Ogni ventiquattro ore sai che quel momento arriverà. Potresti essere ovunque, se vivi a Milano probabilmente sei su un set con un’agenzia che ti dice che da qualche parte ha letto che quei video che state pensando per TikTok per vendere delle tisane a non si sa bene chi vanno girati “più spontanei”, perché ormai ai giovani piace così. Potresti essere, però, anche sul cesso, mentre ti informi dell’ultima polemica che lega mondi distanti come Prezzemolo, la mascotte di Gardaland col sorriso a 36 denti, e OnlyFans, arrivando a chiederti quanto possano costare le foto dei piedi di un proto-dinosauro che deve la sua fama tra le altre cose all’aver venduto la propria immagine per un gelato stecco. In ogni caso sai che quel momento arriverà: è l’ora di BeReal. E per non essere fake, per scacciare ogni possibile accusa di mistificare la realtà, scatti subito, ancor prima che scadano i due minuti che l’app ti concede. Se vuoi essere real, devi esserlo per bene. Se invece hai deciso che le nuove app non fanno per te, avrai notato anche tu che il tuo feed su Instagram è cambiato: niente più filtri Paris sulle foto del mare, niente più foto davvero in posa postate sulla propria pagina. Solo caroselli, di foto possibilmente “brutte”, mosse, sfocate, con sotto una caption auto-assolutoria, che ti prenda un po’ in giro ma in un modo che comunque sottolinei quanto sei sul pezzo.
Nel 2023, i social, stanno cercando di diventare definitivamente e per tutti, una sorta di sfogatoio. Il famigerato shitposting è emerso dai rabbit hole di 4chan e simili ed è arrivato alla tanto vituperata casalinga di Voghera. Ora chiunque shitposta, anche tua madre. Ecco, chiunque, ma non proprio chiunque… Se c’è un movimento in cui il social network sembra fermo a 10 anni fa, è quello della comunicazione del calcio e dei calciatori, o più in generale, come vedremo, degli sportivi. Quest’estate Ja Morant, per esempio, ha deciso di mostrare a tutti la sua vita vera, in un video, che esordiva con uno statement che nell’era della noia sembrava una rivoluzione: «I’m the only one who shows y’all how I really live. This my main page, this ain’t my finsta».
Il concetto di finsta non ha davvero mai attecchito fuori dalla musica – tendenzialmente rap, basti ricordare Frank Ocean che racconta i dietro le quinte del suo atteso disco sul suo profilo secondario o la pagina dedicata alle recensioni dello svapo da parte di MacMiller – e quando è arrivato nello sport è arrivato con le polemiche. Nel 2017 è stato il caso di “quiresultan”, un profilo Instagram molto attivo nel difendere Kevin Durant sotto le pagine di NBA americane, che a un certo punto è stato ufficialmente taggato in una foto di Tony Durant, il fratello ombra della star del basket. Taggato in che modo? Beh, sul faccione di Kevin Durant, svelando al sempre attento e mai sazio di sangue popolo di internet che quello strenue difensore dell’MVP delle Finals 2016-2017 e 2017-2018 altri non era che Kevin Durant stesso.
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Ma perché gli sportivi sono così noiosi? Se dovessimo leggere in giro di esempi virtuosi sulla comunicazione online, tendenzialmente troveremmo esempi di atleti che comunicano dei “valori”. Gli ultimi cinque post di Morten Thorsby, per esempio, sono lui su una montagna con una maglietta che recita “Team Earth”, lui intervistato in tv a parlare di ambientalismo, una foto di alberi, la registrazione schermo sgranata della BBC che lo premia atleta dell’anno per il suo attivismo e infine, finalmente, se si esclude il post fissato in alto, lui con la maglia dell’Union Berlino, in uno sfondo che comunque richiama il senso di una baita, della natura, della montagna, grazie a un grazioso e accuratamente studiato pattern in parquet. L’idea è che le figure pubbliche debbano lanciare un messaggio, sono diventate delle pagine istituzionali, che raccontano poco il campo e molto ciò che di importante hanno da dire al mondo questi giovani ventenni. Tendenzialmente non molto.
La pagina di Rafael Leão, per esempio, lo riprende, nelle ultime settimane, prima disegnato, poi felice, poi deluso con la maglia del Portogallo. L’unico contenuto che esce leggermente da questo schema preimpostato di foto scattate da fotografi professionisti a bordocampo è una specie di TikTok postato in condivisione con la pagina del Portogallo, in cui chiaramente fuori tempo e con una collana di fiori al collo finge di surfare con i piedi ben piantati a terra, mentre in sottofondo parte l’intro di “Pump It” dei Black Eyed Peas. Perché l’esempio di Rafa Leão? Perché il calciatore del Milan avrebbe di che raccontare, se non ci fossimo convinti che un brand, come un calciatore, debba avere un racconto tutto d’un pezzo. Way45 è il suo nome d’arte, nel tempo libero si diletta a registrare tracce dal vago sapore trap. Le due attività, però, non vengono mischiate e nonostante nella sua canzone più ascoltata – l’intro del suo disco, con circa duecentomila play – si definisca «most Wanted em Milão e na Lisa», queste due sue personalità sembrano non poter coesistere.
Persino il Pallone d’Oro Karim Benzema, da una rapida scrollata da parte di un alieno al suo profilo Instagram, potrebbe sembrare una via di mezzo tra un goffo padre e un influencer in rampa di lancio che ha deciso di portarsi a casa in un pomeriggio i contenuti per sei mesi all’angolo tra Montenapoleone e via della Spiga. Eppure il suo racconto è e potrebbe essere sostanzialmente quanto di più spontaneo e veritiero. Mentre pubblica una caption che indica la sua vittoria al massimo riconoscimento individuale per un calciatore moderno, scrive che ha ricevuto il Pallone d’Oro del popolo. Nella foto il suo outfit, come sicuramente avrete letto in quei giorni, è ispirato a un celebre look di Tupac Shakur. È un racconto non scontato, che potrebbe allargare gli orizzonti della discussione sul suo profilo, ma di tutto ciò non esiste traccia.
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Per un periodo di tempo molto limitato, mi ha seguito un ex calciatore dell’Inter sui social. Non so per quale motivo, come mi avesse intercettato, se fosse un bot o se pensasse che il mio feed, ancora più criticabile di quelli elencati fino a questo momento, avesse un che di valore. Dopo un brivido iniziale di “riconoscibilità”, come se qualcuno mi avesse dato un badge, la famosa spunta blu a pagamento di Elon Musk, ho iniziato a scorrere con il pollicione il suo feed e sono rimasto imbarazzato dal totale tentativo di omologazione di quella pagina. Grafiche predefinite, foto impostate, ricordi ben infiocchettati con calciatori ben più famosi di questa meteora della mia squadra del cuore. È vero, Instagram può essere un veicolo per una nuova linea di business che coinvolga brand e collaborazioni e allunghi la possibilità di surfare quell’onda invisibile su cui con la sua tavola immaginaria era saltato il Rafael Leão di cui parlavamo sopra. Ma in un’epoca di mediocrità come le pagine Instagram dei calciatori, allora, il vero sogno bagnato diventa una pagina punk come quella di Stephane Dalmat. Rimasto incastrato in un loop, convinto – probabilmente con ragione – che come Massimo Moratti, una stregua di ex interisti sia ancora innamorata di lui, Stephane Dalmat se ne frega di infiocchettare i suoi post, della netiquette del bel look. L’ex Marsiglia sgraffigna da internet foto con watermark giganti, che spesso e volentieri stampa, su fogli A4 dalla scarsissima grammatura, appende in casa e ci si fa fotografare davanti. Come in un perpetuo scatto di BeReal, non si interessa neanche di essere il vero protagonista della foto in questione.
Capita dunque che ci si ritrovi nel feed una foto che vede Christian Vieri titanico e Stephane Dalmat sacrificato in un angolino, con una didascalia che sembra uno strano incontro tra il Gemello degli inThePanchine che ha ascoltato troppo Booba e un principe nigeriano un po’ troppo spinto nell’ennesimo caso di phishing in cui è cascato tuo padre. Stephane Dalmat non ha nessun messaggio da comunicare, è letteralmente ossessionato dall’Inter e dal suo interismo, vive in un mondo in cui i suoi messaggi motivazionali, che non sembrano quelli registrati a Dubai e riproposti su LinkedIn con una marea di emoticon casuali, ma più i discorsi molto convinti da unico bar aperto al rientro a casa dopo una serata di sabato sera, possano motivare qualcuno e spingerlo a seguire il calcio con una spinta ulteriore.
L’arrivo di TikTok, poi, ha omologato ulteriormente questo tentativo di essere la figura giusta, nel momento giusto, sul posto giusto. TikTok è così un cimitero dell’ironia in cui, tendenzialmente calciatori all’alba della loro carriera, si ritrovano a dover fronteggiare quel mostro marino detto ironia, mentre sono ancora convinti che l’ex musical.ly sia il social dei balletti, possibilmente fuori tempo, indirizzati da agenzie PR che spingono affinché quella sia la via. La realtà è che per anni ci siamo annoiati delle interviste post partita dei calciatori, perché pensavamo che fossero piatte e sempre uguali, in cui ci bastava uno scontro tra Zenga e Varriale per risvegliarci dal torpore con bavetta sullo scomodo divano del nostro soggiorno. Poi è arrivato Instagram e a quel punto abbiamo rimpianto i “il mister è contento” e “sono felice se segnano i miei compagni”. Se non altro, sembravano segni di vita.