La Roma ha restituito la felicità a Paulo Dybala

L'impatto dell'argentino in giallorosso è stato meraviglioso: è merito di un contesto costruito attorno a lui?

Rileggendo questa intervista di Paulo Dybala a Undici, la prima cosa a cui ho pensato è stata una strofa di una canzone di Andrés Calamaro, un cantante molto famoso in Argentina, che potremmo tradurre con qualcosa come “Cosa potrei volere di più che passare tutta la vita come uno studente in primavera?”. Da quel momento in avanti, Paulo Dybala avrebbe portato con sé tutti gli attributi della giovinezza, intesa come il momento non posticipabile delle nostre vite, quello in cui tutto è possibile. Pur con qualche infortunio e qualche minore passaggio a vuoto, è stato uno dei giocatori più decisivi della Serie A degli ultimi anni, come testimoniano i numeri (115 gol in 293 partite), l’importanza tattica nell’apportare sempre qualcosa di suo, le tante partite decisive che ha piegato con la sua tecnica. Alcuni gol, come quello contro la Lazio nel 2018 e quello contro l’Inter nell’ultima partita prima del lockdown, hanno indirizzato in modo tangibile un paio di campionati.

Tutto a un tratto, la giovinezza di Paulo Dybala, ancora intatta sul suo volto infantile, è sfumata dalla sua accezione migliore, quella di non avere limiti concreti alla propria ambizione, a quella peggiore, il senso di incompiutezza. A quasi trent’anni, è successo tutto in un colpo: i problemi fisici sempre più frequenti, la difficoltà nelle sue ultime stagioni – eccetto quella sotto la guida di Sarri, chiusa da MVP della Serie A dopo un’estate in cui sembrava sul punto di essere ceduto –, un progetto tecnico pensato sempre meno costruito attorno a lui. È tutto ciò che sappiamo di come finisce la giovinezza: in un attimo, svanisce. Nessuno, neanche volendo, riesce veramente a vivere tutta la vita da studente.

Fosse dipeso unicamente da Dybala, non se ne sarebbe mai andato dalla Juventus, come hanno raccontato le sue lacrime nel giorno dell’addio. Dybala ha scelto di proseguire alla Roma quell’appendice di carriera che probabilmente non si aspettava neppure di dover vivere. Lo scorso agosto, per la prima volta dai tempi del Palermo, Dybala ha iniziato una stagione senza l’obbligo di giocarsi lo scudetto. Quando gli è stato chiesto se avrebbe esultato in caso di gol contro la sua ex squadra, ha risposto «ovviamente no», come se fosse la cosa più scontata del mondo: nella sua storia manca completamente il topos della vendetta. Se molti giocatori, come Luis Suarez dopo essere stato scartato dal Barça o Hakan Calhanoglu dopo l’addio al Milan, sembrano aver trasformato il risentimento in benzina per il seguito delle proprie carriere, Dybala dà l’impressione di esserne abbastanza immune e di essere interessato quasi esclusivamente a quello che può fare in campo.

In un’intervista al El Pais, nell’anno del suo ultimo scudetto vinto, aveva parlato particolarmente bene di Sarri, perché è un allenatore che cerca il dominio, che che permette alla sua squadra di giocare in modo libero e prendersi dei rischi: «Io senza il pallone mi perdo», ha detto, anticipando quello che sarebbe successo due anni più tardi, in una Juve pensata per funzionare anche senza di lui. «Ho bisogno di toccarlo, ho bisogno di azione. Credo sia una necessità, un bisogno di generare qualcosa, tirare in porta, dribblare, fare un tunnel». L’ultimo Dybala juventino è stato un giocatore tormentato dagli infortuni, che aveva perso l’intesa con l’allenatore per lui fondamentale e stava assistendo a una squadra che non aveva più bisogno di lui. Più semplicemente, era un giocatore solo, e la sua solitudine prendeva forma anche in campo nelle logoranti fasi senza palla accettate dalla Juve.

Ad oggi Dybala, con la Roma, ha segnato dieci gol e servito sette assist in venti partite e, com’era prevedibile, ha dimostrato di essere un giocatore sovradimensionato rispetto al resto della sua squadra. La Roma non si può certo definire un contesto iper-offensivo, eppure quasi tutto ciò che produce di pericoloso passa da Dybala, da una sua giocata in piena libertà, dal modo in cui spaventa, attira a sé ed elude gli avversari quando galleggia intorno al limite dell’area, da una precisione brutale nel finalizzare che il suo modo ibrido e unico di interpretare il ruolo lo ha spesso costretto a lasciare in penombra, per sopperire ad altre mancanze del collettivo con la sua qualità a tutto campo.

Se Paulo Dybala è tornato a giocare a questi livelli, è prima di tutto perché si tratta di Paulo Dybala, uno dei più forti giocatori del calcio italiano degli ultimi anni e tutto ciò che gli è successo nelle due scorse stagioni sono stati imprevisti. Probabilmente, se cinque anni fa ci avessero detto che la squadra di cui era già la stella a ventinove anni lo avrebbe lasciato andare a parametro zero in questo modo, senza battere ciglio, e che nessun top club europeo ne avrebbe approfittato per ricoprirlo di soldi, avremmo faticato a crederci e ci avrebbe pure un po’ intristiti. Da questo punto di vista, anche la Roma è stata un imprevisto, ma gli ha dato immediatamente ciò di cui aveva bisogno e che probabilmente altrove non avrebbe avuto in queste dimensioni: una centralità incondizionata. Mourinho racconta di averlo richiamato in anticipo dalle vacanze post-Mondiale dicendogli che “non era certo di battere il Bologna senza di lui” e non perde occasione per elogiarlo pubblicamente, per ricordare che quando lui passa la palla “arriva rotonda”, mentre con altri “quadrata”. In questo ambiente, libero di trascinare come può fare solo un giocatore differente, Dybala sembra aver ripreso in mano la sua carriera.

In Argentina, quando si parla di “futbol de potrero” si intende il calcio di strada, praticato dai ragazzi in ogni fazzoletto di terra arida che la distesa di cemento del paesaggio urbano argentino concede: quel modo di giocare, fatto di dribbling e tecnica, di audacia, estro e astuzia è considerato il vero spirito del calcio argentino.«Più invecchi e più il calcio diventa serio, professionale, e ti rendi conto che alcune parti del tuo calcio sono rimaste indietro. A volte incontri allenatori che ti lasciano liberi ed è la cosa più bella che ti possa capitare», ha detto al Guardian. Probabilmente è vero che non si può rimanere giovani per tutta la vita, ma per Paulo Dybala giocare il suo calcio, unico e straordinario, è la cosa che più gli si avvicina.