Gareth Bale, il Frankenstein sconfitto dalla sua stessa umanità

Ha portato il calcio a velocità e a possibilità muscolari inedite, promettendo un futuro diverso, utopico, irrealizzabile. Cosa rimane della sua carriera, ora che ha annunciato il ritiro?

Del ritiro di Gareth Bale possono sorprenderci molte cose. Una, il tempismo: annunciato da un giorno all’altro, come se fosse una decisione presa all’improvviso – anche se evidentemente non è così. Un’altra, l’età: 33 anni, in un calcio a lunga conservazione, sono un’anomalia. Zinedine Zidane si era ritirato a 34 anni, ma il suo era un addio ampiamente anticipato e soprattutto degno della sua grandezza (espulsione in finale a parte): l’ultima, grande recita in mondovisione di uno dei protagonisti che più hanno nobilitato il gioco del calcio. Bale si è ritirato lontano dai riflettori, come fosse quasi un reietto, un espulso dalla comunità internazionale. Il suo congedo è stato mesto, inglorioso: un’anonima partecipazione con la sua Nazionale al Mondiale, una presenza inosservata, effimera. Il calcio va a velocità inusitate, dove i risultati, gli accadimenti e gli sconvolgimenti soppiantano quanto accaduto un istante prima. L’evoluzione non lascia scampo a nessuno. Nemmeno a chi, l’evoluzione, l’ha interpretata in prima persona.

«Mi sento incredibilmente fortunato nell’aver realizzato i miei sogni», le parole d’addio di Bale. Non lasciano trasparire nessun rimorso, nessun risentimento. La sua carriera si è arrampicata fin sui massimi livelli del calcio europeo. Ha vinto ben cinque Champions League, di cui una da assoluto MVP. Ha vinto tre campionati spagnoli, più una Coppa del Re, decisa da una sua prodezza. Ha vinto anche in Inghilterra, una League Cup – c’era lui nell’ultimo Tottenham capace di vincere un trofeo. Ha trascinato il Galles al miglior risultato della sua storia, le semifinali di Euro 2016, deus ex machina di una Nazionale di cui è diventato, non sorprendentemente, il calciatore con più presenze e più reti di ogni epoca.

Quello che non quadra di Bale è il modo in cui è finita. Il suo ritiro, appunto, ma anche tutto quello che è successo prima. Il modo in cui il Real Madrid lo ha scaricato. Le prese in giro sul golf – che lui stesso, a un certo punto, ha assecondato, con la bandiera gallese e la scritta “Wales. Golf. Madrid. In that order”. I media spagnoli che si divertivano a pungolarlo in continuazione, per esempio sul fatto che non spiccicasse una parola di castigliano (falso). Il tristissimo ritorno al Tottenham, una minestra riscaldata che non ha fatto bene né a lui né al club. La trasvolata dall’altra parte dell’Oceano, a Los Angeles, non tanto per convinzione, considerata l’esperienza di pochi mesi, quanto perché funzionale al presentarsi nelle condizioni migliori possibili in Qatar.

È stato un giocatore fortissimo, rivoluzionario. Un apripista del gioco. Un tedoforo della modernità, la stessa modernità che prima lo ha esaltato e poi lo ha schiacciato. Harder, Better, Faster, Stronger. Gareth Bale ha vissuto il calcio a questo modo. Ne ha moltiplicato le velocità, ha raddoppiato l’intensità, ha esteso il suo raggio d’azione più largamente di chiunque avesse mai fatto. Bale era nato terzino ed è finito attaccante, di quelli che tranciano a metà le difese. L’ultima stagione in Inghilterra, prima del malinconico ritorno, l’aveva chiusa con 26 reti stagionali, media grossomodo mantenuta nel suo anno da rookie a Madrid. Ha composto, con Benzema e Ronaldo, uno dei tridenti più iconici dell’ultimo decennio – la miglior risposta possibile a chi, qualche chilometro più a est, sfoggiava il trio Messi-Neymar-Suárez. Solo che Bale ha interpretato il concetto di attaccante in un modo che non eravamo abituati a concepire, vista anche la traiettoria e l’evoluzione che lo ha accompagnato in carriera: non c’è niente di meglio che possa spiegarlo più della rete decisiva contro il Barcellona, nella finale di Coppa del Re del 2014.

È uno dei gol più famosi, se non il più famoso in assoluto, di Bale. C’è tutto quello per cui il gallese si è reso famoso: il talento muscolare, l’esuberanza atletica, la fisicità prorompente. Incanalati però in una qualità sopraffina, in una capacità di controllo tecnico e dello spazio senza precedenti. È l’aspetto che colpisce più di quest’azione: la padronanza di Bale, che corre al di là della linea laterale non perché ci sia finito involontariamente, ma perché il tocco lungo del pallone con il sinistro gli ha dato la possibilità di sprintare più largo, evitando il contatto dell’avversario, e di arrivare comunque per primo sul pallone. È un’opera di ingegneria, piegata alla forza esplosiva di un giocatore che ha immaginato il mondo cadere sotto la potenza inarrestabile delle sue accelerazioni e dei suoi colpi.

Bale a un certo punto ha fatto questo: ha reso il calcio un’opera di meccanica, di regolarità compulsiva e inafferrabile. Il talento che diventa robotico, il meglio delle capacità fisiche e tecniche assemblato con quelle cerebrali. Un Frankenstein su un campo da calcio. La classe, all’improvviso, aveva una definizione diversa – non più fantasia, imprevedibilità. Anzi: come un Klay Thompson che della monotonia nel fare centro dall’arco ha fatto il suo marchio di fabbrica, Bale ha cercato nella riproducibilità del gesto il modo per diventare infallibile. Aveva appena 21 anni quando a San Siro, contro l’Inter, segnò tre volte lo stesso gol – fendente potente calciato con il piede sinistro verso l’angolo opposto. Era la sua dimostrazione di superiorità, quella che gli avrebbe consentito di conquistare il mondo: andava più veloce di tutti gli altri e calciava con più potenza e precisione di tutti gli altri. Harder, Better, Faster, Stronger. Niente e nessuno avrebbe potuto fermarlo.

Bale aveva fatto i conti con gli avversari, ma non con se stesso. Non con la corruttibilità del suo corpo, della sua natura umana. Gli infortuni che hanno cominciato a inseguirlo e tormentarlo nel corso degli anni gli hanno scalfito la patina di supereroe. Non al meglio delle sue possibilità fisiche, l’intera architettura su cui poggiava lo strapotere del gallese cedeva di colpo. Il Bale che decide la finale di Champions 2018, vinta contro il Liverpool, era già diverso: era un fortissimo calciatore, ma comunque un umano tra gli umani. La rovesciata che vale il sorpasso del Madrid per il 2-1, per coordinazione, maestosità del gesto e impatto è una delle prodezze migliori in carriera, oltre che uno dei gol più belli che si siano mai visti in una finale di Champions. Ma era il gesto estemporaneo, il colpo del fuoriclasse. Era un altro tipo di talento: istintivo, tradizionale. Non sarebbe potuto durare. Bale aveva progettato un talento schematico, riproducibile. Infinito.

È stato anche il primo giocatore a costare cento milioni: il muro delle nove cifre abbattuto per la prima volta. Anche in quello, Bale è stato davvero un calciatore moderno, l’idea che il talento non avesse più confini e limiti di investimento. Anche questo aspetto lo avrebbe poi schiacciato – come si fa a non pretendere la perfezione, da un giocatore costato cento milioni. È stato il sogno di una notte di mezza estate. Pur sempre un gran sogno.