Quando la squadra sta andando male, il risultato sembra ormai certo e la sconfitta è un orizzonte assai vicino, i tifosi di curva, siano in casa o in trasferta, provano ad alzare la voce e cantare più forte. Ritmato: “So-lo gli u-ltras vinco-no sem-pre”, perché il risultato del campo è indiscutibile, ma del resto si può parlare, ci sono altri parametri. E allora se gli ultras restano in piedi nonostante il risultato, se cantano ancora più forte, se riescono a dare sfogo all’amore per la propria squadra, ma anche a quello ugualmente grande per loro stessi, hanno vinto. La loro può essere anche un’altra partita, una prestazione che prescinde dal risultato: si giocano la credibilità, ogni volta, per novanta minuti. Provando ad applicare questo metro all’intero momento del calcio italiano, alle sue parti una per una, alle sue forze dirigenti, a chi va in campo e chi sta fuori, è giusto chiedersi se gli ultras – in questo campionato, in questi anni – stanno vincendo. E la risposta, se ci si approccia al tema scrollandosi i pregiudizi e poggiando da qualche parte lo snobismo, dovrebbe essere unanime. Sì, stanno vincendo.
Sono sopravvissuti alla più grande negazione del tifo, dell’appartenenza, dello spirito di comunità che si potesse immaginare: gli stadi vuoti, sbarrati dal terrore della pandemia, in cui l’unica curva che entrava nel dibattito era la curva del contagio. Un momento in cui i cori erano aggiunti come sottofondo dalla tv perché non poteva cantare né entrare nessuno o diffusi dagli altoparlanti per colmare il terrore del vuoto nello stadio. Gli ultras hanno visto il nemico in faccia: per anni hanno temuto (un po’ hanno anche voluto credere) che ci fosse un piano per rendere il calcio solo un prodotto televisivo, senza l’impellenza dello stadio e l’importanza dei tifosi, con le curve sgombre e i cori nel cassetto impolverato dei ricordi. Adesso, invece, sembrano sostenuti da un consenso più vasto di prima, proprio perché chiunque si è accorto che quello di uno stadio trasformato in un composto set cinematografico sarebbe un futuro invivibile, che gli ultras sono qualcosa di cui è meglio non fare a meno, che il calcio ha ancora bisogno di carne viva, non di sepolcri silenziosi. Hanno guardato il nemico, quindi, e l’hanno sconfitto appena se n’è presentata la possibilità, riprendendosi la scena. E se qualcuno indica il bello del pallone, il moralista si concentra sul dito e vede gli scontri in autostrada tra tifosi romanisti e napoletani (unico grosso episodio segnalato in un’intera stagione) e un presente buio. Chi, invece, guarda la luna, vede il campionato più popolato da almeno vent’anni a questa parte. Lo dicono i numeri, le presenze medie, cose che durano più dello spazio fugace destinato all’indignazione.
Il movimento ultras sta bene, ed è molto probabile che i dati in ascesa di un campionato praticamente dominato da una squadra sola, quindi senza troppa tensione, e da qualche tempo non tra i più avvincenti d’Europa per qualità del gioco e dei giocatori, siano proprio l’effetto di un’impennata della voglia di tifo. E il tifo nasce ancora da chi all’organizzazione della curva, a come tifare e come farsi sentire, pensa per l’intera settimana. «Il movimento ultras italiano», spiega Sébastien Louis, storico e studioso del tifo, autore del libro Ultras, gli altri protagonisti del calcio, «ha sofferto molto negli ultimi anni, per la repressione, per le diffide, per le trasferte vietate. Ma, essendo un movimento nato in Italia, ha dimostrato di avere radici fortissime. È stato un albero esposto a un vento fortissimo e contrario, che ha barcollato. Ma adesso è ancora lì, al suo posto. Chi ha sofferto, negli anni difficili del movimento, sono stati anche gli altri spettatori: perché se la gente va allo stadio non è soltanto per il calcio, ma per l’atmosfera incredibile che si crea all’interno. E la creano gli ultras».
Il braccio di ferro tra il sistema e un movimento antagonista per genesi è sempre stato sbilanciato. E, però, non ha provocato la fine del movimento. Il sistema, in questo caso inteso come Stato, dirigenti sportivi e anche media dominanti, ha pensato per anni che l’unica via per contenere la violenza fosse la repressione e la scomparsa degli ultras e con ogni arma ha cercato di togliere spazio a chi va in curva nell’illusione di creare l’isola che non c’è, altrimenti detta “stadio per le famiglie”. Quindi via gli strumenti del tifo, via le trasferte, possibilità di arresto in flagranza differita, Daspo e ogni altra forma di divieto che non aveva lo scopo di fermare gli episodi violenti (che, di fatto, negli stadi sono sempre meno), ma di svuotare la parte che, invece, talvolta vale tutto lo stadio, anche per i bambini e, quindi, per le famiglie. Vale, come sintesi, ciò che Nanni Balestrini scriveva, con una voluta assenza di punteggiatura, nel suo I Furiosi, un po’ romanzo, un po’ poema, un po’ invettiva sul mondo ultras: «Mio padre è milanista da sempre (…) e va sempre allo stadio mi ha portato la prima volta che avevo sei anni mi ricordo che era un derby che abbiamo vinto 1 a 0 però quello che mi ricordo di quella partita non è la partita quello che mi colpiva era lo spettacolo dei tifosi non riuscivo a guardare la partita più di tanto perché ero attratto da questi cori da tutte queste cose che succedevano lì nella curva dalle bandiere dalle trombe dai fuochi dai tamburi». Forse per questo gli ultras sono riusciti a resistere a tutto, anche quando la loro massima ascesa di fine anni ’90 è stata frenata poco dopo l’inizio del nuovo millennio: «Il movimento ultras italiano», spiega Louis, «è stato fonte d’ispirazione in tutto il mondo, e questa è stata la sua grande vittoria culturale. Però è stato molto in crisi tra il 2007 e il 2017: l’introduzione della tessera del tifoso, altre forme di repressione invece che di prevenzione, come abolire i treni speciali, che sarebbe stata invece una modalità che avrebbe evitato l’incontro in autostrada tra napoletani e romanisti, hanno reso difficile, per molti motivi, fare l’ultras. Eppure il movimento non ha mai ceduto del tutto, impegnato a resistere nonostante le difficoltà che ha incontrato. E dal 2017, con la tessera del tifoso più o meno sospesa, abbiamo visto un ritorno negli stadi».
Tutti gli strumenti utilizzati per arginare le violenze erano pensati per arginare il tifo, renderlo corollario, far sciogliere i gruppi. Ma quella ultras è una sottocultura che ha regole non scritte proprie e che con un nemico unico si fortifica. Provare a sradicarla ha danneggiato, negli anni di massimo conflitto tra istituzioni e ultras, un po’ le curve, ma molto il calcio. Perché allo scioglimento di vecchi gruppi falcidiati dalla repressione hanno fatto seguito la creazione di gruppi più piccoli, meno controllabili, picconando l’organizzazione piramidale che, in qualche modo, manteneva anche l’ordine. Di fatto, il caos. Che ha reso confusionaria anche la programmazione delle società, alle prese con il dubbio della tenuta dello zoccolo duro. «Sicuramente», dice Pierluigi Spagnolo, autore del libro I ribelli degli stadi, «il movimento ultras italiano è lontano dall’epoca d’oro, dal fervore degli anni Ottanta e Novanta. I gruppi storici sopravvissuti fino ad oggi sono pochissimi. È una sottocultura che hanno cercato di indebolire con leggi e regole stringenti e con lo strapotere delle pay tv. Si sono svuotati gradualmente gli stadi, si è cercato di ridimensionare il peso e il ruolo del tifo organizzato. Poi si è visto che il declino non era degli ultras, ma del calcio, e allora ecco tornare il movimento, vivo come non me lo sarei immaginato».
Vivo, ma non senza i suoi problemi. Un movimento di massa non è mai esente dalla criticità: «Soprattutto manca il ricambio generazionale», dice Louis. «Tanti giovani fanno fatica ad andare in curva, non per gli ultras, ma per il caro biglietti, per lo spezzatino, per le difficoltà a comprare i biglietti, per gli stadi fatiscenti, per la gestione dell’ordine pubblico che è un disastro». «Il mondo ultras», aggiunge Spagnolo, «risente e assimila anche i cambiamenti del “calcio moderno”: molte curve, soprattutto le più grandi, danno sempre più peso all’immagine social, al merchandising, all’estetica e al look, come le società di calcio e i giocatori di oggi».
L’alleato del movimento ultras è il tempo: i campionati durano più dei giorni di indignazione per un episodio controverso. Le richieste di pugno duro, di chiusura delle curve, che a volte diventano provvedimenti emotivi più che restrittivi (perché è rimasto molto poco da restringere), hanno una ciclicità così regolare in ogni stagione da non godere poi ogni volta della stessa credibilità. E quindi basta aspettare perché gli ultras tornino i protagonisti di cui il calcio ha bisogno. Per questo, dopo il periodo degli stadi in silenzio, sono tornate le folle. E le folle hanno bisogno di chi le trascina: «Temevo», aggiunge Spagnolo, «che un anno e più con gli stadi vuoti e poi con il pubblico “contingentato” avrebbe portato la massa dei tifosi a preferire il calcio televisivo, lo show sul divano, alla frequentazione degli stadi. Invece noto una straordinaria voglia di tornare a vivere la passione dal vivo. Non a caso, gli stadi di serie A e B sono quasi tutti pieni. E le curve stanno ritrovando numeri importanti in casa, spesso anche in trasferta, quando è consentito viaggiare e ci sono settori ospiti adeguati».
Ci sono voluti anni per limitare i danni del salto generazionale (perché durante il lungo periodo di crisi del movimento una generazione è andata altrove e non è entrata in curva) e rimanere attrattivi nonostante il vento contrario, nonostante la narrazione preferita sia quella di enfatizzare le malefatte di pochi o anche molti, dimenticando i moltissimi che, invece, hanno il tifo come priorità, rispettano i precetti di un mondo a volte chiuso in sé stesso in nome della mentalità, ma che rimane quello che si prende il compito di trascinare il calcio, a furia di cantare. Sono tempi nuovi, adesso: «Il post Covid», ribadisce Louis, «ha portato a un’esplosione della voglia di comunità. La gente ha riscoperto dopo la pandemia la bellezza dell’aggregazione, del viaggio, e quindi trasferte, partite. Il calcio ha dimenticato velocemente, aveva fretta di ripartire e si è accorto che senza pubblico è niente e senza ultras è triste. In Italia, poi, lo stadio è un’esperienza a trecentosessanta gradi, per fortuna ancora lontana dalla versione teatrale del pallone che in molti sognano e che in qualche parte del mondo già vediamo. Chi gestisce il calcio, chi decide, chi fa le leggi dovrebbe capire che la tifoseria è un patrimonio da tutelare». In una fase in cui nessuno aveva chiesto prove di forza e tutti ci siamo, anzi, scoperti deboli, anche il calcio è andato alla ricerca dei suoi affetti stabili. E ha trovato un movimento che non ha una sua organizzazione (è fatto di gruppi, ognuno con la propria) ma che, con alle spalle oltre cinquant’anni di attività (il primo gruppo ultras, la Fossa dei Leoni, si affaccia nel 1968) ha dimostrato di essere ancora incredibilmente attuale, persino essenziale. Chi non lo sapeva, lo ha scoperto da poco. Chi non la pensava così, probabilmente ha cambiato opinione.