La Roma, domenica 22 gennaio, ha vinto a La Spezia per 2-0, e Nicolò Zaniolo non c’era. Il fatto che il primo gol della squadra di Mourinho l’abbia messo a segno Stephan El Shaarawy è una beffa piuttosto velenosa: si è parlato talmente tanto dell’assenza di Zaniolo, di ciò che questa assenza significa per Zaniolo e per la Roma, che alla fine uno dei protagonisti della prima partita dopo lo strappo è stato proprio il sostituto – momentaneo o definitivo? – di Zaniolo in campo, il trequartista del 3-4-2-1 schierato accanto a Dybala e Abraham, un ruolo che Mourinho sembrava aver cucito intorno a Zaniolo e che doveva cadergli addosso come un vestito cade sul di un modello.
Le parole dette da Mourinho dopo la gara contro lo Spezia – «secondo me Zaniolo resterà a Roma, ma so che vuole andar via», così come «io e Nicolò abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto», e anche «non ci sono offerte giuste per lui» – forse raccontano la verità, forse la raccontano solo in parte, magari sono tutte bugie. In ogni caso tengono saggiamente le porte aperte. Niente di nuovo: in fondo Mourinho è un allenatore ma anche un comunicatore fin troppo navigato, era inevitabile che sapesse governare una situazione del genere. Anzi l’andamento e lo stato delle cose suggeriscono come il tecnico portoghese sia stato più bravo ora, nella gestione del caso mediatico esploso intorno a Zaniolo, piuttosto che nella gestione di Zaniolo come talento, come patrimonio tecnico da valorizzare.
In effetti la stasi – ma si può anche parlare di regressione, ed è proprio questo il punto – di Zaniolo parte dal campo, dal fatto che la Roma di Mourinho non gli abbia mai offerto il contesto migliore per esprimere le sue qualità: Zaniolo avrebbe bisogno di essere azionato con continuità e in situazioni in cui può far valere la sua esuberanza fisica unita all’intelligenza tecnica, quando invece nella squadra giallorossa viene utilizzato per risalire il campo in modo diretto, iper-verticale, in pratica viene lanciato in campo aperto solo contro uno o due difensori avversari, e così per lunghi tratti di molte partite Zaniolo si è spesso ritrovato a giocare pochi palloni e pochissimi di questi erano palloni utili, potenzialmente decisivi. E allora è come se si fosse eclissato e poi, progressivamente, spento. Non a caso, viene da dire, l’ultima grande giocata che tutti ricordiamo di lui è il gol che ha consegnato la Conference League alla Roma e a Mourinho. Da allora sono passati otto mesi.
Nicolò Zaniolo è stato un calciatore molto sfortunato: in due momenti diversi della sua carriera aveva la Roma ai suoi piedi, e anche nella Nazionale di Mancini stava iniziando a ritagliarsi un ruolo di primo piano. Proprio in quei due momenti, quando sembrava che un altro talento italiano – poco dopo Federico Chiesa – potesse riuscire a prendersi il centro della scena con tempi e modi e un modo di giocare puramente europei, Zaniolo ha subito due infortuni gravi. Anzi: gravissimi. Al suo secondo rientro si è ritrovato immerso in una situazione diversa, decisamente più complicata di prima: la Roma era passata nelle mani di Mourinho, probabilmente l’allenatore che più di ogni altro – al mondo e in ogni tempo – accentra il potere nelle proprie mani, fa in modo che le sue squadre e le sue società diventino un’emanazione della sua psiche.
Come se non bastasse, la Nazionale era diventata campione d’Europa. E lo aveva fatto, ovviamente, senza di lui. È come se Zaniolo non avesse retto a questo doppio declassamento, a questo doppio affronto della sorte: il suo gioco, inizialmente appesantito dai postumi dei due incidenti, col tempo non è più tornato davvero brillante. Anzi, ha finito per ingrigirsi sempre di più. Al punto che tutti, persino i suoi più strenui difensori tra i tifosi romanisti, hanno dovuto riconoscere che questo Zaniolo, lo Zaniolo che abbiamo visto da quando è arrivato Mourinho, è un giocatore che non fa bene alla squadra giallorossa.
Il bagaglio tecnico (e mentale, nel senso di freddezza) mostruoso con cui Zaniolo segna il primo gol in Serie A: era il 2018, pochi giorni prima aveva debuttato al Bernabéu, e all’Olimpico si mostra capace di far sedere avversari con una sola finta e segnare con uno scavetto glaciale
Il punto è che – come avvenuto in passato con altri giovani italiani esplosi da teenager – questo processo di disgregamento progressivo è stato accompagnato da una narrazione che ha riguardato anche temi e situazioni che, in realtà, non c’entravano molto: Zaniolo, infatti, è stato spesso accusato di indolenza umana solo perché a volte in campo è sembrato in effetti un po’ indolente, un po’ insofferente a certe consegne tattiche. In poco tempo, di riflesso, alcuni atteggiamenti e comportamenti un po’ guasconi dentro e fuori dal campo – un’inevitabile conseguenza del fatto che, in fondo, si tratta di un ragazzo poco più o poco meno che ventenne – l’hanno portato a essere considerato poco professionale, quando invece non ci sono mai state delle reali manifestazioni di scarso attaccamento al lavoro, alla carriera da calciatore, prima ancora che alla maglia della Roma. È un retaggio del rapporto – conflittuale, livoroso – che l’Italia ha col talento, soprattutto quello dei giovani, necessariamente a intermittenza: nel nostro Paese, emergere presto diventa una condanna da espiare con un rendimento sempre continuo e un comportamento sempre inappuntabile; e fino a un’età non proprio verdissima si continua a essere considerati dei sopravvalutati che devono fare esperienza. Magari in panchina. Se va bene, perché sono davvero troppo forti per andare in panchina, sono dei ragazzi da educare. Magari con un po’ di botte in campo da parte dei difensori.
Siamo arrivati a oggi, e al nocciolo della questione: schiacciato da tutte queste pressioni, alcune comprensibili e altre indebite, Zaniolo non ha saputo reggere. E così, dopo anni effettivamente contraddittori, ha svelato il suo lato peggiore: si è prima rabbuiato e ha poi deciso di ammutinarsi, di utilizzare la strategia dell’iper-professionista che sbatte i pugni sul tavolo per incassare uno stipendio più alto – oppure per trasferirsi in un altro club, ma il senso resta quello. Una serie di mosse che, prima di ogni altra cosa, stridono col suo attuale valore/rendimento sul campo ed eventualmente sul mercato, con un’evidente incapacità di incidere sul gioco della sua squadra. Quindi non è tanto – o non è solo – una questione di ingratitudine nei confronti della Roma, che pure è il club che l’ha lanciato e che, soprattutto, l’ha curato e l’ha atteso dopo i due gravi incidenti alle ginocchia: Zaniolo, oggi, è un calciatore tecnicamente e anche tatticamente non spendibile – per non dire impresentabile – ad alti livelli. È meno forte di quanto crede di essere, almeno stando al suo comportamento, al modo in cui ha deciso di porsi con la società giallorossa rispetto alla sua situazione contrattuale.
A Roma qualcuno sostiene che tutto questo trambusto non sia stato orchestrato da Zaniolo in prima persona, piuttosto da chi gli orbita intorno, da chi lo consiglia, da chi lo guida nelle scelte professionali. Se fosse vero, allora Zaniolo non sa scegliere bene i propri collaboratori. E quindi il punto è che Zaniolo ha gestito e sta gestendo male il suo consolidamento come grande calciatore, non riesce a convertire in energia positiva il clamore mediatico che c’è sempre stato intorno a lui. Quel clamore che ora, in virtù di un evidente calo nelle prestazioni, non viene più controbilanciato da quello che succede in campo. Di conseguenza, avere a che fare con Zaniolo oggi significa visitare una fiera campionaria di difetti: troppo individualista, troppo falloso (40 ammonizioni e tre espulsioni in 128 gare con la Roma), spesso attaccabrighe con avversari e arbitri. Persino le sue doti migliori – la capacità di caricarsi la squadra sulle spalle, un’esuberanza fisica e tecnica che si rivela in totale anarchia – sono diventate delle carenze.
È come se Zaniolo fosse caduto in una trappola che lui in campo, coi suoi esordi sfolgoranti, e noi fuori dal campo, con le nostre narrazioni stereotipate e la nostra reticenza manifesta rispetto ai ragazzi che provano a essere qualcosa di diverso, gli abbiamo costruito e poi teso. E dire che ad avvertirci di questo pericolo era stato proprio José Mourinho, più o meno un anno fa: «Si parla sempre di Zaniolo, del perché gioca o non gioca. Per il calcio italiano sarebbe meglio lasciarlo tranquillo». Nessuno ha fatto in tempo a capirlo. Ora solo Zaniolo può capire quali sono i modi, i luoghi, le persone migliori per rimettere insieme i pezzi.