Come è cambiata l’arte di fotografare lo sport?

Da quando gli atleti sembravano eroi del cinema fino a oggi, in una mostra fotografica da Jesse Owens a Zidane.

Li vedi lì, ritratti come divi di Hollywood. Con i chiaroscuri a scolpire mascelle e muscoli, davanti a cornici antiche, poltrone di velluto rosso porpora e location sontuose. Sono i campioni dello sport raccontati, insieme ad altre icone del Novecento, nella mostra CHRONORAMA. Tesori fotografici del 20° secolo allestita fino al 7 gennaio a Palazzo Grassi a Venezia. Un viaggio nel tempo e nella storia scandito attraverso le immagini provenienti dagli archivi di Condé Nast, in parte acquisiti dalla Pinault Collection. L’esposizione segue un ordine cronologico: dagli anni Dieci fino agli albori degli anni Ottanta. Quasi un secolo in compagnia dei lavori di oltre centocinquanta artisti internazionali come Edward Steichen, Berenice Abbott, Cecil Beaton, Lee Miller, André Kertész, Horst P. Horst, Diane Arbus, Irving Penn, Helmut Newton. Tutti insieme appassionatamente hanno contribuito a definire l’estetica artistica del tempo attraverso la pubblicazione del proprio lavoro su riviste come Vogue, Vanity Fair, House & Garden, Glamour, GQ.

Attori, modelle, politici, scrittori, ballerini e ovviamente sportivi. Questi ultimi immortalati come stelle luminose e senza tempo. La disciplina più rappresentata di tutte è il pugilato, con i suoi eroi senza macchia e senza paura, dalla mascella squadrata. La noble art è paradigma di forza e coraggio, caratteristiche assai apprezzate dai giornali della prima metà del secolo scorso. Figure come quelle dell’americano Joe Louis o del tedesco Max Schmeling, campioni mondiali dei pesi massimi anni Trenta e Quaranta, qui non hanno nulla a che invidiare a quelle dei grandi del cinema o del teatro. Così, camminando fra le sale dell’edificio settecentesco che si affaccia sul Canal Grande, si vede un riflessivo Joe Louis avvolto dall’accappatoio e dall’ombra, ritratto nel ’35 da Lusha Nelson per Vanity Fair, tenere perfettamente il passo di un sorridente Cary Grant, fotografato da George Hoyningen-Huene l’anno prima.

Sport e cinema in quell’epoca sono quasi sinonimi. Il primo, che è dinamismo per eccellenza, è sublimato da futuristi come Balla e Boccioni e raggiunge una delle sue vette più alte con le Olimpiadi di Berlino del 1936. Quelle organizzate da Adolf Hitler e raccontate dal film Olympia di Leni Riefenstahl, dove gli atleti non sembrano solo atleti ma qualcosa di più: sculture greche, figure mitologiche. Come quella di Jesse Owens, assoluto protagonista degli anni Trenta. L’atleta originario di Oakville, Alabama, è qui glorificato ancora una volta dalla fotocamera di Lusha Nelson. Il suo ritratto è esposto ad una manciata di metri da quello di Fred Astaire in smoking che danza, realizzato nel ’39 da Andre De Dienes. I due personaggi sembrano provenire da mondi lontani eppure la figura del velocista regge perfettamente il confronto con quella dell’attore. Leggenda da un lato, leggenda dall’altro. Muscoli in bella vista anche nella foto che Edwin Levick fa al nuotatore olimpionico Johnny Weissmüller, futuro Tarzan al cinema.

Max Schmeling, campione tedesco di pugilato (Hans Robertson, Vanity Fair 1930)
Il pugile Joe Louis, detentore del titolo di campione del mondo dei pesi massimi dal 22 giugno 1937 al 1º marzo 1949: un record ancora imbattuto (Lusha Nelson)

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, però, qualcosa cambia. La percezione del campione muta. Si allenta un po’ l’iconografia eroica e un po’ pomposa della figura virile e ci si sposta verso un’ideale decisamente più umanizzato. L’esempio è dato dalla star del baseball Willie Mays, ritratta in volo, mentre cerca di afferrare una pallina da Irving Penn. È il 1954. L’esterno dei San Francisco Giants è protagonista di uno scatto ironico, meno austero di quelli griffati nei decenni precedenti. La divinità dunque si fa lentamente carne. L’immagine dello sportivo raccontata nei media si evolve alla velocità della luce.

Il punto più alto di questa metamorfosi si ha con il ritratto di Arthur Ashe, firmato anche stavolta da Irving Penn. Siamo ormai nel 1968 e ci troviamo in una delle ultime sale della mostra. Il tennista ci guarda dritto negli occhi. Ha l’espressione intensa che però nasconde salvifiche crepe di fragilità. L’opera che raffigura Ashe è quasi uno spartiacque che chiude l’esposizione curata dal francese Matthieu Humery. Ma apre, di fatto, una breccia nel modo di ritrarre le star dello sport. Nei decenni successivi arriveranno le polaroid di Andy Warhol dove sfileranno John McEnroe, Wayne Gretzky, Pelé, Vitas Gerulaitis, Chris Evert, OJ Simpson e Kareem Abdul-Jabbar. Poi sarà il momento dei primissimi piani di Martin Schoeller dove i volti di Andrè Agassi, Roger Federer o Michael Jordan – accanto a quelli di Barack Obama, Kanye West o Angelina Jolie – vengono ispezionato fin nel loro minimo dettaglio, fin nella loro minima imperfezione. L’evoluzione iconografica toccherà il suo culmine nel 2006 con l’opera Zidane: a 21st Century Portrait, non un’immagine ma una sofisticata videoinstallazione firmata a quattro mani da Douglas Gordon e Philippe Parreno dove 17 telecamere mostrano il centrocampista del Real Madrid sudare, scattare e faticare come uno di noi (o quasi). Un’opera in bilico fra il concettuale e l’agiografia del mito contemporaneo, che sembra lontana anni luce dagli oltre 400 portraits esposti a Venezia. Ma che ci rivela in modo inequivocabile quanto abbiamo ancora oggi bisogno di confrontarci con i modelli dello sport per scoprire un po’ più di noi stessi.