Sono passati meno di due mesi dal giorno in cui il calcio delle Nazionali ha abbandonato il Qatar, facendo calare il sipario sul Mondiale più controverso di sempre. Eppure, si è già tornati a discutere di un Paese del Golfo Persico, l’Arabia Saudita, e della sua emergente dimensione come hub di lusso per eventi sportivi internazionali. Il recente viaggio della FIFA a queste latitudini, al pari di tante altre federazioni presenti da tempo nella regione, sembra infatti aver sdoganato definitivamente quella che fino a quindici anni fa ci sarebbe sembrata una stranezza, uno scenario improbabile. Il proverbiale miraggio nel deserto. Ora, evidentemente, non lo è più.
A metà gennaio, in una manciata di giorni, al King Fahd Stadium di Riyadh sono andate in scena prima le “Final Four” della Supercopa de España, poi la finale di Supercoppa italiana, e infine l’attesissimo debutto di Cristiano Ronaldo con la maglia dell’Al-Nassr. In un’amichevole, tra l’altro, contro il PSG di Lionel Messi, il prossimo surreale obiettivo del (fanta)calciomercato saudita. E così Barcellona, Real Madrid, Inter, Milan e Paris-Saint Germain sono sfilate una dopo l’altra nella capitale del Regno, davanti a milioni di spettatori connessi da ogni angolo del pianeta e sotto lo sguardo compiaciuto del principe ereditario Mohammed bin Salman e del Ministro dello Sport e dello Spettacolo, Turki Alalshikh. Che naturalmente hanno assistito dal palco dello stadio riservato alla famiglia reale e alle massime cariche istituzionali. Dove sperano di trovarsi ancora nel 2030, magari davanti a una finale di Coppa del Mondo.
In occasione della concitata settimana del mese scorso, siamo stati a Riyadh per testimoniare da vicino tutto ciò e per toccare con mano il legame tra il calcio e il disegno politico, sociale ed economico di Mohammed bin Salman. Il successore al trono, e de facto il numero uno del governo già ora, che sta aprendo le porte del Paese alla globalizzazione, provando a cambiarne il volto e avviando un programma di diversificazione dell’economia locale, legata a doppio filo all’esportazione di petrolio. Quello saudita è un progetto che va ben oltre lo sport, ma che – al pari di altri Stati della regione, tra cui il Qatar in primis – riconosce al calcio una funzione di primaria importanza. Per motivi di immagine, e non solo.
Sport e Saudi Vision
Eventi sportivi di portata internazionale non sono più episodici in Arabia Saudita, tanto nella capitale Riyadh quanto nella seconda città del Paese, Jeddah. Le Supercup europee, la Formula 1 e i prossimi Giochi Invernali Asiatici svettano in una lista destinata ad allungarsi a dismisura nel prossimo decennio.
Il fondamento di tutto ciò dovrebbe averlo ampiamente chiarito il dibattito di contorno al recente Mondiale in Qatar, che ha portato il termine “sportwashing” anche nelle case dei meno avvezzi alla geopolitica mediorientale. Un’espressione che sottintende una visione etnocentrica e che estromette dal dibattito le criticità interne dei Paesi in questione, ma che è utile per definire come il calcio sia diventato un affidabile alleato di regimi dalla pessima reputazione.
Sotto la guida di MBS, l’Arabia Saudita ha inaugurato sette anni fa il Saudi Vision 2030, un programma che ha posto in cima all’agenda della monarchia una drastica riduzione della dipendenza dagli idrocarburi; un percorso a tappe che ha come requisiti essenziali la diversificazione dell’economia, lo sviluppo del turismo e, per rendere possibile tutto ciò, la pulizia dell’immagine del Paese di fronte all’opinione pubblica internazionale. Sono parecchi, infatti, i capi di imputazione che hanno minato la fama del Regno negli ultimi decenni: dalle violazioni dei diritti umani alla disparità di genere; dalla forma estremista e intransigente dell’Islam (il wahabismo) adottata dalla monarchia, alle operazioni militari in Yemen; passando per la repressione di ogni forma di opposizione e per lo scioccante caso Jamal Khashoggi.
Argomentazioni, queste, che hanno scaturito prese di posizione nette da parte del mondo occidentale, ma che un prodotto di intrattenimento massmediatico come il calcio ha il potere di ridimensionare. Semplicemente, facendo parlare del Paese per qualcos’altro, mettendo in mostra la monarchia saudita e la sua cultura in un contesto positivo, da una posizione che consente un certo controllo della narrativa. Sperimentato, nel nostro caso, dalla meticolosa accoglienza e dalla disponibilità riservata dallo staff organizzativo ai giornalisti accreditati.
Puntare forte sullo sport, e sulla sua capacità di raggiungere un enorme bacino nel minor tempo possibile, è un tentativo di promuovere agli occhi del Mondo una nuova Arabia Saudita. A livello di percezione pubblica e, come diretta conseguenza, da un punto di vista istituzionale. Sfruttare la visibilità di eventi come la Supercoppa o di stelle come Cristiano Ronaldo è solo una parte di questo processo, che di recente è sfociato anche nell’irruzione sulla scena del calcio europeo. È il caso del Newcastle, acquisito due anni fa dal fondo PIF (di cui si parlerà in seguito), in un’operazione che ha ricordato quelle lanciate dal Qatar per il PSG e dagli Emirati Arabi Uniti per il Manchester City.
Supercoppa d’Arabia
Non a tutti, comunque, è piaciuto assistere a un derby della Madonnina a quattromila chilometri da San Siro. Anzi. I tifosi giunti dall’Italia erano meno di mezzo migliaio – i costi della trasferta, del resto, non erano affatto trascurabili – e la questione etica rimane sullo sfondo. Tra i detrattori svetta Gabriele Gravina, presidente della Federcalcio, che si è detto «rattristato nell’assistere a Inter-Milan in Arabia Saudita, davanti a soli 400 italiani». Intanto, dietro le quinte è già iniziato il negoziato per l’assegnazione delle prossime edizioni della Supercoppa. Nel 2018 l’Arabia Saudita si era aggiudicata tre finali, all’interno di un accordo da 24 milioni di euro che è stato completato con due anni di ritardo a causa della pandemia. Ora, sul tavolo c’è l’offerta per il rinnovo della partnership, che prevede quattro delle prossime sei Supercup, e oltre 140 milioni. A patto, però, che si segua l’esempio spagnolo e si converta il formato in final four: un trittico di partite – semifinali e finale – che aggregherebbe alla (ben retribuita) trasferta nel Golfo anche le seconde classificate in campionato e in Coppa Italia.
Si tratta di una proposta, neanche a dirlo, attraente per la Lega Calcio e per società di medie dimensioni; basti pensare a chi potrebbe avere l’occasione l’anno prossimo, considerando il tabellone della Coppa Italia. Un formato, però, difficile da digerire per i top club, restii ad ingolfare un calendario che in futuro verrà appesantito, e non poco, dalla nuova Champions League.
Il mercato della penisola – un bacino di utenza e sponsor con enorme potenziale – è ancora poco esplorato, ma si è già dimostrato fertile per il nostro calcio. La presenza e il seguito nel Golfo di alcune squadre, in primis il Milan, lo conferma. Non è un caso che il derby del 18 gennaio abbia convogliato a Riyadh tifosi rossoneri da tutto il Paese – più di 7 milioni, secondo i dati Nielsen – e da quasi tutti gli Stati confinanti. Fuori dallo stadio c’erano ragazzi in arrivo da Bahrein, Kuwait, Dubai, Abu Dhabi, Doha e perfino da Amman, in Giordania.
Per il governo di MBS ospitare la Supercoppa è parte di una visione politica e sociale, e dunque il discorso non può essere decontestualizzato dai rapporti diplomatici tra Stati. L’Italia è unita all’Arabia Saudita da solidi legami commerciali, non solo per l’importazione del petrolio (da quello che è il principale partner commerciale nella regione), ma anche per l’esportazione di armi, macchinari, elettrodomestici e prodotti alimentari. Del resto, come diceva Gaetano Micciché, ex numero uno della Lega Serie A: «Il calcio fa parte del sistema culturale ed economico italiano, e non può seguire logiche diverse da quelle del Paese».
«Tra dieci anni saremo il centro del calcio»
Giusto il tempo di archiviare i successi di Inter e Barcellona, al King Fahd Stadium era già arrivato il giorno della rivalità calcistica che ha cresciuto una generazione: Cristiano Ronaldo contro Leo Messi. Dodici degli ultimi quattordici Palloni D’Oro: si presentano così gli antagonisti perenni della secolare sfida tra Real Madrid e Barcellona. E, chissà, dei prossimi clásicos di Riyadh. Dopo che l’Al-Nassr ha convinto il portoghese a trasferirsi nella Saudi Football League, con oltre 200 milioni di euro all’anno fino al 2025 (in un accordo che potrebbe estendersi anche dopo il ritiro dal calcio giocato), i rivali cittadini dell’Al-Hilal sognano di rispondere con l’ingaggio dell’argentino, per cui sarebbero disposti a mettere sul piatto una cifra ancora più consistente. Si parla di 250-300 milioni annui, che si sommerebbero a quelli che il giocatore già percepisce da qualche anno in qualità di ambassador del turismo saudita.
In occasione dell’amichevole con il PSG, i cori per Messi sono stati una costante per tutto l’incontro e in generale l’accoglienza riservatagli dal King Fahd Stadium è stata molto calorosa. D’altronde, dopo l’arrivo di Ronaldo niente sembra più un miraggio. E la fattibilità dell’operazione è garantita, come nel caso dell’Al-Nassr, dal sostegno del Public Investment Fund (PIF), il ricchissimo fondo sovrano saudita.
Nel 2021 il PIF ha acquisito l’80% del Newcastle, per cui ha investito quasi 500 milioni di sterline con l’obiettivo dichiarato di far tornare la squadra ai vertici della Premier League. Ai tempi, la Football Association e il club rispondevano alla pioggia di critiche e accuse di complicità, fornendo rassicurazioni sul fatto che “il Regno dell’Arabia Saudita non controllerà il Newcastle United”. Una puntualizzazione che è difficile prendere sul serio, considerando che ai consigli di amministrazione del fondo partecipano stabilmente Mohammed bin Salman, in qualità di presidente, e quasi una decina di alti funzionari del Regno.
Il PIF è il motore finanziario dei progetti del Saudi Vision 2030, che alimenta con una liquidità sostanzialmente illimitata. Gli asset gestiti dal fondo superano quota 600 miliardi di dollari e il nome PIF è menzionato come “main partner” nella stragrande maggioranza dei programmi internazionali incoraggiati negli ultimi anni, a sostegno della trasformazione socio-economica voluta MBS. Lo sguardo è perennemente rivolto ad occidente, come testimoniano le partecipazioni in Facebook, Pfizer, Walt Disney, Starbucks, Uber, McLaren, Eni, Credit Suisse, Citigroup e Marriot Hotels; e con un particolare occhio di riguardo per la sfera sportiva, di cui l’acquisizione del Newcastle, la creazione della LIV Golf League e ora la firma di Cristiano Ronaldo da parte dell’Al-Nassr – club controllato più o meno direttamente dal Ministero dello Sport, di cui il principe è sostenitore – ne sono una conferma.
Un po’ come Parigi val bene una messa, la monarchia saudita ritiene che Ronaldo valga bene il miliardo di dollari spesi. Per mettersi sulla mappa del calcio mondiale con un ruolo di spicco e una timeline che non lascia spazio alla pazienza, infatti, il contributo che CR7 può garantire è enorme. La sua sola presenza decuplica la visibilità internazionale dell’Al-Nassr e di tutto il campionato locale, ne aumenta l’attrattività e, direttamente o indirettamente, fornisce una solida legittimazione per la candidatura del Paese alla Coppa del Mondo 2030. Che il Regno presenterà al fianco di Grecia ed Egitto (in precedenza si era parlato anche di Italia e Marocco), in una particolare proposta intercontinentale.
Chissà se davvero Messi seguirà le orme di Ronaldo, la prossima estate. Giusto in tempo per arricchire il biglietto da visita saudita ed accrescerne la forza gravitazionale, in attesa dell’importante decisione che verrà annunciata nel FIFA Congress 2024. In ogni caso, come ha detto Rudy Garcia, allenatore dell’Al-Nassr di Ronaldo, «tra dieci anni questo Paese potrebbe essere il centro del calcio».