il ct del Mondiale 2006 raccontò così il loro primo incontro: «Quando arrivai in bianconero, Vialli mi disse che voleva parlarmi da solo. Fissammo alla sede della Toro Assicurazioni, dove c’era un lunghissimo tavolo. Io arrivai prima e dissi al cameriere di apparecchiare ai due capi estremi. Quando giunse, Luca mi chiese sorpreso dove dovesse sedersi. Io gli indicai il polo opposto a quello dove ero io. Lui mi osservò sorpreso, ci saranno stati cinque metri di distanza. Anche un viareggino burlone ha un cuore e allora presi la sedia e mi misi vicino a lui, che voleva chiedermi di lasciarlo tornare alla Samp. Gli dissi solo se era scemo. Come poteva pensare che io, appena arrivato, facessi andare via il più forte centravanti italiano? E non solo italiano. Gli dissi: “Sai invece come puoi aiutarmi? Comincia a metterti calzini e la cravatta come gli altri e non fare il fenomeno. Io devo creare un gruppo coeso e voglio che tu sia decisivo per farlo”. Luca mi guardò e mi diede il cinque».
Dopo un inizio difficile anche con Lippi, Vialli tornò Vialli. Fu uno dei leader di quella squadra che sacrificò Baggio sull’altare del tridente Vialli-Del Piero-Ravanelli. Tornò a segnare in ogni modo, anche in rovesciata. E vinsero la Champions. Che lui alzò da capitano. Anche se, ai rigori contro l’Ajax, chiese a Lippi di essere esentato. Dopo quella finale, se ne andò. Stavolta all’estero, al Chelsea, dove fece prima l’attaccante e poi l’allenatore. Fino all’estate del 1998, quando divenne suo malgrado protagonista di una vicenda che colpì e divise l’opinione pubblica. Le accuse di Zeman e il conseguente processo doping alla Juventus. Vialli fu uno dei due calciatori citati nella celebre intervista del boemo a L’Espresso. «Sono sbalordito da certe esplosioni muscolari», disse Zeman, «a cominciare da Gianluca Vialli per arrivare poi ad Alessandro Del Piero. Pensavo che certi risultati si potessero ottenere soltanto con il culturismo, dopo anni e anni di lavoro specifico». Fu un terremoto. Moggi lesse il secco comunicato con cui il club bianconero denunciò la cultura del sospetto. Vialli reagì dando del terrorista al boemo: «Le parole di Zeman mi hanno ferito come uomo e come atleta. (…) Merito rispetto. Lo merita la mia carriera. Non è certamente bello essere trattato così. Non posso tollerare le insinuazioni di uno che fa del terrorismo. Sì, Zeman, oltre a fare l’ allenatore, ha l’hobby del terrorismo, lo pensano i suoi stessi giocatori. Ma tutto questo è inaccettabile. Ci sono delle regole che tutti devono rispettare. (…) Zeman è una persona di cultura, è intelligente, non è uno sprovveduto. Le cose sono due: o pensa realmente tutto quello che ha detto, e su questo ho i miei dubbi, oppure vuole mettere le mani avanti preparandosi a qualche eventuale sconfitta. Forse l’allenatore della Roma vuole preparare tutti ai suoi insuccessi e, per raggiungere il suo scopo, infanga tutto e tutti».
A seguire quel processo, per Repubblica, fu l’allora sconosciuto cronista Marco Travaglio. Che riportò così la testimonianza dell’ex capitano bianconero: «Il primo testimone è Gianluca Vialli. Ammette “iniezioni intramuscolo di Samyr (antidepressivo, ndr) e flebo di esafosfina” (contro l’etilismo e l’insufficienza respiratoria). Ma soprattutto un uso massiccio di Voltaren, antinfiammatorio, prima delle partite. «Lo prendeva contro patologie invalidanti?», domandano i pm Colace e Panelli. E Vialli: “Nove volte su dieci non avevo disturbi particolari: lo prendevo così, per stare più tranquillo, un fatto psicologico. Il medico era d’ accordo”. Un punto a favore dell’accusa, che imputa alla Juve l’uso di farmaci su atleti sani: non per curarli, ma per “alterarne le prestazioni”».
Nel 2018, vent’anni dopo, Vialli al Corriere della Sera dichiarò: «Avrei potuto vivere più serenamente quella vicenda, come altri colleghi. Non ce l’ho fatta. Fu un’ingiustizia. Non voglio riaprire vecchie polemiche. È possibile discutere se sia meglio per una distorsione dare il Voltaren, o andare 15 giorni in montagna a riposare. Non è possibile mettere in dubbio i risultati di una carriera». Il resto è storia più o meno dei giorni nostri. Non meravigliatevi dello spazio che occuperanno i suoi ricordi. Gianluca Vialli è stato più che un forte attaccante.